di Hilde Merini
Questo articolo fa parte della rubrica “Interviste sull’intervista” per la quale rimandiamo all’introduzione di Francesca Socrate qui.
Incontro Maria Teresa Sega in un afoso pomeriggio di giugno a Roma, alla Garbatella. È il primo pomeriggio, siamo ospiti nel salotto di Serena D’Arbela, e mi presento in condizioni pietose. Il caldo torrido di quest’estate non ci risparmia nemmeno nei giorni importanti. Lei è arrivata da Venezia, dove lavora e fa ricerca. L’intervista nasce dalla curiosità per uno spettacolo che Sega ha poco prima portato in scena in laguna: Con le mie parole. Il lungo ‘68 delle ragazze. Il testo nasce da alcune interviste da lei condotte a donne che hanno attraversato il ‘68 e gli anni successivi. L’unione di storia orale, storia e teatro mi affascina, e questa rubrica diventa lo spunto perfetto per scoprire, capire, chiedere e ragionare. Ironia della sorte, dopo diversi anni di vita mestrina, lo spettacolo mi tocca vederlo in formato digitale in una stanza nella capitale.
L’intervista durerà 1 ora e 11 minuti di registrazione. Si parte (come sempre, quando vanno bene le interviste!) dal tema principale, in questo caso lo spettacolo di Sega, e si continua parlando tanto di sé. Una lunga chiacchierata, in cui si attraversa la vita professionale e intellettuale di Maria Teresa, che lei commenta in privato con un «non so cosa ci sia di interessante».
I lettori potranno scoprire nella lettura cosa c’è di interessante nelle riflessioni e nel punto di vista sulla storia di Sega, e nel suo percorso di vita. Per me d’interessante c’è stato questo incontro imprevisto tra donne, di generazioni diverse (in un momento fuori microfono anche con la sorprendente Serena D’Arbela), sulla ricerca indipendente e fuori dall’accademia, sul femminismo, sulla cultura, sull’essere donna (oggi, ieri e domani) e sul tramandare.
L’intervista è stata vista e corretta da Maria Teresa Sega in diversi momenti, e pubblicata solo dopo suo consenso. Per motivi di spazio è stata tagliata in alcune parti, cercando comunque di mantenere il più possibile fedeltà alla trascrizione e leggibilità.
Maria Teresa Sega è un’insegnante, una ricercatrice e una storica. Si è occupata di storia delle donne e di genere, di memoria, di scuola e di fotografia. Per un approfondimento e una bibliografia rimandiamo alla sua scheda sul nostro sito.
HILDE: Con le mie parole. Il lungo ‘68 delle ragazze. Allora, la prima domanda è un po’ banale però voglio partire proprio dal titolo che secondo me è esplicativo.
MARIA TERESA: Certo.
HILDE: Parla già. È un titolo parlante, con le mie parole, perché si parte dalle fonti.
MARIA TERESA: Con le mie parole. Certo. Il sottotitolo è esplicativo, cioè esplicativo del contenuto, perché con le mie parole potrebbe essere riferito a qualsiasi contenuto, no? E quindi spiega che io lavoro sul lungo ‘68, e che i soggetti sono le ragazze di allora. Che oggi sono ragazze settantenni più o meno. Anche se tra le mie testimoni ci sono due generazioni. Quindi io prendo in considerazione gli anni ‘60 e ‘70, e il cambiamento che avviene nel vissuto delle ragazze, soprattutto nella loro soggettività, nel modo di pensarsi, nel modo di rapportarsi, di relazionarsi col mondo, con le aspettative, col futuro, con la famiglia, con i compagni eccetera. E “con le mie parole” perché questo percorso e questo cambiamento ha bisogno di parole nuove per essere raccontato. Cambiamento che ovviamente non ha riguardato tutte le ragazze di quella generazione: quelle che io intervisto sono grossomodo amiche, con le quali condivido anche un percorso, una storia, e quindi è anche un lavoro sulla mia memoria, in realtà. Io sto anche lavorando sull’elaborazione della mia memoria in questo momento, in cui sono passati tutti questi anni: è il momento giusto, prima di perdere le facoltà, diciamo, totalmente.
