di Chiara Paris
Questo articolo fa parte della rubrica “Interviste sull’intervista” per la quale rimandiamo all’introduzione di Francesca Socrate qui.
Luca Des Dorides lavora presso l’Istituto Statale Sordi di Roma dove si occupa di raccolta, conservazione e uso delle fonti orali in lingua dei segni. Ha coordinato il progetto ricerca per la creazione della prima Digital Libray di storia orale in lingua dei segni italiana all’interno del portale “Ti racconto la storia” dell’Istituto Centrale per gli Archivi – ICAR (2016-2019) e la raccolta italiana di interviste relativa alla “Task 2.4 Inteviews with deaf elderly signers” del progetto Horizon 2020 “The Sign-Hub” (2017-2019). Nel 2016 ha partecipato alla realizzazione della prima ‘Scuola di storia orale in lingua dei segni‘ organizzata dall’AISO – Associazione Italiana di Storia Orale e dall’Istituto Statale Sordi di Roma in collaborazione con l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR (Roma, 9-11 settembre 2016).
Luca (1974) è sordo e questa informazione è essenziale per comprendere questa intervista. La sordità, però, è un insieme complesso di percorsi e situazioni che spesso racchiude vissuti anche molto diversi tra loro, occorre, quindi, soffermarsi brevemente sulla sua specifica storia di sordità.
Luca – così mi scrive in seguito – nasce sordo, con una sordità progressiva per la precisione, ma con una perdita uditiva talmente lieve che il suo sviluppo linguistico avviene come quello di un qualsiasi bambino udente. Cresce quindi usando l’italiano – scritto, parlato e letto sulle labbra – che è a tutti gli effetti la sua prima lingua e quella che ancora oggi usa maggiormente. Con la pubertà e l’adolescenza l’aggravarsi della sua sordità arriva a compromettere la possibilità di comprendere il parlato fino a diventare una sordità profonda che lo porta, in età adulta, ad apprendere la Lingua dei segni italiana – Lis e a strutturare un bilinguismo tardivo.
Io, Chiara (1992) sono una ricercatrice indipendente. Mi sono laureata con una tesi di storia orale sull’emigrazione di donne italiane in Canada nel secondo dopoguerra e continuo a lavorare con le fonti orali.
La mattina dell’11 gennaio 2020 sono partita da Pescara diretta a Roma nella sede dell’Istituto Statale per Sordi. Lì avrei incontrato Luca Des Dorides e Francesca Di Meo per parlare di storia orale in lingua dei segni e dei loro progetti.
In un fitto scambio di email organizzative avevamo deciso che avrei portato con me, oltre al registratore, anche una videocamera, buona per lasciare un documento visivo del nostro incontro che, se sottotitolato [1], avrebbe potuto essere accessibile anche ad un pubblico di eventuali persone sorde interessate.
Mentre attraversavo in autobus gli Appennini però è arrivata la notizia che purtroppo Francesca aveva avuto dei contrattempi e non sarebbe stata presente. Francesca, che è anche interprete di lingua dei segni italiana, avrebbe dovuto facilitare il dialogo tra di noi ma questo imprevisto non ha messo in dubbio la fattibilità dell’intervista: alle dieci e un quarto ero in via Nomentana e ho finalmente dato un volto e una voce a Luca, che mi aspettava nell’Istituto.
Il tutto ha preso subito una piega informale; siamo usciti per bere un caffè nel bar più vicino, parlando dei nostri rispettivi percorsi di studio e immediatamente anche dei progetti di Luca con la storia orale in lingua dei segni. Come appare evidente dalla trascrizione, la forma dell’intervista più che a un dialogo somiglia a un racconto che Luca ha condotto con molta scioltezza; io invece, che non sono abituata a prestare attenzione alla direzione del mio labiale affinché sia interpretabile, ho per lo più assunto una posa da ascoltatrice di fronte alla ricchezza di temi che Luca infilava da solo dentro al discorso.
L’intervista perciò è iniziata nei fatti sul marciapiede di via Nomentana ed è continuata, una volta tornati nello studio di Luca, anche mentre guardavamo alcune delle sue video interviste a testimoni sordi. Solamente a un certo punto ho realizzato di essere caduta nel tranello dell’informalità: dare “chiacchiera” all’intervistato, per poi ritrovarsi già calati nel cuore del discorso ma senza aver prima acceso il registratore. L’incipit della trascrizione che segue infatti tradisce questo tipo di innesco della registrazione, nel bel mezzo di una conversazione già avviata. In quel momento Luca mi parlava del progetto europeo di raccolta di video interviste finalizzato alla conservazione della memoria della comunità sorda: The Sign Hub Project, un grande progetto europeo finanziato da Horizon 2020 per il quale Luca e Francesca realizzano delle interviste autobiografiche ad anziani sordi.
Nel corso dell’intervista Luca torna sul progetto e dalle sue parole mi sembra emerga molto bene l’importanza e il significato del fare storia orale-visuale della comunità sorda attraverso le parole, i segni in questo caso, dei diretti interessati. Tra i tanti temi importanti sollevati trovo rilevante la sua riflessione sull’utilità del fare ricerca con le persone coinvolte, specie se storicamente sottoposte a sguardi marginalizzanti, senza perdere di vista la circolarità e l’accessibilità della conoscenza che si produce.
LUCA: Allora, dicevo, quando hanno iniziato a fare le prime interviste [Luca si riferisce a interviste svolte nell’ambito del progetto europeo Horizon 2020 “The Sign-Hub”], l’obiettivo era linguistico. Allora l’obiettivo era linguistico nel senso che loro si preoccupavano di prendere un corpus linguistico. Si facevano anche raccontare storie tante volte, però il loro obiettivo era prendere la lingua usata da queste persone. Allora si sono preoccupati di come avvenissero tutta una serie di fenomeni di accomodamento linguistico: io e te ci incontriamo, parliamo due lingue diverse, io per esempio ho la lingua universitaria, un italiano universitario molto elaborato e tu hai quasi un dialetto, hai l’italiano ma magari conosci meglio il dialetto; se io parlo con te alzando il livello e la ricercatezza delle parole, e tu utilizzi il dialetto, io e te non ci incontriamo. Abbiamo un accomodamento negativo [se] nessuno di noi modifica la propria lingua in favore dell’altro. Oppure tu puoi sforzarti di usare l’italiano che conosci invece del dialetto e io mi sforzo di usare l’italiano con un lessico di altissima frequenza, più semplice, che io presuppongo sia più alla tua portata e lì allora c’è un accomodamento positivo.
Che succede: quando si fa l’intervista, la prima cosa che hanno capito, è che se tu mandavi un udente, la persona dall’altra parte cambiava il modo di segnare, accomodava la lingua in favore della persona udente.
Allora, loro hanno sfruttato questa idea: io mando un sordo a fare l’intervista; hanno fatto una separazione fra sordo e udente. E non c’era solo l’accomodamento linguistico ma è stato costruito anche l’accomodamento sociale. Però non hanno mai fatto lo step successivo, hanno assunto l’altro come un insieme omogeneo e monolitico. Non hanno presupposto differenze interne anche al gruppo degli altri [dei sordi cioè].
Quando tu prendi il gruppo dei sordi, non stai prendendo un gruppo omogeneo. Esattamente come tutti i gruppi è multiforme al suo interno, quindi tu non devi considerare che una volta che hai messo un sordo hai risolto il problema, perché una volta che hai preso un sordo hai comunque differenze di status, differenze di cultura, differenze generazionali, differenze di genere, quindi relazione donna, uomo, anziano, giovane, cultura alta. [Queste] ci sono anche dentro la comunità e l’errore che si faceva, e si è fatto per tanti anni, è che l’altro è un monolite. No, l’altro è una struttura complessa. In relazione con la tua, tra l’altro. Cioè io ricercatore sordo agli occhi di un anziano intervistato sordo non sono solo un io ma sono ingruppato nel mondo della ricerca, della cultura, dell’università. L’idea che siamo fatti di compartimentazioni schematiche non funziona all’atto pratico.
CHIARA: E questo è il motivo per cui ci sono tanti intervistatori nel progetto europeo?
