di Alessandro Casellato
Un anno fa arrivò ad AISO una richiesta di aiuto: un gruppo di persone in provincia di Sondrio aveva avviato una raccolta di testimonianze sul ’68 e chiedeva un incontro per una verifica sul metodo da seguire. Le cose sono andate avanti e da quella ricerca sono nati un archivio on line e un libro, Racconti del Sessantotto. La stagione dei movimenti in provincia di Sondrio, di cui pubblichiamo la prefazione in forma di lettera scritta da Alessandro Casellato.
Care compagne e cari compagni,
leggere le vostre storie di vita è stato un po’ come ritrovarvi ancora dopo il nostro primo incontro di settembre, quando mi invitaste a venire a Sondrio. Avevate chiesto all’AISO un supporto metodologico per un lavoro, che era già ben avviato, di raccolta della memoria del ’68 in Valtellina. Arrivai lì senza sapere quasi niente di voi e di quel che avevate fatto, né di preciso quel che cercavate da me. Mi stupì la modalità del ritrovo: una sala a piano terra di una vecchia casa ristrutturata, ex osteria ed ex sede di partito, incredibilmente piena a metà pomeriggio di sabato; decine di persone venute a sentire parlare, sul ’68 e la storia orale, proprio l’unico in sala che nel ’68 non era ancora nato. Mi sorpresero la presenza di tutti prolungata fino a cena, la polenta taragna preparata all’aperto, nella corte, dentro un enorme paiolo, e poi le storie che alcuni di voi cominciarono a raccontarmi prima, durante e dopo la cena.
Ero chiaramente finito dentro un rito collettivo di rigenerazione di un gruppo, d’una comunità che – lo capii via via – si era un po’ allentata nel corso dei decenni ma in corrispondenza del 50° anniversario del 1968 era stata riattivata (da Franco Gianasso e qualche altro), e in quel momento per la prima volta tutta insieme si ritrovava faccia a faccia per parlare e sentir parlare di sé, per riprender vita. Era una vera e propria “unità di generazione” legata a un evento – il lungo ’68 – e a un contesto specifico – Sondrio, la Valtellina, con le valli laterali e i piccoli paesi che vi si affacciano – che proprio intorno a quella a casa, nel quartiere attraversato da via Scarpatetti, aveva uno dei propri luoghi di memoria più densi.
Tutte queste cose – la geografia della valle, i nomi dei piccoli paesi, la topografia sentimentale e politica della città di Sondrio – le ho scoperte solo mesi dopo, quando Franco (Micio anche per me, da adesso) mi ha spedito le trascrizioni dei vostri 75 racconti autobiografici. Non conoscevo la Valtellina; prima di settembre ci ero stato una sola volta, da studente, per una ricerca di gruppo sull’emigrazione temporanea tra Grosio e Venezia. In un attimo, prendendo il volo della lettura, sono stato portato dentro la storia della valle e ho imparato a percorrerla attraverso le narrazioni che voi avete fatto. Questa è la condizione specifica di chi fa storia orale: l’accesso al mondo passato glielo forniscono in prima battuta le persone di cui sollecita la rammemorazione.
Leggendo, vi ho conosciuti a uno a uno oltre che come gruppo. Ognuno con la propria storia personale, che è un modo particolare – unico e originale – di star dentro al racconto collettivo: uomini o donne, di città o di paese, studenti o operai, sessantottini o settantasettini. I testi hanno una genesi eterogenea: ne avevamo parlato già all’incontro di settembre. Alcuni sono il frutto di interviste fatte soprattutto da Franco, che non ha registrato i colloqui ma li ha trascritti e poi rielaborati narrativamente. Altri sono stati scritti direttamente da ciascuno di voi come pezzi della propria autobiografia. Quasi tutti sono stati orientati da una traccia di domande, un questionario di tipo sociologico pensato per far emergere informazioni come l’estrazione sociale e familiare e gli eventi, i luoghi e i personaggi “memorabili” del vostro ’68; insomma per indagare i punti condivisi della memoria collettiva. Ma nonostante ciò ognuno ha risposto a modo suo, e gli stili differenti sono riconoscibili.