HILDE: Però c’è anche… io ho pensato subito alle fonti orali.
MARIA TERESA: Le fonti orali sono fondamentali.
HILDE: Quindi con le mie parole richiama anche che a monte c’è una fonte orale?
MARIA TERESA: Certo, c’è una fonte orale, c’è un soggetto che si racconta. Racconto-ascolto: nella fonte orale ci sono due soggetti. E infatti le mie interviste le chiamo dialoghi, perché chiaramente io faccio delle domande, stimolo, a mia volta sono stimolata dalle loro risposte. Nasce anche un dialogo, è proprio un po’ una ricostruzione di un clima e di una serie di cose che abbiamo vissuto, in parte in comune, in parte invece ovviamente sono storie assolutamente individuali. E quindi sì, sicuramente. Tra l’altro per me è fondamentale raccogliere testimonianze orali. Io ho cominciato così a fare storia. Come sarebbe possibile poter ascoltare e dare voce a una soggettività femminile se non dandole la parola? Capito?
HILDE: Sì sì.
MARIA TERESA: Io ho cominciato a fare storia delle donne in questo modo. Molte di noi, negli anni ’70. Questo derivava poi dalla militanza femminista… nasceva da un bisogno, un bisogno di ritrovare se stesse, se vuoi anche una genealogia femminile, di ritrovare le donne come soggetti, protagoniste e attrici della storia. Allora non esistevano nella storia dei manuali, se non le grandi regine, le grandi mistiche… hai capito? Assolutamente delle individue così, grandi, ma non – per esempio – le donne comuni, le lavoratrici, non le giovani, no… e quindi io ho iniziato così, ho iniziato dall’ascolto, cioè dalle fonti orali. Intanto perché le donne non c’era modo di trovarle nelle fondi tradizionali. Sì alle volte sì, il primo libro in Italia sulla storia delle donne, La signora del gioco scritto da Luisa Muraro, che è sulla caccia alle streghe, si basa sui processi, perché ovviamente nelle carte dei processi trovi le testimonianze. Che comunque sono, come dire, racconti orali trascritti. Abbiamo imparato anche ad andare a cercare le donne, non è vero che non ci sono nelle fonti, ma bisogna cercarle! Cercarle in un altro modo, con altre domande. Però allora, siccome ho iniziato a interessarmi anche di donne, come dire, senza storia, le donne semplici, le lavoratrici, quelle che conoscevo, più grandi di me ma che incontravo, incontravo nel movimento, come le donne dell’UDI, poi quando hanno aperto il Centro Donne a Venezia le donne che frequentavano il Centro Donna… e quindi insomma, l’autobiografia orale. Poi ad un certo punto è anche l’autobiografia scritta, perché un gruppo di loro mi hanno chiesto – nel frattempo io ho cominciato ad insegnare – mi hanno chiesto di tenere per loro un corso di italiano, perché erano donne semplici, dei quartieri, e avevano quest’idea dell’appropriarsi della cultura come forma di emancipazione. Una di loro mi ha detto: “guarda se io vado dal medico e parlo in dialetto mi considera in un certo modo, se parlo in italiano mi considera in un altro modo”. Allora ho detto va bene, facciamo. Però io a loro facevo scrivere la loro autobiografia, capisci? Autobiografia a temi: l’infanzia, non so, i giochi, il lavoro… e poi abbiamo anche pubblicato delle dispense con le loro storie autobiografiche.
HILDE: Quindi si può dire che questo lavoro è frutto non solo della pratica della storia, della ricerca storica, della tua vita di storica, della storia orale, ma anche di una militanza, di un percorso personale.
MARIA TERESA: Esatto.
HILDE: Diciamo che le testimoni sono le tue amiche.
