di Francesco Brusco
L’intervista, com’è noto, costituisce uno strumento di indagine utilizzato da discipline assai diverse fra loro. Il dialogo con i protagonisti di fenomeni ed eventi storici e i racconti che ne scaturiscono sono oggi praticati da studiosi di varia natura i quali, sempre più frequentemente, mettono in luce quel valore aggiunto che la soggettività dei testimoni può apportare alla nostra comprensione della realtà.
Francesco Brusco – docente, musicista e studioso di popular music – ha deciso di dedicare la sua terza pubblicazione alla produzione musicale di Fabrizio De Andrè e, per raccontarne musica, collaborazioni e attività nello studio di registrazione, ha dialogato con alcuni importanti collaboratori che negli anni si sono alternati al fianco del cantautore genovese. Le voci di tecnici e musicisti non solo fanno emergere con forza il carattere collettivo della produzione musicale ma anche una nuova immagine di De Andrè, ben lontana da quella idealizzata e romantica alla quale spesso ci si è abituati.
Ho chiesto a Francesco di riflettere proprio sulla sua esperienza di “novello intervistatore” e cercare di parlarci del suo approccio con le testimonianze orali e di come queste hanno arricchito il suo lavoro. Ne è venuto fuori un articolo denso ma agile che credo posso farci comprendere ancora una volta il valore che la metodologia della storia orale può offrirci ma anche le impressioni di chi, per la prima volta, le si avvicina. (Gabriele Ivo Moscaritolo)
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In ambito musicale, lo strumento dell’intervista ha radici profonde. Per l’approccio etnomusicologico essa è imprescindibile strumento di conoscenza, mentre il contesto popular vi si lega sin dalla sua nascita, condividendone i nuovi mezzi di diffusione mediatica.
Su carta o su nastro, da leggere o da ascoltare, fino al video, che dell’intervistato ci restituisce il linguaggio nella sua totalità. In tutte le sue vesti, l’intervista rimane una fonte che non si limita al dato — storico, documentario, biografico, artistico — desumibile dalla testimonianza di chi la rilascia. Essa riguarda piuttosto l’auto-riflessione del soggetto sulla propria esperienza, un’interpretazione di se stesso e del proprio vissuto alla luce del tempo trascorso dai fatti narrati: il senso che egli attribuisce agli eventi vissuti, alle proprie azioni, alle proprie intenzioni.
Nelle mie precedenti monografie, dedicate alla produzione sperimentale dei Beatles nel biennio 1967-’68, mi era stato impossibile far ricorso a testimonianze dirette dei protagonisti di quell’esperienza. Ho potuto al contrario giovarmene per la scrittura dell’ultimo volume, Faber nella bottega di De André, pubblicato da Arcana lo scorso agosto e dedicato a un’analisi puramente musicale della produzione del cantautore genovese. Da novello intervistatore, ho ritenuto fosse fondamentale fare uso di tale strumento per due ragioni fondamentali. Da un lato la povertà di fonti scritte riferibili ai protagonisti di questo racconto, così come di quelle orali pertinenti agli argomenti trattati dal mio libro. Dall’altro, l’esigenza di dotare quest’ultimo di un forte connotato di oralità e di coralità, caratteristiche che lo accomunano alla musica di cui intende parlare.
Ho fatto ricorso a voci meno note rispetto a quelle tante volte interrogate dalla letteratura pregressa, andando a ricercare soprattutto i punti di vista dei musicisti e dei tecnici che hanno collaborato con De André in studio di registrazione. Nel riportare questo coro all’interno della narrazione, mi sono coscientemente ispirato al ritmo dei documentari musicali pensati per il mezzo visivo; racconti in cui alla voce fuori campo si alternano quelle dei protagonisti, variamente in rilievo su una base di suoni e immagini. Ovviamente la parola scritta può solo suggerire l’espressività, la prossemica e la gestualità proprie dell’immagine filmata. Durante la trasposizione scritta dei contributi orali, è stato fondamentale “arrangiare” su carta il ritmo della conversazione, considerando soprattutto la necessità di suddividere il racconto in stralci ed estratti di varia misura. Del resto, l’interesse va ricercato non tanto nei singoli brani ma, si spera, nella loro lettura d’insieme: un racconto, appunto, corale e polifonico.