LUCA: Allora, no, il motivo principale, io avrei affidato tutto a uno, perché avevo trovato la persona perfetta. Perché era una ragazza di trent’anni, segnante fin dalla nascita perché sorda ma da una famiglia di sordi, molto brava, con una capacità, in realtà alla fine quello che importa all’intervista è la capacità di ascolto, la prima qualità che devi avere, ti prepari, studi quello che ti pare, ma se non sei una persona che ascolta, soprattutto degli anziani parlo io, se non sei una persona che ascolta gli anziani, secondo me tanto bene rischi di non farlo.
La prima qualità che cerco io è una persona che ascolta perché è interessata, perché vuole sapere, perché sa tirare il racconto. Allora ‘sta ragazza era perfetta perché linguisticamente, a livello di età non era troppo giovane da non essere presa sul serio ma non era troppo grande e strutturata da essere il professorone che arriva da chissà quale università. Aveva una capacità di ascolto eccezionale e con tante persone, proprio perché era una ragazza, poi una persona molto dolce. Instaurava pure una dinamica che sembrava quasi che a un certo punto un nonno raccontasse qualcosa alla nipote. E quindi con lei i racconti andavano veramente fluidi, fluidi, fluidi, mentre invece a in altri casi ho dovuto cambiare perché non sempre potevamo portare le persone, quindi ci affidavamo a dei contatti locali ma una volta c’è stato un altro con una grande esperienza. Però per esempio lui veniva da ricerche sui corpus linguistici.
CHIARA: Quindi aveva una formazione…
LUCA: Esattamente. Per un corpus linguistico io da te voglio prendere determinate parole o nel caso delle lingue dei segni determinati segni. Io voglio che tu mi segni casa, tavolo, cucina, Lombardia, io voglio questo. Non voglio il tuo racconto, non voglio la tua [storia], è tutto un altro… altre metodologie. Una persona brava, ci sono stato bene, però alla prima intervista, venticinque minuti di intervista fatte trenta domande, pausa caffè. [ridiamo]
LUCA: No, ma io gli avevo spiegato, perché sapevo che lui aveva fatto il corpus… e avevo provato in tutti i modi a cercare di formarlo perché questa era un’altra cosa, ma lui è andato in modalità corpus linguistico, venticinque minuti per trenta domande. Non può andare. Allora noi abbiamo fatto questa prima parte che era quasi, non so, in inglese si dice la post modern interview, cioè l’intervistatore non fa niente, sta lì. Allora noi facevamo così, quasi, noi lanciavamo una consegna: «Raccontami di quando eri bambina, della tua famiglia, come sei diventata sorda», proprio una domanda fatta così, generica, solo per andarla a prendere dall’inizio.
Sapevamo, perché questo i sordi lo fanno tutti, che il racconto della propria sordità è centrale nella strutturazione della storia personale che ognuno si racconta su sé stesso. E lì partivano, e lì cominciavano a raccontare, raccontare, raccontare; le interviste infatti, di media, durano tutte un’ora e mezza, rispetto ai venticinque minuti delle domande a batteria.
Se io avessi chiamato dei personaggi famosi e importanti della comunità si sarebbe potuta… perché ho visto alcune interviste in video in cui mi sembra che sia accaduto [che] un personaggio troppo strutturato rischi di riproporre la dinamica dell’autorità; nel senso: la comunità è piccola, se io ti mando il più famoso ricercatore sordo d’Italia, tu lo conosci – tu intervistato – e tu sai chi sta parlando, siccome la comunità è piccola ed è come un paese.
CHIARA: Così tanto piccola?
LUCA: Sai che stai parlando alle istituzioni in pratica, e allora io non volevo quello, volevo che loro fossero più tranquilli e quindi la prima consegna [doveva essere] semplice. Era proprio l’obiettivo: che loro diventassero padroni del discorso, anche perché io voglio sapere le tue priorità.
Quando io ti comincio a fare le domande, il questionario pre centra gli argomenti. Se io ho una sfilza di argomenti, di temi e di domande ti obbligo ad affrontare quelle, che va bene, perché ho bisogno di comparare, però io voglio sapere quali sono le tue priorità. Perché se non arriva mai il momento in cui tu sei libero di esprimere le tue priorità, io non saprò mai se quelle priorità che io ti ho dato sono le stesse che tu hai. Tant’è che per esempio alcuni temi fortissimi della comunità sorda – riconoscimento delle lingue dei segni, alcune rivendicazioni di diritti – non erano poi così presenti nel loro discorso, un po’ perché nella maggior parte di loro la dimensione politica non era prioritaria e quindi raccontavano di sé, un po’ perché sono ordini del giorno attuali, non del passato.
Comunque noi gli davamo questa consegna così larga e intervenivamo al minimo proprio perché così loro esprimessero sé stessi nella modalità più libera. Cercavamo di strutturare le condizioni ottimali perché loro si sentissero padroni della situazione e non subissero quella… sai quando ho detto del bilinguismo sottrattivo? non subissero quella sproporzione di ruoli, di potere, che loro hanno vissuto per tutta la vita. E infatti raccontavano molto.
Poi quando si era sviluppato il discorso, quando vedevamo che tra l’altro il segnato cambiava proprio… il segnato come ti ho detto non è come il parlato, è molto simile al parlato, ma il parlato si può fare influenzare parecchio dallo scritto perché dentro la testa la maggior parte di noi ha le regole della grammatica dello scritto. Quindi se io ti faccio una domanda in un’intervista, tu cerchi di usare un italiano a modo, mano a mano che ti sciogli, che il colloquio diventa informale, cambi il tipo di lingua che usi. Adesso, succede anche con il segnato e quindi il segnato diventava più spontaneo, il lessico più… ci avvicinavamo di più al segnato del quotidiano.
Poi in un secondo momento, senza passare alla direttività brutale delle trenta domande del questionario, riaffrontavamo i temi. Il primo su infanzia e famiglia non lo riaffrontavamo perché era quello con cui eravamo partiti, poi c’erano vari temi: la scuola, il lavoro, la socialità, le minoranze culturali e partendo da quelli più famigliari, andavamo verso quelli più complessi. Non rivolgevamo la domanda – domande chiuse mai – però non facevamo nemmeno una domanda diretta, ma in forma molto aperta introducevamo il tema per un argomento. Lì comunque cominciavamo pure con l’interagire; l’intervista si faceva più creativa e partecipava di più l’intervistatore.
Poi all’ultima fase dell’intervista si prendeva proprio il questionario e si faceva una domanda una dietro l’altra. Ovviamente dove c’era stata già una discussione soddisfacente si saltava, quindi le domande sulla famiglia non venivano rifatte, quelle sulla scuola non venivano mai rifatte, si toccavano solo gli argomenti con una domanda proprio diretta, si prendeva e si leggeva, si traduceva in lingua dei segni la domanda del questionario e di fatti durava questa parte molto poco, solo che rispetto a quell’esempio che ti ho fatto dei 25 minuti per trenta domande anche in questo caso io ho notato…
Se tu fai una comparativa tra le interviste vedi che cambia proprio il modo in cui le persone gestiscono le risposte. Si sentivano più sicure di sé […]
Anche perché noi abbiamo utilizzato quasi sempre un’intervistatrice donna quindi c’era una dinamica del genere, perché comunque all’interno di quella generazione di sordi e beh lungo l’asse del genere, la distinzione tra uomo e donna
CHIARA: era molto…
LUCA: Eh molto rigida, la distinzione lungo l’asse del genere; il diverso potere attribuito agli uomini e alle donne all’interno della comunità sorda è tipologicamente molto simile all’Italia degli anni Cinquanta. I nostri intervistati sono tra i trenta e i sessanta, nati tra gli anni Venti, Trenta e al massimo gli anni Cinquanta, Sessanta. Soprattutto quelli più anziani, avevano una rigida distinzione di genere tra uomini e donne […] poi è arrivato pure il Sessantotto.
I sordi partecipano a queste cose [il sessantotto] in maniera diversa. Le acquisiscono… non c’è la consapevolezza strutturata di queste cose, è come se le prendessero, forse per via di un adattamento osmotico, assorbono lo spirito del tempo e ci si adeguano ma nessuno di loro ha raccontato strutturalmente, in maniera strutturata, rivendicazioni, impegno, il sessantotto…
CHIARA: Cosa manca?