Certe storie di vita mi hanno ricordato il memoir La gamba del Felice di Sergio Bianchi, anche lui nato e cresciuto nell’alta Lombardia, al confine con la Svizzera, ma dalla parte di Varese: sono i racconti di chi ha incontrato il ’68 per strada più che a scuola, cioè nella socializzazione di quartiere e di piazza, nelle bande giovanili a base territoriale. Emergono i ricordi delle compagnie di giovani operai e – come si diceva un tempo – sottoproletari che frequentavano le sale da ballo, ingaggiavano risse, praticavano il contrabbando; per questi teddy boys di provincia la rivolta rispetto all’ordine sociale costituito era un’opzione esistenziale e generazionale, e solo in seconda battuta è diventata anche politica. Sono loro ad aver per primi fiutato l’aria che si stava elettrizzando nel corso degli anni Sessanta e ad aver anticipato per molti aspetti lo scoppio del ’68. Quando parlano (o scrivono) hanno uno stile guascone, simile a quello delle Autobiografie della leggera di Danilo Montaldi; raccontano vite ispirate alla ricerca della libertà anche dopo la fine dei movimenti collettivi, condotte senza omologarsi ai modelli culturali dominanti anche quando i loro protagonisti hanno messo su famiglia e si sono lasciati la giovinezza alla spalle.
Il ’68 di chi era studente è leggermente diverso, e tutto sommato ormai noto grazie a un’ampia messe di memorialistica e di storiografia che anche quest’ultimo anniversario ha fatto maturare. Per esempio il libro Sessantotto. Le due generazioni di Francesca Socrate, che qualcuno ha conosciuto a Milano partecipando alla scuola di storia orale dell’AISO che si è svolta in ottobre. Oppure quello di Marco Boato – Il lungo ’68 in Italia e nel mondo – che una di voi ha ricordato in uno dei testi qui pubblicati.
La particolarità, nei vostri racconti, è che a Sondrio l’università non c’è; ci sono gli istituti superiori, che hanno dinamiche proprie, nelle quali un ruolo attivo è stato ricoperto anche da certi insegnanti o figure adulte di riferimento che spesso ritornano nelle testimonianze: Don Abramo Levi su tutti. Così come ritorna in diverse testimonianze il ricordo dei “raggi” di Gioventù Studentesca, che furono degli incubatori di un modo nuovo di stare insieme tra giovani prima del ‘68, e quello del Centro Rosselli di Sondrio, dove invece confluirono individui e gruppi di vario orientamento negli anni successivi.
Chi era già all’università – a Milano o a Trento – tornava in valle solo nel fine settimana, portando notizie fresche e racconti di prima mano dai luoghi in cui l’onda della contestazione sembrava più alta e le lotte più intense. Gli universitari, politicizzatisi nel movimento studentesco, organizzavano i gruppi locali, partecipavano ai doposcuola popolari e alle scuole serali per lavoratori, provavano a “dare la linea” ai compagni più giovani, e poi rifluivano verso la grande città. Qui però non si perdevano di vista tra loro ma formavano compagnie legate dalla comune appartenenza territoriale, proprio come le colonie degli antichi emigranti valtellinesi nella Repubblica di Venezia che avevo incontrato – nei racconti e negli archivi – quando ero a mia volta studente universitario e venni lì vicino a voi, a Grosio, con un gruppetto di coetanei al seguito del nostro professore di Antropologia culturale, Glauco Sanga.
Chi rimaneva in valle aveva forse il compito più difficile: tradurre la lingua del ’68 nel dialetto locale, cioè calare un fenomeno di portata mondiale nel contesto delle piccole città e dei paesi di montagna. Ma non definirei la Valtellina una periferia, come se fosse in secondo piano rispetto ad altri luoghi più centrali. Infatti leggere i vostri racconti mi ha richiamato alla mente altri ricordi di scuola: le lezioni di Marino Berengo che spiegava il ruolo fondamentale della Valtellina nei rapporti tra Venezia e i Grigioni, e quindi tra il Mediterraneo e l’Europa. Terra cruciale e pertanto contesa, teatro di uno dei maggiori conflitti politici e religiosi della prima età moderna. I racconti del vostro ’68 mi hanno fatto ricordare le cronache della diffusione della Riforma protestante in Valtellina nel Cinquecento: il governo dei Grigioni garantiva in quegli anni una tolleranza che altrove era preclusa, e così vi avevano trovato rifugio i più eminenti spiriti liberi d’Italia, in fuga dalle strette della Controriforma, provocando sommovimenti nel resto della società locale. Nel contado di Sondrio, la Riforma aveva dato la forza ai «nigri et excoriati rustici» per opporsi alle esazioni ecclesiastiche e nobiliari. In città, una donna «heretica marcia» trascorreva «il giorno in mezzo alla piazza con una Bibia vulgare […] legendo come dottoressa»: così scriveva l’arciprete Scotti al cardinale Borromeo, per denunciare il clima religioso e sociale che la Valtellina stava vivendo intorno al 1570. In questi episodi di trasgressione – intollerabile per l’ordine sociale: cento contadini che si ribellano ai signori; intollerabile per l’ortodossia: una donna che legge il libro in piazza e che vuol farsi dottoressa – ho ritrovato lo spirito e anche le immagini di alcuni vostri racconti.