MARIA TERESA: Beh, all’inizio certo. Ma non solo eh, perché poi mi sono occupata d’altro: di operaie, di lavoratrici a domicilio, di partigiane… però diciamo che io arrivo alla storia attraverso questo, capito?
HILDE: Quindi prima di iniziare il lavoro tu già le conoscevi?
MARIA TERESA: Certo.
HILDE: Tutte?
MARIA TERESA: Queste “sessantottine” sì. Queste tutte le conoscevo già, sì sì sì. Io ho cominciato… quando io ho cominciato la ricerca ho deciso di lavorare sul lungo ’68. Ho iniziato l’anno scorso perché ci son stati i 50 anni e ho visto, ancora una volta, abbiamo visto noi come associazione rEsistenze… abbiamo fatto vari incontri e ne abbiamo parlato… perché era partito anche un input dall’Istituto Nazionale [Ferruccio Parri] di raccogliere testimonianze… beh, ci siamo dette, questo rischia di essere un ‘68 ancora una volta narrato al maschile. Perché ovviamente se tu vai a cercare i leader, se tu vai a cercare i personaggi importanti… per altro ci sono anche donne importanti. Se tu fai certe domande, se tu sei interessato agli aspetti evenemenziali piuttosto che alla soggettività sottovaluti le donne, capisci? Rischi ancora una volta di cancellarle.
HILDE: E lavori sola? O hai delle altre ricercatrici/tori?
MARIA TERESA: No no, noi siamo, sì siamo un’associazione di volontarie, diciamo che siamo varie ricercatrici… poi essendo un’associazione regionale, una dimensione non facile, ma comunque in questi anni ci siamo coordinate tra ricercatrici che hanno lavorato sulla storia delle donne nella resistenza. Adesso c’è stata questa discussione sul ‘68, e alcune di noi hanno anche iniziato a lavorare, altre stanno trovando una certa difficoltà, per esempio nel reperimento delle testimoni. Io ho adottato questo metodo, per cui a tutte le persone che conosco, anche uomini, chiedo: “ma tu dov’eri nel ‘68? E che cosa hai fatto?” e poi decido, ovviamente se c’è anche una disponibilità a ricordare e a raccontare. C’è qualcuno che mi dice: “ma sai io, sì io però non mi ricordo…” oppure: “l’ho capito dopo, qualcuno dice, l’ho capito dopo che è stato importante, ma allora non mi rendevo conto, allora”. Scelgo anche le persone da intervistare, capito? Procedo un po’ così, parlando informalmente e decidendo se vale la pena approfondire, sennò sarebbe un mare magnum.
HILDE: Però il primo step è tra le conoscenze.
MARIA TERESA: Il primo step sono le conoscenze, poi costruisco una mappa anche in base a quello che mi dicono, perché ognuno di loro casomai mi fa dei nomi: “sai questa mia amica… abbiamo fatto questo, questo e questo”. E allora mi si allarga la prospettiva… adesso mi si sta allargando questa ragnatela che penso che i prossimi dieci anni saranno dedicati a questo! Procedo in questo senso, e anche, io l’ho detto esplicitamente, io ho una forte motivazione personale. È chiaro che è un lavoro che in questo momento della mia vita mi interessa fare, rielaborare questa memoria, questa mia storia, anche personale, questo passaggio che ha rappresentato per me chiaramente anche la mia nascita, non solo politica, non c’è solo la socializzazione politica. Nascita come soggetto donna, come quella donna che sono diventata. Anche con delle forti lacerazioni, perché è stata una rottura molto forte, per alcune più, per alcune meno, con quello che eravamo prima, rispetto soprattutto alla famiglia, la madre, il padre… e insomma, sono diventata una persona, un’altra persona, in contrapposizione a quella che ero. Non è da poco. Non è un cambiamento da poco, capisci? Per questo ti dico è una elaborazione che ha bisogno delle parole… sai, l’elaborazione ha bisogno ovviamente di esprimersi in una narrazione. Insomma, c’è sicuramente anche la mia autobiografia, anche se poi io ho il ruolo di quella che intervista, fa le domande e il più possibile lascia parlare la testimone, capito?