La maggior parte della letteratura dedicata al compianto cantautore si mostra ancorata all’approccio biografico, che non di rado si fa agiografia: l’immagine di Faber ben si presta a perpetuare il mito romantico dell’artista tormentato, nonché dell’autore solitario, sebbene quest’ultima visione sia smentita proprio dalla natura fortemente collettiva della sua produzione musicale. Complice di questa costruzione dell’immagine è sovente lo stesso utilizzo delle interviste, allorché su di esse si trovi ad operare quella sorta di filtro attraverso il quale il narratore di turno seleziona aspetti parziali delle testimonianze dirigendole — attraverso le sue stesse domande — verso la costruzione desiderata.
Ho provato ad avvalermi di due elementi di distacco, due fattori tramite i quali distanziare l’intervistato dall’ingombrante immagine di Faber.
Il primo è puramente cronologico: i vent’anni trascorsi dalla sua scomparsa danno finalmente modo di inquadrarne in maniera più critica l’esperienza artistica. Il secondo è tematico: il focus prettamente musicologico su cui si concentra il libro. Non si tratta certo di una novità assoluta ma va comunque ricordato come la quasi totalità dei saggi dedicati all’opera di Fabrizio De André, più che alla sua biografia, si concentrino sul versante poetico. L’unico filtro adottato, nel presente volume, è stato rivolto a epurare i racconti da aneddoti e dettagli personali che non avrebbero aggiunto nulla al discorso musicale.
Ciò che ha colpito me per primo è stato il modo in cui i personaggi intervistati hanno trattato la musica di De André, della quale essi sono coprotagonisti; una maniera ben lontana dai toni santificatori sopra menzionati. Incentrare l’argomento sull’ambito musicale, nel quale lo stesso Faber riconosceva i propri limiti affidandosi ai diversi collaboratori, ha permesso una visione ancor più critica e disincantata della prassi su cui si fonda gran parte della produzione discografica del secolo scorso.
Se Massimo Spinosa, bassista per Crêuza de mä (1984) e tecnico per Anime Salve (1996) arriva a paragonare la lavorazione per quest’ultimo album a «un bagno di sangue», sottolineando che «Fabrizio era insicuro, e come tutti gli insicuri comunicava una grande tensione, una grande ansia», Paolo Iafelice — anch’egli collaboratore tecnico per Anime Salve — ricorda inediti risvolti del lavoro in studio con De André:
Dopo aver provato e riprovato, ed essere andati avanti, su un pezzo o che so, su un mix, ad un certo punto a volte arrivava il momento in cui lui diceva «è tutto una merda, è tutto da rifare!»;«Ma come, è tutto una merda? Ho fatto solo questo…se torno indietro, ritorniamo a dove eravamo ieri ed era tutto a posto…»…«No, è una merda, non funziona»…«Ma non ho toccato niente…», e allora diventavamo matti per capire cos’era quella cosa che di colpo rendeva tutto il lavoro da rifare… Questa situazione poteva durare due ore e all’improvviso, così come era venuta, passava. Magari modificavi una cazzata, e lui «Perfetto! Adesso funziona! Non toccare più niente!». Non so perché facesse così, ma questa era la cosa più assurda che succedeva con lui, e che rischiava sempre di mandare all’aria giornate intere di lavoro.
Per essere documento che resista nel tempo l’intervista musicale deve cercare di centrare il punto. Qui il punto non è tanto l’uomo quanto la sua opera. Come scritto nella prefazione, questo non è un libro su Fabrizio De André. Vuole essere, piuttosto, uno studio su alcuni aspetti della sua produzione di carattere principalmente musicologico. Una produzione dal carattere plurale e collaborativo. E in definitiva, viene semmai da chiedersi quanto i soggetti intervistati parlino di Faber e quanto invece raccontino, finalmente, di se stessi.