LUCA: manca che tu vivi in una dimensione relazionale diversa. Manca di essere immersi nello stesso flusso informativo in cui vivono gli altri. Tant’è che la pragmatica sociale dei sordi è diversa da quella degli udenti, non che sia agli estremi.
Un sordo è una persona che vive [immerso in un contesto], un sordo italiano è un italiano, un sordo francese è un francese. E’ difficile da spiegare in breve, perché tendenzialmente verrebbe da dire che allora la sordità è una subcultura: sordo italiano è italiano e sordo saudita è saudita. Io ho una moglie, mi vesto all’occidentale, sono cristiano cattolico, mangio determinate cose, cioè, sui pilastri dell’identificazione culturale sono italiano a tutti gli effetti, al livello che se sto a Palermo tifo la squadra di calcio del Palermo se sto a Torino tifo la squadra di calcio del Torino… oddio no, a Palermo e Torino tifano tutti e due Juventus però va bene [ridiamo].
Però la cosa non è così semplice, i sordi non è che sono persone che parlano il curdo invece del turco. Il punto è che questa diversità è corporea, nel senso che non è che [se] io parlo il curdo invece del turco, mi prendono da bambino, mi fanno crescere come turco, io volendo nemmeno lo so di essere nato curdo, e viceversa, è un’opzione culturale diciamo. Per i sordi non è un’opzione culturale; se tu prendi un sordo curdo e lo fai crescere come turco non è che quello non si ricorda di essere un sordo. Sempre sordo è.
Allora cosa manca, questa lingua non è soltanto un’alternativa culturale, è stata per tanto tempo – poi oggi ci sono delle innovazioni tecnologiche che stanno ancora evolvendo il quadro –, è stata per questa generazione non un’alternativa culturale, ma forse la più concreta opportunità di avere una possibilità culturale, relazionale, informativa. Ma è altra, è diversa: hai accesso ad altre informazioni, in altro modo, ad altre relazioni.
Tu andavi all’Università [ma] non è che frequentavi le persone come le poteva frequenta’ una persona udente. Come ti ci relazionavi? con tutto pure quel portato di… di interiorizzazione dello stigma; i primi a credere che le lingue dei segni e che le persone sorde non fossero adeguate e che non fossero al pari delle lingue parlate degli udenti, erano i sordi stessi. Fare come gli udenti aveva un significato fortissimo. Oggi non è più così; però la diversità in quegli anni si articolava lungo una scala di valori e quella scala di valori era condivisa dalle persone stesse che stavano in fondo, stavano più in basso.
Allora quando noi abbiamo intervistato queste persone abbiamo dovuto fare due cose quindi: capire la fragilità delle memorie che ci danno queste persone e quindi creare delle strutture in cui noi non arrivassimo con le nostre durezze e le nostre forze di fronte alle loro possibili fragilità. E dall’altra però pure capire la complessità anche all’interno di questo stesso gruppo, non assumerlo come un unicum.
[Luca riprende a parlare del progetto europeo] Quindi la scelta dell’intervistatore soprattutto con questi anziani qua è sempre stata fatta in funzione di un controllo delle dinamiche interne al gruppo che si vuole intervistare. Il modo in cui sono stati intervistati ha sempre privilegiato il partire da un’intervista destrutturata, il più possibile destrutturata, nonostante ci si chiedesse la semi strutturata. Ma noi gliel’abbiamo detto e hanno detto: «Fate come vi pare». E allora quel sistema che abbiamo fatto è servito proprio a bypassare proprio tutte le possibili ripetizioni del dominio, perché queste persone erano tutte persone che tu poi guardi l’intervista [e dicono]: «Ah no perché gli udenti erano, gli udenti dicevano, noi sordi non possiamo, non facciamo». Era proprio una concezione del sé, [che] faticava a emergere quando si mette in relazione con l’altro ritenuto superiore. Quando invece si metteva in relazione alla pari, pure la lingua era uguale. La lingua dei segni ci si vergognava a segnarla in pubblico ma poi, quando si segnava in privato, le si riconosceva un valore fondante, perché per questa generazione l’accesso al mondo era spesso garantito dalla lingua dei segni.
Se sei sordo non senti; la tecnologia non ti aiuta; non è facile avere una relazione con il mondo, con l’informazione, con l’apprendimento. Ma le informazioni le acquisisci, dove le acquisisci? con gli altri sordi, e però è un circuito chiuso, un circuito chiuso dove non è che tu incontri il sordo medico, il sordo avvocato… E’ un circuito chiuso dove comunque quando devi alzare l’asticella devi andarlo a chiedere al mondo degli udenti. E allora se, anche sbagliando, fai dei gruppi distinti, è lì che tu sordo, di quella generazione, non sei l’avvocato, non sei il medico, non sei il maestro, non sei, non sei, non sei. Vedi che devi prendere dall’altro mondo tutte queste cose. Si è fatto l’errore di vedere un po’ due mondi separati, come sempre sono molto più mischiati di quanto si pensa.
E doveva essere il primo passo quello della libertà, del libero racconto, deve essere per forza il punto di partenza, perché se avessimo fatto il contrario avremmo perso le loro priorità. Tutta questa gente non si è mai fermata a raccontare la propria vita; parliamo nella maggior parte dei casi [di persone comuni], e questa è stata anche una scelta voluta: non siamo andati a intervistare i leader della comunità sorda, qualcuno c’è, ma siamo andati ad intervistare le vicende proprio delle persone standard, persone comuni. Tutte queste persone non è che si fossero mai fermate a organizzare introspettivamente la propria vita; per la maggior parte di queste persone si trattava della prima intervista. Allora se io mi siedo e te la strutturo con il mio questionario, quell’intervista è la prima volta in tutto in cui cominci a ripensare la tua vita, strutturandola in una forma narrativa; arrivo io, te la strutturo, e alla fine di questa strutturazione che ho fatto io col mio questionario ti chiedo la tua strutturazione… il problema è che tu devi fare uno sforzo per costruire una strutturazione tua diversa da quella che ormai ti ho dato io.
Dopo un po’ – ci sono persone che abbiamo intervistato più volte – la loro intervista si standardizza, cioè elaborano un racconto di sé e tengono quello. Altri si vede proprio che stanno andando per la prima volta ad organizzare un insieme su cui non si sono mai soffermati troppo, in modo coerente del tutto, non l’hanno mai raccontato; la maggior parte hanno risposto: «No, è la prima volta che racconto la mia vita». Se io faccio la parte direttiva, cioè la mia direttività di intervistatore se la esprimo all’inizio, secondo me è meno adatto a cogliere le loro strutturazioni. E’ meglio metterla alla fine, perché all’inizio? poi però alla fine tutte le interviste si sono sempre chiuse riprendendo uno spazio… è stato un avvicinarsi, un cuneo, sempre più direttivo, sempre più strutturato. Si parte da una strutturazione, una direttività quasi nulla, per tutelare appunto… ti ho descritto queste persone come una memoria molto fragile, e [poi] sempre più entrava in campo tutto quello che noi avevamo studiato prima; però quello doveva arrivare dopo, dopo, dopo, dopo. Dovevamo avvicinarci il più possibile, proprio andarci delicati con queste persone qua. All’inizio quando facevo le interviste… Poi io, per esempio, quando ho fatto la prima intervista nemmeno sapevo segnare in verità.
CHIARA: Infatti ti volevo chiedere della prima intervista…
LUCA: La prima intervista io praticamente nemmeno sapevo segnare, cioè ero indecente in comprensione, pessimo in produzione. Quindi feci, tra l’altro venne fuori un’intervista, una bomba, sì, perché siccome avevo questo problema di produzione e partecipazione…ma io non la volevo nemmeno fare quell’intervista, mi ero organizzato perché la facesse un’altra persona, però poi alla fine l’ho dovuta fare io, o l’annullavo o la facevo io. Siccome era un’intervista in cui avevo scelto un intervistato ad hoc, proprio per cominciare a tastare il terreno, perché non se ne fa di storia orale in lingua dei segni.
CHIARA: E che intendi con ad hoc?