HILDE: Infatti queste fonti sono prese con il metodo della storia orale, così da “buone pratiche”? Interviste aperte, registrate.
MARIA TERESA: Sì sì sì.
HILDE: Che lasciano molto all’altra persona parlare?
MARIA TERESA: Sì sì certo.
HILDE: Trascritte.
MARIA TERESA: Sì, io tendenzialmente raccolgo storie di vita, allora ovviamente ho anche un filo che seguo. In genere lo dico prima. Dico: “guarda, seguiamo dei capitoli”. Per dare anche un certo ordine no? Dico: io ho bisogno di sapere, mi devi dare dei dati anagrafici, dove sei nata, quando, dove sei cresciuta. Chiedo qualcosa sull’esperienza scolastica, perché poi vien fuori che queste bambine già hanno delle esperienze, per esempio la percezione delle differenze di classe, delle ingiustizie… c’è nello spettacolo.
HILDE: Non volevo interromperti, ma questa cosa si nota iniziando. Infatti io una cosa che mi sono chiesta è: c’è dietro a monte, prima dell’intervista, una preparazione di come fare le domande in modo tale che tutte le interviste convergano in un fiume simile, oppure c’è poi una cucitura finale che bene o male.
MARIA TERESA: Beh, c’è una cucitura finale, però è chiaro che io ho un filo mio implicito.
HILDE: Però c’è già una pianificazione a monte?
MARIA TERESA: Mia. Siiiì, diciamo che io glielo dico prima: guarda che io ti chiederò di raccontare questo, questo e questo, poi lascio libere però, perché hanno la loro elaborazione. C’è una che fa la psicanalista, quell’altra che fa la formatrice… insomma son tutte donne che hanno una consapevolezza della loro storia. E quindi insomma le lascio raccontare liberamente. Diciamo anche che mi soffermo sulla scansione cronologica, perché poi ho capito che è la cosa più difficile. Nel senso che, anche pensando a me stessa, veramente la cosa più difficile è ricostruire la cronologia: dico, ma questa cosa mi è successa in che anno? Ma era il ‘68? era prima o era dopo? Forse mi sbaglio, perché forse in realtà questo viene prima del ‘68, viene prima… ed è abbastanza importante ovviamente, perché per me questo è anche un lavoro storico, quindi contestualizzare è fondamentale, insomma capire come si colloca nel contesto di quello che stava succedendo. No? Quindi ecco sì, è una, diciamo, è un’intervista abbastanza libera in cui ho in mente alcune cose che voglio sapere.
HILDE: Quindi si può parlare anche di una memoria collettiva di tutto…
MARIA TERESA: C’è anche una memoria collettiva.
HILDE: Perché il modo in cui hai cucito le testimonianze dà proprio questo senso: sì, tu piano piano le riconosci le diverse ragazze, però allo stesso tempo ti rendi conto che ci sono delle cose che tornano.
MARIA TERESA: Sì sì, io la chiamo una memoria generazionale: la generazione che cresce negli anni ‘60, ha la sua socializzazione politica alla fine degli anni ‘60, e poi per molte c’è il femminismo ecco, più o meno direttamente vissuto ma in ogni caso respirato. Quindi sì, è una generazione, una generazione politica.
HILDE : E… come mai il teatro? Portelli dice che le testimonianze orali sono perfette per il teatro.
MARIA TERESA: Sì! Sono già teatro di per sè, alle volte.
HILDE: Sono già performative.