Quando Alessandro Pastore descrisse questi fatti nella sua tesi di laurea (poi diventata libro col titolo Nella Valtellina del tardo Cinquecento. Fede, cultura, società) il ’68 era passato da poco; lui era uno studente milanese, classe 1947, vostro coetaneo: avrà avuto qualche nesso quel che gli accadeva intorno, quel che vedeva e sentiva nel suo presente, con le cose che studiava, con le persone e i contesti che riesumava dagli archivi?
Mi ha colpito – incuriosito – che nessuno di voi, stando a quel che avete scritto, si sia mai sentito in continuità, neppure fantasticamente, con le vicende esistenziali di altri “eretici” di quattro secoli prima che avevano calcato la vostra stessa terra: fu una breve ma intensissima esperienza rivoluzionaria, che si concluse con un “Sacro Macello”, che per fortuna a voi fu risparmiato, e con una lunga caccia alle streghe, per reprimere anche dai precordi dell’immaginario i germi di una cultura non allineata.
La vostra memoria storica, invece, risale indietro tutt’al più al fascismo e alla lotta partigiana. E non è poco, naturalmente, perché la frequenza con cui la Resistenza torna nelle storie familiari conferma il fatto che la Valtellina fu protagonista tutt’altro che periferica anche nel Novecento. Qui, anzi, si trovarono in prima linea soprattutto i paesi di montagna e i loro abitanti. Non vi nascondo che i racconti di chi ha incontrato il ’68 venendo da quei luoghi – da piccole località che ho trovato a fatica anche in Google map, da famiglie contadine e operaie – sono quelli che ho letto con maggiore interesse. Così come le testimonianze sui collettivi e i circoli giovanili di paese dove stavano insieme studenti e operai, quelle sulla “comune” della Palù vicino al Campanile Nero (il rudere di una chiesa evangelica data alle fiamme?), sulle assemblee femministe nelle piazzette e nei lavatoi parlando «con le donne che facevano la spesa, lavavano i panni alla fontana e curavano i bambini», sulla “grande marcia” lungo le strade di Verceia – paese di scalpellini in Valchiavenna – che accolse con una certa ironia gli studenti maoisti venuti dalla città (oggi quei paesi sono diventati tutti leghisti: un passaggio su cui ci sarebbe molto da chiedere e da capire).
A me pare che queste siano tra le cose più nuove, più fresche che la vostra ricerca ha prodotto. Non avevo chiaro, prima di leggervi, quanto il movimento del “lungo ’68”, che attraversa tutti gli anni Settanta, fosse stato un fenomeno davvero “sociale”, capillare, capace di entrare dappertutto. Mi ero fatto l’idea che fosse un’esperienza di élite, di intellettuali: questo me lo ha reso, con gli anni, via via meno simpatico. Anche io sono una vittima del populismo. Ma forse anche degli ex sessantottini di successo che hanno avvelenato i pozzi delle generazioni venute dopo, diventando – da adulti in posizioni di potere – gli apologeti del liberismo e delle guerre umanitarie (ne ha scritto in chiave autoelogiativa uno di loro, Paul Berman nel libro Sessantotto. La generazione delle due utopie).
Potrei continuare a scrivervi per pagine e pagine, attingendo ai mille spunti e aneddoti che le testimonianze contengono, collegandoli a letture e contesti più ampi, prefigurando piste di ricerca ulteriori che mi verrebbe voglia di proporvi, domande che vi farei volentieri, per sapere qualcosa di più, per precisare meglio alcuni passaggi. Questo è il segno che la vostra impresa di costruire un community archive del ’68 in Valtellina ha raggiunto il suo obiettivo: avete dissepolto un giacimento di memoria non inerte, non autoreferenziale, ma produttiva e suscitatrice di interesse e curiosità anche in chi non fa parte del gruppo. Penso che sia un risultato molto importante, benedetto da Clio. Mi auguro che ora riusciate a metterlo in sicurezza e garantire la conservazione di questi documenti, perché ritengo siano un patrimonio di conoscenze prezioso, e non frequente, per ampiezza e compattezza.
Venezia, 15 marzo 2019