LUCA: Una persona con cui c’era un determinato tipo di rapporto, che era un collega dell’istituto, di cui conoscevamo la storia, con cui avevamo un rapporto comunque tranquillo che sapevamo che avrebbe subìto zero, per personalità e per tipo di rapporto, che avrebbe subìto zero qualsiasi tipo di inter[ferenza]. Sai c’è la telecamera, il fastidio della telecamera, lui zero proprio, un caterpillar che prende e va. E per tutta una serie di motivi era adatto a essere una prima esplorazione, perché poi io volevo sin da subito occuparmi degli anziani, però prima bisognava cominciare a capire come fare, perché come ti ho detto la storia orale in lingua dei segni non si fa. Si sono fatte indagini linguistiche che avevano obiettivi linguistici, o si erano fatte ricerche… ma non l’hanno fatta gli storici oralisti, molto poco gli antropologi, sono sempre e comunque gli stessi. O è auto-etnografia – i sordi che intervistano i sordi – però spesso mancando delle strutture, delle conoscenze, della preparazione per fare un lavoro del genere, o sono i linguisti e pedagogisti che fanno anche questo e ci vuole un attimo che le impostazione professionali maturate in altri campi invadano un altro obiettivo di ricerca.
Allora feci questa intervista non sapendo proprio come creare… perché all’inizio pensavo che la cosa migliore fosse fare l’intervista creativa, le creative interviews, cioè il dialogo, alla pari. Con i giovani si poteva fare, con gli anziani era meglio destrutturare ancora, e allora io in pratica non ho detto nulla, ho iniziato e ho fatto: «Va bene raccontami di te, di quando eri bambino, di quando eri sordo», e si è scoperchiato un vaso di Pandora, cioè una storia di sordità collegata…era diventato sordo per motivi molto particolari, eventi complicatissimi, una storia di vita raccontata dalla nascita ai trent’anni, per cui non ho più fatto un segno.
Poi lì ho continuato piano piano a seguire il tema ma prima sono dovuto arrivare a un livello di padronanza della lingua adeguato, perché non ho mai voluto fare le interviste con l’interprete accanto. Non che non si possa fare, però essendo il mio obiettivo queste memorie così fragili, volevo arrivarci diretto, senza interporre filtri, senza interporre… tendenzialmente preferisco evitare che siano presenti persone udenti durante l’intervista, anche se non sono di quelli… alcuni dicono proprio di no. Per esempio per quel progetto [quello europeo] c’era il divieto di presenza di persone udenti nella stanza dell’intervista. Quindi l’intervistatore non può essere udente; se ci deve essere un coordinatore che fa la supervisione non dev’essere udente; non ci può essere la mediazione dell’interprete; anzi teoricamente l’intervista sarebbe meglio farla da soli, intervistato e intervistatore. Però tante volte, soprattutto le donne, anziane, spesso venivano accompagnate da un famigliare, e tenere fuori un famigliare non era… non era cosa fattibile, sarebbe stata una cosa invasiva. Allora facevamo che mi mettevo io accanto a questa persona e ci mettevamo fuori dal campo visivo dell’intervistato, però noi potevamo vedere di tre quarti quello che succedeva nell’intervista; uscendo dal campo visivo dell’intervistato il sordo non percepisce più. Cioè, non è che se tu sposti la sedia e fa rumore [disturbi]… una persona sorda non lo sente e quindi interferiva molto poco. C’erano momenti in cui si vedeva anche che la persona intervistata prendeva consapevolezza e magari si girava, però più che altro dipendeva dalla tematica: quando un argomento riguardava [quella terza persona presente]. Tendenzialmente non ho registrato grosse interferenze dalla presenza di un’altra persona.
Poi ho imparato la lingua dei segni, poi ho cominciato a fare delle interviste. Quando ho strutturato la mia lingua dei segni nel mentre facevo un seminario tutti gli anni in occasione del giorno della memoria.
[Il discorso passa poi sulle fonti scritte e le fonti orali] Le scuole per sordi non erano proprio dei centri di studio di eccellenza, davano l’attestato, il certificato di grado di cultura, ma gli insegnavano molto poco. In più le persone sorde ti ho detto hanno più o meno difficoltà con la lettura e la scrittura quindi di fatto una grande parte dei sordi usa la scrittura, la usa anche tantissimo, ma per fini strumentali: lasciare un biglietto…cioè, vivi con la lettura e la scrittura per forza, non sei una persona che vive in un mondo senza scrittura, ma per fini espressivi la usi molto poco. Quindi memorie, libri scritti da persone sorde ce ne sono molto pochi; storici sordi non ce ne sono, ci sono sordi che si occupano di storia, scrivono… però appunto non è che c’è un filone di storia delle persone sorde, strutturato; e quei sordi che lo fanno sono sordi che… io l’ho conosciuta una persona che, meraviglioso, un amore per la conservazione dei ricordi, le tracce, ma non sono storici. Alle volte ti ritrovi con gente che ha fatto degli accumuli informativi mostruosi ma non c’è una fonte che è una. E tu non riesci, per validare quello che loro hanno fatto, praticamente devi ricominciare quasi daccapo.
Come indagare queste cose: diventa importantissimo utilizzare appunto una metodologia come la storia orale, perché è l’unico modo per andare a prendere informazioni da persone che possono riferirti di fatti e di cose su cui non c’è una memorialistica, non c’è una storiografia, soprattutto non ci sono persone che lasciano tracce scritte.
Quindi tu quando vai a fare, a vedere, la storia dei sordi com’è stata fatta finora è una storia scritta dagli udenti, al di là del fatto che tradizionalmente era una storia scritta da udenti che parlava di insegnanti e udenti, di metodologie di insegnamento e di istituti. Come la storia della follia: era una storia di psichiatri, di psichiatria, alle volte di istituti manicomiali, ma non era una storia di matti; gli internati sono arrivati molto dopo. Ecco, come in quel caso, i sordi sono arrivati molto dopo, ma anche quando sono arrivati permane una difficoltà: a) di avere storici sordi, b) di avere sordi che possano studiare le carte in maniera piena, di avere fonti, di avere fonti dirette dalle persone sorde.
E allora l’utilizzo del video, che è l’unico modo perché queste cose circolino direttamente in lingua dei segni, è fondamentale, perché con il video, con le interviste, tu vai a prendere un tipo di fonte molto particolare ma che non è un tipo di fonte particolare che magari però si avvale di altre pezze di appoggio come una nutrita presenza di storici sordi… se io faccio un’indagine etnografica sul meridione, come fece De Martino negli anni Cinquanta, era pieno di storici e antropologi meridionali che quel mondo lo conoscevano, lo vivevano. Per i sordi non è così. Erano gli udenti al limite che facevano queste indagini etnografiche su questa comunità; oppure i sordi da soli ma appunto lì con quale metodo? con quale lingua tu trasmetti e produci conoscenza sul passato delle persone sorde? Con l’italiano.
[Arriva Veronica Spedicati la regista]
Allora per esempio le fonti orali non sono solo un modo per dare, tradizionalmente, per dare voce a chi è fuori dalla cultura scritta, ma anche per chi ricercatore sordo vuole andare alle fonti. Io per esempio la storia orale l’ho conosciuta quando stavo all’Università, ma dopo averla conosciuta per via teorica – fatte un paio di prove con dei partigiani – l’ho messa da parte perché ho capito che non poteva essere un percorso che io potessi fare.
Non potevo avere un facile rapporto con l’intervistato durante l’intervista, ma poi non potevo assolutamente rivedere più l’intervista. Anche il video, quando lo vai a rivedere, un gran pezzo di quello che tu pensi di poter capire perché nella situazione di intervista era tutto chiaro, quando rivai a vedere il video, un bel pezzo non è più chiaro come lo era. Tutta quella serie di cose che stanno intorno alla comunicazione, che in presenza cogli, in video non le cogli più. Pensa in audio! non ne parliamo.
Cioè, la presenza, il video, non ti danno lo stesso numero di informazioni; allora io ricercatore sordo grazie all’intervista in lingua dei segni ho delle fonti che posso analizzare pure nella loro ricchezza linguistica, e con la facilità di accesso della mia lingua, della mia prima lingua, alle volte di una lingua che conosco molto bene rispetto a una lingua in cui invece fatico. Anche al livello universitario, alle volte permane.
