Recensione di Valentina Bonello.
«Sono passati cento anni, il mondo è cambiato, ma Marghera è sempre lì». Inizia con queste parole il docu-film di Andrea Segre Il pianeta in mare dedicato a Porto Marghera, il porto industriale creato a tavolino nel 1917 sulle sponde della laguna di Venezia. Porto Marghera ha consumato velocemente i suoi primi cento anni e dunque non è facile cogliere l’increspatura del presente di Porto Marghera, stretta com’è tra una promessa di futuro che divora costantemente sé stessa e un passato che non passa, ma Segre ci riesce egregiamente facendo dialogare sincronicamente presente e passato. I filmati d’epoca fanno da contrappunto alle riprese contemporanee, restituendo dinamicità alla storia e densità al racconto del luogo, andando quindi oltre l’apparente staticità di una zona industriale dismessa.
Il film è un’esplorazione, da dentro e dal basso, di Porto Marghera. Cosa per niente scontata: gli spazi industriali non sono (mai stati) pensati per il visitatore casuale, solo i pochi che ci lavorano o ci hanno lavorato la conoscono bene, perché hanno accesso al cuore di questa città nella città in cui il gigantismo degli spazi della produzione sovrasta la persona. Segre li segue, entra con loro nella città-fabbrica, e noi con lui possiamo sorprenderci davanti alla grandiosità dei macchinari, delle architetture, delle banchine, degli impianti. L’esperienza visiva dello spettatore si arricchisce attraverso l’ascolto: sentiamo i rumori del petrolchimico, di una nave che piano piano prende forma, di un impianto che pezzo a pezzo viene smontato. I rumori tecnici delle produzioni restituiscono la voce e quasi il respiro di un organismo complesso, che in cento anni è cambiato ma non si è fermato mai, perché se dismissione c’è stata, e c’è ancora, questa non significa la parola fine. In questo il film ha il pregio di lasciare da parte una certa smokestack nostalgia e una certa indulgenza nel ruin porn, mostrando che Porto Marghera non è una generica landa di rottami. È acciaccata, ferita, ma ancora viva e in parte capace di andare oltre le rovine: le produzioni classiche, ridimensionate e tecnologizzate, convivono a poca distanza con le nuove imprese digitali e creative, che hanno trovato a Porto Marghera spazi adatti per nascere e crescere e lì vedono il proprio futuro.
Le nostre guide in questa esplorazione sono gli abitanti di Porto Marghera, vecchi e nuovi, che quotidianamente la attraversano, ci lavorano, la rileggono con il loro sguardo e ci ritornano, anche solo coi ricordi. Sono manager d’azienda, operai ed ex-operai, impiegati, chi cucina per loro e ancora chi “manovra” questa macchina grandiosa: che si tratti di una gigantesca gru, di un pannello di controllo, di un’enorme nave container o di un TIR. Entriamo nelle loro giornate, attraverso la selva di tubature degli impianti, le lamiere grezze delle navi da crociera; ci fermiamo per un istante con loro durante le pause pranzo all’ombra di un muretto, in mensa e li vediamo muoversi rapidi e nervosi tra i tavoli della trattoria; siamo con loro sulla cima di una gru, nelle sere afose che accompagnano un karaoke o ancora tra i resti materiali e i ricordi di una storia di lavoro e di lotta. Idealmente li osserviamo durante una giornata “tipo”, in cui i gesti quotidiani sono accompagnati da chiacchiere, ordini e gergo tecnico, toni scherzosi, pensieri detti a voce alta. Li ascoltiamo cantare: una canzone popolare veneziana, lenta e dolce come ritmi della laguna, apre il film; un canto in bengalese riecheggia dentro alle cavità di una nave accompagnando il lavoro silenzioso degli operai; al karaoke si canta Se bruciasse la città: non sappiamo se la scelta sia casuale o voluta, ma quante volte in cento anni Marghera ha rischiato di bruciare?