MARIA TERESA: Guarda, allora, devo fare delle premesse. Perché io non sono una storica accademica, non lo sono mai stata. Sono una, quella che abbiamo chiamato figura ibrida, di confine, perché sono un’insegnante, negli anni ‘80 ho iniziato ad insegnare, dopo essermi occupata di arte e di fotografia , ad un certo punto vinco il concorso, decido di andare insegnare a scuola. E qui apro una parentesi: la prima cosa che faccio quando vado ad insegnare, scuola secondaria di secondo grado, poi sceglierò di andare in quella di primo grado perché si faceva didattica, la prima cosa che faccio è entrare nel Movimento di cooperazione educativa. Allora, il Movimento di cooperazione educativa è molto importante, in Italia nasce nel ‘50-51, dal movimento francese di Freinet, sostanzialmente fa riferimento alla scuola attiva, alla scuola popolare, eccetera.: Mario Lodi, per dire un nome. Tu hai presente Mario Lodi come antropologa? Se non lo conosci ti consiglio di leggere Il paese sbagliato, il suo primo libro, lui racconta del lavoro in classe. Poi ha scritto anche C’è speranza se questo accade al Vo, il Vo era un paesino dove appunto lui insegnava, dove con questi bambini, lui è maestro, scuola elementare, fa storia, ma anche matematica, in maniera attiva, realistica, facendo i conti, tenendo la cassetta eccetera. Non solo in maniera teorica ma anche in maniera pratica. Materiale diciamo. E rispetto la storia c’è un lavoro sulla memoria. Lui portava a scuola i nonni, faceva venire i nonni. E c’è la storia di questo nonno Agostino, che tra l’altro era un nonno senza nipoti, il quale diventa il nonno di tutti. E questo nonno frequenta la scuola e racconta la sua storia. Considera che sono gli anni ’60, anni del passaggio in Italia dalla cultura tradizionale prevalentemente contadina, alla cultura industriale, l’industrializzazione, l’inurbamento. Quindi cambiano i costumi, cambiano i consumi, cambia lo stile di vita. La cultura popolare di cui i nonni sono ancora i portatori, ecco e quindi la pratica delle fonti orali entra nella scuola, ma in maniera quasi naturale. Nel Movimento di cooperazione educativa ho imparato queste tecniche, perché io mi ero laureata in filosofia, anche se poi mi sono orientata più verso la storia, anzi mi interessavano le storie. […] Quindi allora insegnare voleva dire per me lavorare sulla memoria, tu non puoi eludere il lavoro sulla memoria, facendo storia o facendo altro. Non puoi eludere un lavoro che tenga conto della soggettività, perché tu insegni non se riempi dei vuoti che hai davanti…
HILDE: Se tiri fuori.
MARIA TERESA: Se trasmetti, se tiri fuori, se tratti quelli che hai davanti come dei soggetti, e quindi dei portatori di cultura, tra l’altro, che poi sia una sottocultura, che poi sia una cultura di massa, che poi sia una cosa o l’altra, non importa, devi tenerne conto. […] I ragazzi sono molto interessati all’ascolto del testimone.
HILDE: Perché è vivo, è tangibile, è umano.
MARIA TERESA: È umano, è un rapporto umano, poi sono curiosi, è la storia vivente che interessa più che quella del manuale. Ti dico un’altra cosa, a proposito del teatro: una delle qualità dell’insegnante è la capacità narrativa, nel senso che l’insegnante è un mediatore culturale, è un mediatore narrativo. E quindi deve saper raccontare per suscitare interesse. Come ti ho detto, non sono una ricercatrice accademica, e quindi mi sento più libera di sperimentare perché la ricercatrice o il ricercatore accademico si rivolge ai propri pari, si rivolge all’Accademia sostanzialmente. Cioè al mondo, iperuranio dei ricercatori.
HILDE: Alla reggia di Versailles.
MARIA TERESA: Devi dimostrare ovviamente di essere all’altezza, anzi devi esser più bravo degli altri, c’è una forte competizione come lo sappiamo, e quindi segue certe strade. Io non avendo questo problema mi son sempre sentita più libera di sperimentare, il mio scopo non era appunto confrontarmi con gli altri ricercatori, anche sì ovviamente, anche se io pensavo di imparare da loro. Io andavo a sentire e leggevo Portelli, Luisa Passerini… mi mettevo sempre in una posizione di chi ha da imparare, non mi mettevo in una posizione da pari a pari. Ma diciamo che comunque il mio obiettivo era anche quello della trasmissione, della comunicazione, non solo della ricerca in sé.