Ci sono percorsi di sordi che diventano ricercatori ma che comunque non superano mai completamente tutte le difficoltà linguistiche con la lingua parlata e scritta. E quindi che succede: quando io faccio l’intervista, da un lato è lo strumento principale con cui una cultura orale può partecipare al processo di produzione e di conoscenza della memoria, dall’altro [c’è da considerare che] questa cultura fatica a produrre materiali scritti. Loro, non i giovani di oggi, quelli nati negli anni Venti, Trenta, Quaranta e Cinquanta. Permette a me ricercatore sordo, ipotetico ricercatore sordo, di avere un corpus di fonti nella mia lingua.
Le riprese non le faccio io, io non faccio che metto il microfono, metto la telecamera, ti riprendo e ho acquisito la fonte a cui tornare. Io non mi posso limitare a questo, perché se io acquisisco una fonte, poi che faccio: la vedo, la analizzo e io storico produco un lavoro, “Storia e memoria delle persone sorde in Italia”, lo produco scritto. Quindi di fatto pure se io sono sordo ripeto esattamente… per cui lo sguardo mio può essere pure quello del sordo ma alla fine però scrivo; è il paradosso della storia orale, no? Che poi si esprime in forma scritta.
E questo è stato anche il paradosso degli studi sulla sordità: non solo sono stati fatti da udenti sui sordi, ma quando finalmente con il coinvolgimento dei ricercatori sordi sono uscite fuori le prime generazioni di [ricercatori] sordi, tendono spesso comunque a reiterare la forma per cui lo scritto parla a persone che magari hanno poco accesso allo scritto. Quindi non c’è circolarità. Allora se io faccio storia in particolare e non linguistica, io che la storia che scrivo su di te devo fare in modo che a te torni e non solo a te ricercatore, studente e persona vagamente interessata in senso accademico alla cosa, ma anche a te persona comune.
Perché dev’essere circolare, perché la storia e la memoria non sono un fatto individuale, sono un fatto collettivo, soprattutto la memoria. Quindi se non c’è circolarità io continuo ad essere una persona che parla sopra l’altro e invece io voglio che l’altro controlli quello che dico. Allora mi serve il video, allora di quello che faccio è chiaro che non potrò mai sostituire [il video]. Attualmente non è agevole sostituire un libro di storia e memoria delle persone sorde perché mi costa molto di meno che fare un documentario strutturato, un archivio. Però io non posso non produrre materiale in lingua dei segni di tutto questo che faccio, non posso non far ritornare alla comunità da cui ho preso, il mio lavoro. E se mi affido solo allo scritto non va bene.
CHIARA: riproduci comunque una dinamica di dominio, stai favorendo il canale dominante che è quello scritto? favorisci la lingua dominante, l’italiano.
LUCA: Sì, la conoscenza è un sistema circolare e io non voglio interrompere il sistema circolare. Per cui chiamo una regista, se posso, a fare le riprese, perché quando poi ho i video, la qualità dei video aiuta e io non posso far vedere una ripresa fatta male, sgranata. Il segno si vede male e non è piacevole. Perché io non mi sto preoccupando solamente di un ricercatore a cui magari non gliene frega niente se il filmato sia bello o brutto, perché lui ha delle strutture di un certo tipo, io voglio arrivare alle persone sorde comuni, e devo portarcele attraverso un percorso che coniughi la conoscenza al piacere. Non posso proporgli un prodotto che non è piacevole, che non è godibile, che non è fruibile, sennò non li coinvolgo più. Perché comunque loro hanno un interesse ma non hanno quell’interesse speculativo del professionista; allora per me non basta semplicemente fare il video ma devi sforzarti il più possibile di farlo buono per restituirlo sotto forma di video o altre cose ma che utilizzino le lingue dei segni.
La maggior parte degli articoli scientifici sui sordi e sulla sordità non hanno una loro versione segnata. Adesso c’è un gruppo di ricercatori bravissimi – in verità ce ne sono più d’uno – c’è una rivista interamente in lingua dei segni, prodotta da un’Università americana che è l’unica Università interamente strutturata per le persone sorde, la Gallaudet, [dove] fanno una rivista online. Ci sono varie esperienze, c’è un gruppo di ricercatori, di studiosi della World Federation of the Deaf, bravissimi, che ha fatto una rivista on line in cui è obbligatorio che al testo dell’articolo corrisponda anche una versione segnata, che non è una traduzione ma lo stesso argomento, le stesse cose, gli stessi temi espressi ma cambiano i medium, cambiano le strutture. Perché sennò poi la circolarità non c’è.
Se non mi pongo il problema della condivisione, del ritorno alla comunità e non al singolo… Non è una questione di ridare il dvd con l’intervista all’intervistato e continuare ad avere un rapporto con l’intervistato, quello c’è, ma è una cosa più ampia. Se non c’è una circolarità, un ritorno, una condivisione con la comunità che ti controlla… E’ riattivando la circolarità che può cambiare quello che io ho detto [la relazione di potere tra intervistato e intervistatore, tra discorso segnato e prodotto scritto], e infatti entrambi i progetti di ricerca nascono per creare degli archivi.
Nel nostro [progetto], il primo, prima ancora di qualsiasi idea di fare una pubblicazione o una ricerca sulle interviste, l’idea era di prendere le interviste e metterle in un archivio video, perché quello serviva. Va beh, a parte la questione che così lo Stato italiano riconosceva comunque questa memoria che è una memoria del paese, è una delle tante memorie del paese; la riconosce, la ospita… nessuno lo fa. Tutti i progetti di ricerca, quasi tutti i progetti di ricerca poi alla fine fanno la fine classica di questo tipo di lavori: hard disk nel cassetto del ricercatore. Nel nostro caso non si poteva fare, perché non è che ci sono altre opzioni. In questo momento non ce n’è in Italia di archivi video pubblici con interviste in lingua dei segni. Allora il nostro obiettivo era fin da subito l’archivio, perché così c’era un riconoscimento di un pezzo della storia del paese. Una delle tante storie, quando io ti ho fatto il paragone con le donne, quando facciamo il paragone con l’indagine di De Martino, al sud, con il dialetto. E’ una delle tante storie della diversità in Italia, di come il Paese è cambiato rispetto alle diversità e di come le diversità hanno cambiato il Paese. E’ un pezzo di storia italiana e quindi lo Stato lo deve conservare.
Creo uno spazio dove le persone sorde possono accedere per produrre conoscenza su sé stesse, sulla propria comunità. E poi ci devo fare un documentario, devo cominciare a produrre con queste cose, con questi video, con questi prodotti in lingua dei segni, devo produrre prodotti in lingua dei segni, così che possano arrivare non solo a chi fa ricerca ma anche a chi solamente vuole sapere la propria storia.
Un lavoro che facemmo sulla seconda guerra mondiale con due persone che lavorano al CNR, sono due del CNR, sordi tutti e due. Noi tre abbiamo fatto il documentario sui sordi romani durante la seconda guerra mondiale, con i pezzi di interviste. Nasce perché io stavo facendo i seminari, quindi sono stato pure, ho pure divulgato i lavori degli altri, piano piano la gente sorda, è successo proprio la cosa più tipica delle interviste nelle comunità; all’inizio la gente mi diceva: «Ma io non ho nulla da dire», dopo un po’ che io facevo questi seminari sulla memoria, piano piano la gente ha cominciato a capire di avere una memoria, di avere qualcosa da portare perché a me succedeva [che dicessero]: «Ma io che ti posso dire», quando andavo da una persona a chiederle di raccontare: «Ma io che ti dico, io non ho fatto niente nella vita», mi rispondevano. Oggi non è più così, perché piano piano da questi seminari sono nati lavori che hanno fatto altri, cioè si è attivata quella circolarità.
E quindi le persone stesse hanno capito di avere una memoria, uno mi è venuto a cercare lui; Alessandro Casellato ha scritto sulla storia orale: «Le fonti orali hanno le gambe e ti vengono a cercare». Dopo tanto lavoro su questa cosa, raccomandandomi alle persone di raccontare, fare, di venire, uno è venuto qua; io lavoravo al computer, non è che c’era un appuntamento, è venuto qua, è entrato con delle foto: «Ti devo raccontare la mia vita»; «Aspetta chiudo la mail» [ridiamo]. Si è seduto e mi ha raccontato la sua storia, gli ho detto: «Va beh, adesso la rifacciamo a casa tua con la telecamera».