Questo contribuisce in maniera sostanziale alla curvatura documentaristica del film, nel senso in cui le microstorie prendono forma direttamente dalle parole e dai movimenti dei protagonisti. In questo il docu-film si avvicina al lavoro di storici, antropologi e sociologi, e di chi in generale lavora con le fonti orali, ma allo stesso tempo esattamente questo aspetto sollecita degli interrogativi circa l’uso dell’audiovisivo come strumento di indagine, raccolta sul campo e restituzione. Il regista non interviene mai in questi quadri di vita quotidiana, ripresi nella loro spontaneità, rimane quindi poco chiaro, non esplicitato, quale sia il suo posizionamento all’interno della scena e del momento, di cui pure fa parte. La sua presenza e la presenza della macchina da presa, hanno in qualche modo influenzato la postura, il vocabolario, le modalità di auto-rappresentarsi dei protagonisti? Trattandosi di attori non protagonisti, come è stata contrattata la presenza del mezzo tecnico di ripresa e la naturale tendenza a “parlare al registratore” anziché al ricercatore? È difficile capire da quale input siano partiti regista e protagonisti per co-costruire le loro storie: una domanda, una chiacchiera a tu per tu, una provocazione? Dietro alla spontaneità dei protagonisti non riusciamo a scorgere i termini dell’interazione tra regista e abitanti. Queste osservazioni nascono da un sapere pratico che molti di noi che lavoriamo facendo ricerca sul campo e con le interviste condividono, ma anche da alcune piccole smagliature visibili nella postura dei protagonisti. In alcuni casi si vede lo sforzo di non parlare alla camera, di non chiamare in causa chi è dietro la macchina da presa, che pure è presente e in quell’istante è (o dovrebbe farsi) primo interlocutore e in seguito soggetto mediatore tra i protagonisti e noi. Ad esempio, nelle scene in cui i due tecnici chimici ricordano gli anni di lotta per salvare il lavoro e il “loro” impianto, il dialogo tra i due sembra sempre chiamare in causa un terzo soggetto che è lì, a cui il racconto è rivolto perché il raccontare stesso abbia senso e valore, ma infine non si palesa.
L’interazione tra protagonisti e regista sulla scena, anche ridotta al minimo, avrebbe contribuito in altri casi a smontare punti di vista strettamente personali, ricollocando le storie individuali all’interno di quadri più ampi. Il caso degli imprenditori digitali, ad esempio, ci restituisce una prospettiva strettamente personale sulla dimensione locale/globale che oscilla -banalmente- tra una Skype call con New York e l’osteria di paese. Per il resto poco o nulla capiamo realmente di cosa si occupano, della cultura imprenditoriale digitale che rappresentano e di come questa abbia permesso ad un’azienda giovane di inserirsi nel mercato mondiale mantenendo le radici a Marghera. La Marghera digitale è sicuramente una delle trasformazioni più interessanti e promettenti degli ultimi anni ma ancora molto poco conosciuta. È un fenomeno a sé, che risponde a logiche altre, sovra-locali? è parte di Marghera nel segno della continuità o della rottura? è entrambe le cose? Approfondire il punto di vista dei protagonisti di questa evoluzione digitale della produzione e del lavoro sarebbe stato molto importante.
In alcuni momenti, dunque, all’occhio e alle orecchie di chi lavora con le fonti orali, questi tasselli mancanti concorrono a costruire un effetto “mosca sul muro”: senza la guida del regista, il suo essere in campo anche se fuori dall’inquadratura, senza conoscere le domande che ha posto prima o durante, a volte fatichiamo ad entrare veramente nelle storie.
Al netto di queste osservazioni puntuali, nel complesso le storie dei protagonisti concorrono ad un racconto corale che spazia nel tempo e nei luoghi. Porto Marghera allora si rivela veramente come un pianeta in mare, ma in un duplice senso: non più corpo estraneo precipitato in laguna, ma specchio, quasi un frattale, della globalizzazione in cui tutto è mobile e temporaneo. Il mondo è cambiato e con esso Porto Marghera. In mensa un operaio ricorda che un tempo chi veniva da fuori per lavorare nelle aziende del porto era soprattutto uno come lui: l’emigrato del sud Italia, subito etichettato come “terrone”, e quanto tempo c’è voluto per inserirsi, per imparare un nuovo dialetto. Oggi i nuovi lavoratori sono anche gli emigrati del sud del mondo, definizione socioeconomica più che geografica. Porto Marghera allora smette di essere un mondo chiuso (e morente) per acquisire una dimensione più ampia: è luogo di arrivo e di partenza, parte di un paesaggio del lavoro dai confini ampi e sfumati. Ed è soprattutto la polifonia di voci che ci restituisce questa ampiezza. Durante il film ascoltiamo i nuovi lavoratori di Porto Marghera mentre parlano nella loro lingua madre o in italiano come lingua comune, li sentiamo cantare. Di cosa parlano gli operai bengalesi, nigeriani, rumeni quando discutono tra loro, al cellulare, sull’autobus, per strada, sul balcone? Delle stesse cose di cui parliamo tutti: della nostalgia di casa, dei desideri che si hanno a vent’anni, dei figli che crescono lontani, dei soldi che bastano a malapena, dell’incertezza e della fatica di dover andare a cercare il lavoro dove ce n’è, talvolta scivolano in qualche commento politicamente scorretto. Con il film scopriamo che parlano delle stesse cose che ci occupano e preoccupano tutti, un aspetto, questo, che mi sembra importante sottolineare in questi tempi di costante paura dell’altro: ritrovare nelle loro le nostre stesse parole scioglie un po’ il velo della diffidenza e smussa le articolazioni retoriche della differenza, facendoci sentire che ciò che ci accomuna è probabilmente più di ciò che ci distingue.