HILDE: No, però quello che appunto avevo notato io è che mi sono chiesta nel momento in cui tu prendi delle fonti orali, le trascrivi e poi le fai leggere in una situazione di teatro, di recitazione in generale, di mimica, di finzione. Quindi anche lì lavorando dove la fonte orale incontra la fiction, con delle attrici, quindi delle persone estranee che non c’entrano niente, appunto fai delle decisioni: prendi, decidi, un’altra scelta di comunicazione, dalla scritto all’oralità ma un’oralità diversa.
MARIA TERESA: Certo.
HILDE: Decidi il pubblico, il destinatario: perché ovviamente a teatro forse non hanno voglia di leggere, forse non gli piace, è più grande. Viene o lo stesso pubblico o un altro, in generale cambia un pochino il target. E appunto mi hai appena risposto tu, fai una scelta di comunicazione.
MARIA TERESA: Sì, forse c’è anche qualcosa di più.
HILDE: E di linguaggio.
MARIA TERESA: Sì. Per quanto riguarda Con le mie parole, io ho fatto questa operazione: ho trascritto le interviste. Questo lo faccio di tutte le interviste, poi io faccio rileggere l’intervista e la faccio correggere. E la faccio firmare. Per me la fonte che cito è quella, è quella autorizzata.
HILDE: Come mai 3 attrici? È un fatto di praticità, perché erano quelle disponibili, o c’è stata una volontà di dare poche voci per tante altre voci scritte…
MARIA TERESA: Noo, limiti economici. Limiti economici. Cioè, se avessimo potuto… tu considera che noi facciamo queste cose a costi ridottissimi. Queste cose hanno bisogno di un budget. A me sarebbe piaciuto utilizzare più attrici.
HILDE: Ah sì?
MARIA TERESA: Sì, proprio per distinguere le voci, perché in certi momenti sembra che sia la stessa persona.
HILDE: Eh sì, non si capisce bene.
MARIA TERESA: Per carità va anche bene lo stesso, perché comunque lo spirito è quello.
HILDE: La regia forse è nella costruzione, nella cucitura delle storie.
MARIA TERESA: Esatto.
HILDE: Che hai fatto da sola?
MARIA TERESA: Ho voluto farlo io, assumermene la responsabilità, a differenza invece dello spettacolo precedente. Ne avevamo già fatto uno con Sandra Mangini e la Beppa Casarin, spettacolo che si chiamava Noi siam lavoratore, sempre con testimonianze mie, che era sulle lavoratrici, la generazione precedente diciamo. E guarda caso finiva col ‘68.
HILDE: Un’altra cosa che avevo pensato è che alla fine il teatro è in fondo, e forse già lo abbiamo detto, è comunque già cultura orale. E questo lo abbiamo già detto, fondamentalmente.
MARIA TERESA: Eh sì, ma è qualcosa di più, perché tra il pubblico si sente questa forte emotività, è un po’ quello che era il teatro greco. È un modo, ora non posso dire di “catarsi”, ma attraverso la rappresentazione comunque si vive un momento collettivo e quindi si crea questa emotività, emotività comune, che è anche un po’ trasformativa. Non è una semplice comunicazione, questo voglio dire. Il teatro, è qualcosa di più.
HILDE: È come la didattica di prima. Non è solamente un inserimento di informazioni, c’è qualcosa che succede.
MARIA TERESA: Sì, non è solamente un fatto culturale, di acculturamento, è qualcosa di più. È un’esperienza.
HILDE: Ma la memoria non è slegata dal presente.
MARIA TERESA: Non è slegata dal presente. Anzi memoria unisce passato e presente.