E in pratica è come se avesse scritto un libro di memorie, perché lui è omosessuale, è settantenne, m’ha raccontato tutta la storia di sofferenze, immagina: un sordo, omosessuale nell’Italia anni Quaranta/Cinquanta… La comunità sorda pure, era molto poco accogliente nei confronti della sua omosessualità fin quando insieme al risveglio sulla propria identità c’è stata anche proprio un’apertura. Per questo dico che è una storia di rapporti con la diversità del paese. E poi mi era venuto a raccontare questa storia e mi dico perché a un certo punto questo mi è venuto a raccontare tutta questa storia? e poi poco dopo si è sposato e allora lui che ha fatto, si è ripercorso la sua vita, era arrivato al punto di svolta che si è sposato. Perché lui ci aveva messo un po’ per fare outing, accettarsi ed essere accettato; il compagno ancora di più e il matrimonio è il suggello che chiude un percorso e allora lui doveva raccontare a qualcuno. Questo succede a tutti. Però una persona sorda come lo fa? Si scrive da solo un libro? lui non avrebbe potuto farlo. Lo fa scrivere, ma poi una volta che l’hai scritto di chi è questo libro se tu hai proprio difficoltà, a chi lo dai? con chi parla questo libro? E allora lui ha pensato che era meglio venire a raccontare la storia davanti a una telecamera e questa storia sta dentro l’archivio che apriremo. E questa storia oggi è possibile che sia presa, indistintamente nell’archivio, da un qualsiasi ricercatore sordo, e può essere utilizzata perché lui ha dato il permesso all’interno di prodotti che raccontano. Quindi se io un domani voglio andare a raccontare l’omosessualità com’è cambiata negli ultimi vent’anni a delle persone sorde, gliela posso raccontare, nella loro lingua se queste persone, se questi ragazzi di scuola sono sordi e preferiscono la lingua dei segni perché non sono riusciti ad arrivare ad un livello di italiano adeguato, gliela posso raccontare nella loro lingua costruendo dei prodotti o facendogli vedere direttamente l’intervista. Un ricercatore può andare a prenderla; loro sanno dove raccontarla e dove; si riattiva un percorso di circolarità che se tu ti affidi solo allo scritto, si spezza, e non funziona più.
CHIARA: Certo.
LUCA: E quindi questo è, l’archivio per noi era fondamentale. Il primo obiettivo che ci ha fatto muovere è stato proprio quello di aprire uno spazio di conservazione che potesse essere utilizzato, tant’è che pure il progetto europeo, anche quello produrrà un documentario, l’ha già prodotto in verità, perché era proprio un prerequisito indispensabile e poi ti dicevo di questo documentario che abbiamo fatto sulla guerra… Cosa succede, nasce perché uno dei ricercatori del CNR che lavora con le scuole, uno dei ragazzi con cui stava lavorando, l’argomento era la seconda guerra mondiale, e gli chiese: «Ma i sordi che hanno fatto durante la guerra?», e lui gli ha fatto: «Boh, non lo so, cercheremo di scoprirlo», e gli è venuta l’idea e la voglia di andare a vedere questa cosa. Allora, la domanda in sé è pure innocente, è chiaro che si può raccontare la guerra mondiale in tanti modi senza coinvolgere i sordi e i sordi comunque hanno interessi che vanno oltre e al di fuori del mondo della sordità. Ai sordi interessa la seconda guerra mondiale come interessa a tutti. Però tu immaginati una persona con una caratteristica così importante della sua vita che non la vede se non affrontata da un punto di vista riabilitativo: l’auricolare, la logopedia per imparare a parlare, gli sforzi che devi fare per prendere la lingua scritta, parlata, letta e tutto quanto; ma mai la vedi affrontata da altri punti di vista. La lingua dei segni non la studia, la impara e basta; nella storia non incontra mai personaggi sordi, come succedeva per le donne; nell’arte, non ci sono forme d’arte…manca un processo di identificazione, manca un processo di elaborazione di un sé diffuso, non è solo una questione di produzione di un senso di comunità ma di un altro da sé che condivide con te delle cose, e questo non è da sottovalutare non solo nella strutturazione del sé ma anche dell’accesso alla conoscenza.
I sordi vogliono sempre sapere che è successo ai sordi perché tutti noi abbiamo… le storie servono per raccontare la vita degli altri e imparare a vivere noi, le storie servono a quello, fin da quando sei bambino, le storie ti vogliono raccontare fatti della vita degli altri perché tu poi possa gestire la tua. Ma tu hai bisogno di identificarti con l’altro, e ogni tanto serve che tu ti possa identificare in qualcuno che sia uguale a te; una cosa così importante che taglia trasversalmente la tua relazione col mondo a tutti i livelli… Allora se tu alle persone sorde concedi la chiave d’accesso alle cose anche attraverso la loro storia, lo studio della loro lingua, della loro cultura e della loro arte, ottieni risultati migliori. Perché comunque tu stai studiando storia, perché quando tu fai: «Che hanno fatto i sordi durante la seconda guerra mondiale?», stai facendo pure la seconda guerra mondiale!
Allora noi l’abbiamo fatto ripercorrendo tutti i nove mesi dell’occupazione di Roma, nei fatti salienti, alternando immagini, racconti e testimonianze e adesso si usa nelle scuole, è tutto sottotitolato ma non c’è mai la voce fuori campo. Se viene comunicato qualcosa, viene comunicato in presenza, nessuno si deve mai affidare allo scritto per accedere al contenuto. Immagini, tante immagini, oppure abbiamo usato un sacco di immagini di quelle famose. Quando abbiamo raccontato lo sbarco in Sicilia, a parte gli stralci di video di repertorio, c’era l’immagine quella di Frank Capa, perché che succede: abbiamo offerto in quel momento un patrimonio iconografico che noi abbiamo, ma i sordi no. Non ti puoi fidare che ce l’abbiano. Quando io faccio i seminari in giro per il giorno della memoria, mi so’ sentito più volte chiedere chi fossero gli ariani. Tu non vai in giro a fare i seminari, con gli adulti, per il giorno della memoria: «Perché Hitler e il sogno della razza ariana…» nessuno ti chiede chi fossero gli ariani. Tra l’altro mi chiese chi fossero gli arioni, e io ci ho messo un po’ per ricostruire degli ariani perché non mi aspettavo che mi chiedesse cos’è la razza ariana. Da un lato nessuno sa, Ario queste leggende, non lo sa nessuno, lo sappiamo solo noi storici
CHIARA: Lo dai per scontato…
LUCA: Invece questa persona non riusciva proprio a capire il significato anche perché comunque il materiale che portavo era straniero e quindi l’accesso alla lingua straniera non era diretto e si appoggiavano ai sottotitoli e rinasceva il problema: ti perdi i pezzi di testo e ti agganci. Va beh.
Direi che più o meno ci siamo. Poi se devo dire una cosa, la metodologia… il mio lavoro non è stato adattare la metodologia della storia orale alle lingue dei segni, in senso tecnico: come devi riprendere, come si prende il segnato. Io insieme ho seguito anche il cinema sordo, perché faccio parte del gruppo organizzativo di un festival internazionale di cinema sordo, e pure lì c’è una cosa parallela a questo discorso. Cioè, il cinema sordo non è un fatto tecnico; sì è vero, cambiano le riprese, il dialogo da fuori, il dialogo sta qua [intende lo spazio fisico dove vengono eseguiti i segni], non sta nell’aria. Però il cinema sordo non è un fatto tecnico di come inquadrare i segni. E’ come delle persone, che ti ho descritto hanno anche un approccio diverso, inquadrano un mondo e lo raccontano, e quindi un’espressività visiva con cui le persone sorde inquadrano il mondo. Tra l’altro la lingua dei segni utilizza proprio le tecniche cinematografiche ci sono proprio forme d’arte in cui costruiscono inquadrature, una scena, campo lungo, campo stretto, è anche un modo con cui viene raccontato, visto e pensato il mondo. Nella storia orale più o meno è la stessa cosa, non è una questione tecnica di come una lingua in modalità visivo gestuale si approccia alla metodologia della storia orale e della trascrizione, che ha delle sue cose… ma è una cosa sistemica, cioè: a che serve fare storia orale in lingua dei segni? che cosa deve dare? è un impegno diciamo anche politico.
CHIARA: Infatti te l’avrei chiesto.
LUCA: Tutti quelli che vengono coinvolti in the Deaf Studies, e in particolare i sordi che fanno questa cosa, non possono far finta di non avere un impegno militante nella cosa. Qualcuno magari non ce l’ha ma è molto raro. Ci devi avere a che fare più o meno con questa cosa. Non è possibile fare un lavoro di storia orale in lingua dei segni trascurando completamente l’aspetto etico, militante della cosa. Perché appunto abbiamo visto che coinvolge una serie di temi che non possono essere elusi, cioè: la voce dal basso ma [anche] le voci interne allo stesso gruppo, la possibilità di riattivare la circolarità, il coinvolgimento delle persone. Io coinvolgo sempre persone, ricercatori, studenti, giovani brillanti sordi, perché se non c’è una generazione che cresce non serve a niente. Cresce la comunità. La capacità di fare memoria, di fare storia, esce molto di più coinvolgendoli che con quello che io posso scrivere sulla storia e memoria dei sordi. A me serve gente che a sua volta diventerà produttrice, bisogna far crescere, se non cresce l’aspettativa di chi ti chiede storia e memoria non cresce neanche chi la fa. E’ una cosa sistemica in cui ti devi chiedere che cosa vuoi fare, vuoi parlaredi o vuoi parlare con, scegli. Se vuoi parlare di, hai la vita un po’ più facile, se vuoi parlare con è un po’ più complessa [ridiamo].
Sì ma alla lunga paga di più l’altro; come ti ho detto, non vado a prendere la tua storia per farci qualcosa io, non può essere così, deve essere un processo in cui tutti insieme saliamo. Per me è inscindibile quello che faccio dall’andare in giro a raccontarlo, a fare seminari, a produrre documentari. Non so quanti seminari e incontri ho fatto su questo. Per me non è concepibile che questo lavoro non venga fatto coinvolgendo a tutti i livelli la comunità che mi consegna le sue storie. Io mi sento proprio come uno a cui vengono affidate… manca il compito di prenderle e ridargliele, a tutti. Non è concepibile senza fare seminari a tutti i livelli, con tutte le persone, non si può non fare, soprattutto perché voglio ritornare a loro, ai miei intervistati. Parliamo di gente che alle volte gli devi raccontare del 16 ottobre del 1943… io, i primi seminari, quando ho raccontato la razzia del Ghetto ai sordi di Roma, per il documentario, non è che ti limiti, è questo il punto… noi non ci siamo limitati [a fare che] allora mi prendo le tue storie, le ficco sul documentario e presento il mio documentario a un mondo che magari in parte non sapeva nemmeno della razzia del Ghetto di Roma. No, quando abbiamo fatto il documentario, una cosa proprio bella è stata che il presentatore, il conduttore, non seguiva un testo che avevo scritto io; io ero l’unico storico dentro il gruppo ma non seguiva il mio testo. Io avevo elaborato un percorso storico che noi avremmo seguito e un testo di riferimento, ma poi, prima di andare in sala, io in pratica facevo una lezione di storia a quello che avrebbe dovuto mettere il video; fatta quella, lui creava, in modo più spontaneo, però era un fine espressivo, superavamo le rigidità. Un testo che nasce scritto non è adatto per essere segnato; se tu conoscessi l’inglese come conosci l’italiano, leggeresti Shakespeare in italiano o in inglese?
CHIARA: In inglese.
LUCA: Esattamente. Allora se io devo elaborare un testo per un prodotto in lingua dei segni, lo devo elaborare in lingua dei segni. Quindi il testo in italiano era la mia base, per la mia testa tipografica con cui mi strutturavo. Poi mi sedevo, facevo una lezione di storia a quell’altro che mi faceva le domande, e insieme facevamo nascere chiamiamolo il testo, ma non era scritto! da noi era preso, memorizzato e mandato in video; quello poi va in giro a raccontare la storia che abbiamo raccontato con il dvd. Non è stato un passaggio neutro, quindi non sono più solo io che posso andare a fare un seminario su quello; è lui che può andare a raccontare non solo quello che è il suo pezzo di lavoro ma pure la parte storica.
C’è Bourdieu… E’ una questione di appropriazione dei mezzi di produzione del sapere e della conoscenza. Quello che volevo, che ho cercato di fare io nel piccolo o grande che possa essere il mio lavoro, è creare le condizioni per l’appropriazione dei mezzi di produzione della conoscenza, che sono mezzi materiali, conoscitivi e opportunità. Perché servono i mezzi materiali: i video, i soldi per farli, gli archivi dove sono conservati; servono le conoscenze, le persone che lo devono saper fare: devi saper scrivere, sennò non scrivi. Quindi devi avere i mezzi culturali ma devi avere pure la fiducia, il ruolo, le persone che ti riconoscono qualcosa, quello che nel mondo della disabilità viene chiamato empowerment. Cioè se io non te lo do il ruolo tu non sarai mai una persona dentro quel ruolo. Una persona sorda può essere un ricercatore universitario, può fare il docente universitario, può fare questo, può fare quello. Sì o no. Fino a che non è accettato il sì… E’ come le quote rosa in parlamento, vanno protette dalla libera concorrenza, ci deve essere una quota, devo creare quindi i mezzi materiali, le conoscenze, e devo dare potere alle persone che queste cose le fanno. Quando ho fatto queste tre cose, ho fatto un passo avanti nell’impadronirsi dei mezzi di produzione perché se tu non hai il ruolo e la fiducia perché tu poi faccia quelle cose, non le fai. E allora io quello che ho imparato a fare, è dare e fare queste cose. Stanno tutte insieme, se non le fai tutte insieme qualcosa manca.
CHIARA: Certo che è particolare che esista una comunità sorda però così priva di storia per loro stessi. La storia è fondamentale per sviluppare un senso di comunità, il fatto che le persone sorde siano così prive di riferimenti storici…
LUCA: Ma guarda, Zapruder tra un po’ fa un numero monografico sulla lingua, e c’è un articolo che gli ho mandato sulla lingua dei segni, non sulla storia della lingua dei segni. E’ proprio questo il punto, tra l’altro non è che sono privi… tra l’altro, la storia dei sordi è servita tantissimo al cambiamento di paradigma di cui ti parlavo a partire dalla fine degli anni Settanta in Italia e Francia, per rimanere in Europa. Per esempio: Milano, oggi è il famigerato Congresso di Milano, ma prima era il famoso Congresso di Milano [2]. La memoria e la storia dei sordi ha avuto un ruolo fondamentale; il Congresso di Milano non è semplicemente il Congresso di Milano, è il simbolo di un’oppressione alla quale i sordi si sono ribellati nella seconda metà del Novecento.
La storia è stata usata per gestire l’emergenza politica degli anni Ottanta e Novanta, nel senso che quando tu ti devi ribellare, devi scardinare un paradigma che non accetti. Di fatti diciamo che c’è il paradigma medico e quello che medico non è. Nel contrapporsi a questa versione monolitica del sordo, di una persona solo priva di udito… Quando si sono ribellati a questa visione medica abilista della sordità che di fatto è stata anche coloniale. Hai visto la lingua svalutata, sembra proprio un approccio coloniale.
La storia ha funzionato per creare una contrapposizione che creava un senso di coesione nella comunità, ma una cosa che voglio dire: non è originale come cosa. La comunità si struttura intorno a un’identità nata con la lingua dei segni. Quando la lingua dei segni è stata ricominciata a studiare come lingua, e intorno a questa si è coagulata una nuova e più forte [comunità], i sordi con l’ente nazionale, con le battaglie, ci sono sempre stati, però [la comunità] si è coagulata in forme nuove. Per dare un’identità a queste forme nuove, più forte, più radicale, più libera, più intraprendente, la storia dell’oppressione subita con Milano 1880 è diventata centrale. Quindi gli educatori stessi, la storia dei sordi è passata dalla storia di infelici e benefattori: l’infelice sordo, anzi sordomuto all’epoca, e il benefattore che era l’insegnante. E’ stata scardinata questa storia di oppressione e liberazione. C’è un autore americano che ha proprio definito gli anni tra il 1880 e il 1980 come il medioevo dei sordi; si tratta proprio di oppressione e deaf resurgence. Tutta roba americana e inglese, in Italia molto poco. Ecco, la storia è stata, in tutte le fasi, come sempre, una delle leve con cui, come dicevi tu… però la storia dei sordi non è proprio ineccepibile.
Io vengo dalla storia sull’internamento psichiatrico. Ma pure lì, non che non sia vera, né l’una né l’altra oppressione, non è che non esistono, esistono eccome! Però che succede: la necessità politica di scardinare un paradigma ha strutturato una storia incompleta. Quando una nuova generazione di ricercatori – tra cui per esempio c’ero io all’epoca – è entrata a studiare quelle cose senza aver fatto parte dell’antipsichiatria – perché io sono del ’74, quindi per me l’antipsichiatria è una cosa che ho letto sui libri, non è una cosa che ho vissuto –. Quindi ho guardato alle carte manicomiali con occhi nuovi; c’è stato un ampliamento delle prospettive, non è stata cancellata l’oppressione ma sono stati aperti nuovi scenari. E quindi il manicomio non è più solo il luogo di oppressione, era anche un luogo di servizi, diversi da quelli della cura, era un luogo di servizi. Con i sordi succede una cosa uguale. Cioè all’inizio c’era questa volontà di contrapporsi a un modello che era proprio una visione del passato e del presente, di cosa fosse sordo, di cosa dovesse essere, della loro identità, per farlo però hanno costruito una nuova visione del passato contrapposto a quella fondata sull’infelice e il benefattore. Questa nuova storia poi si sta evolvendo, è più sfumata, è più libera, ci sono autori che cominciano a guardare giustamente anche all’interazione fra scuole e sordi. Non erano [solo] un luogo di oppressione; hanno costruito insieme l’identità, una storia molto più ricca. Se vogliamo che questa storia venga scritta, raccontata, costruita, anche dalle persone sorde, allora però dobbiamo porci il problema di quel sistema circolare di prima.
CHIARA: Di come la facciamo, di come la produciamo…
LUCA: Però loro ci raccontano infatti una storia diversa da quella che si faceva negli anni Ottanta.
CHIARA: Ma infatti, volevo chiederti… tu in che direzione vuoi che vada questo ampliamento della storia dei sordi? Che cosa ti interessa che loro… che emerga? Cosa ti piacerebbe che venisse fuori, hai, non so come dire…
LUCA: Attualmente quello che mi interessa a me è far vedere come il modello di storia dei sordi raccontato fra gli anni Ottanta e Novanta… praticamente mi so’ ritrovato la stessa cosa che era successa, come dicevo prima, con l’internamento psichiatrico, ossia [una storia] corretta ma non sufficiente: hai isolato una serie di temi, ma intorno a quelli hai costruito una necessità politica sacrosanta; andava fatto…Tra l’altro è la conoscenza incrementale, non è facile iniziare e studiare una cosa e stare già ai dettagli. Prima passa appunto l’oppressione che è evidente, poi abbiamo nuove generazioni nuovi studi, incrementi di conoscenza… per esempio lo stesso studio sule lingue dei segni, guarda un po’, quello che ha cambiato proprio l’approccio al mondo dei sordi, nasce studiando le lingue dei segni come si studiano le lingue parlate. Cercava le coppie minime, le unità lessicali minime, che tra l’altro a sua volta veniva studiata con le regole della grammatica della lingua scritta.
Queste sono le regole grammaticali. Poi studiando si sono resi conto che è un approccio che loro chiamano assimilazionista, che voleva assimilare alle regole della lingua parlata la lingua segnata che invece ha regole tutte sue, perché il medium è completamente diverso, visivo gestuale contro audio orale. Gli stessi ricercatori che hanno fatto questa cosa e poi hanno cambiato il paradigma, riconoscono che loro quegli strumenti avevano, che si ritrovavano a dover dimostrare che queste erano lingue. C’è comunque la necessità politica del momento; la storia si sa che vive forte il legame con le necessità politiche; l’analisi linguistica magari no, però anche loro hanno subito la pressione del momento, e poi si sono evoluti in una nuova direzione che è quella della linguistica socio cognitiva.
Allora quel momento necessario va superato. Oggi ci sta un approccio intersezionale perché una volta che tu strutturi una comunità, operi un atto di violenza; qualsiasi identità e identificazione è un atto violento, perché noi siamo tante cose tutte insieme. Allora ci sono nuovi approcci oggi che sono quelli dell’intersezionalità, cioè cercano di governare le cose come un insieme di elementi, perché alcune strade intraprese dagli studi sulla comunità sorda erano diventate un po’ troppo rigide. Va beh, quando giochi con l’identità è un terreno sdruccevole, quando giochi con l’identità è un attimo che ti ritrovi dove non volevi stare, è un qualcosa di complicato. E oggi alcuni studiosi, soprattutto sordi stanno battendo tanto la strada dell’intersezionalità, cioè delle plurime identità. Ecco, quello che mi piacerebbe a me è storicamente decostruire un po’ il modello dell’opposizione tra mondo dei sordi e mondo degli udenti, tra scuole e comunità sorde. E di raccontare di nuovo una storia di intersezione, perché è il discorso dei margini, Forgács, Spivak, tutta sta gente qua… a un certo punto si è invertita la polarità, ma il margine è rimasto vago, il margine è un’idea che nel momento stesso in cui tu la riconosci la stai perpetuandola, se non scardini proprio l’intero paradigma puoi invertire la polarità, ma rimane comunque un centro e una periferia. Puoi cambiare la polarità al massimo, ma non hai risolto il problema di aver costruito questa marginalità, e invece l’obiettivo è [considerare] che queste polarità siano costruzioni storico sociali e che se tu vai a guardare più nel dettaglio le interviste te lo fanno vedere. Se tu vai, ti avvicini all’elemento minuto, all’unità parcellizzata, relativa all’esperienza di vita, scopri effettivamente un panorama molto più ricco. Esattamente quello che era successo coi manicomi quando finalmente avevamo [avuto] accesso alle cartelle cliniche. La storia della psichiatria si è fatta guardando gli istituti manicomiali – quello che era la manicomialità –, poi a un certo punto ci hanno aperto gli archivi e siamo andati a guardare le cartelle cliniche, brutalmente si può riassumere così.
Queste sono le nostre storie di vita e se tu le vai a vedere vicino, eh trovi tutti gli strumenti per superare definitivamente questa… per sfumare, rendere l’identità una questione più fluida, più dinamica. Restituire storicità alle varie situazioni identitarie. Riguardo al fondatore di questa scuola si è passati da una cosa all’altra a seconda degli anni, proprio in una maniera evidente, imbarazzante quasi. E quindi secondo me, storicamente, l’interesse principale sarebbe proprio questo qua. E’ cambiato pure il modo di parlare, i termini che si usano sulla sordità, è cambiato tutto; però sono costruzioni, che derivano dai modi in cui le componenti interagiscono tra loro, si costruiscono sempre. L’oppressione dei sordi è stato un passaggio, una realtà, ma non possiamo isolare il discorso sulla sordità, sugli istituti e sull’oppressione, era molto di più; non possiamo fare dei sordi una semplice comunità separata, non sono separate nemmeno le comunità territoriali, figurati se è separata una comunità diffusa in cui la gente addirittura nasce nelle famiglie [udenti]. Cioè tu nasci senza nessun sordo in famiglia e poi magari a vent’anni sei un’attivista della comunità sorda. Ma è un insieme di cose complessissimo ancora tutto da costruire, per certe cose assomiglia alla comunità ebraica che è diffusa in tutto il mondo, è strutturata anche in reti di relazioni ma ognuna comunque… hai mai letto quel bel libro Viaggio alla fine del millennio?
CHIARA: No
[Luca mi racconta sinteticamente la trama]
LUCA: Ecco somigliano alla comunità LGBT perché comunque ci entri dopo, con un percorso, e non necessariamente ci devi entrare; tanti sordi non ci entrano. Soprattutto in Italia è una comunità, è una minoranza linguistica ma non c’ha un territorio, non ci nasci. C’è la federazione mondiale che ha messo insieme le ricerche di due ricercatori, una si chiama Skutnabb-Kangas – è una che si occupa di minoranze linguistiche –, e l’altro è De Varennes, uno studioso che lavora per l’Onu. E in pratica loro sono arrivati diciamo a una formula secondo cui l’idea di appartenenza alla minoranza dei sordi deve saper concepire l’appartenenza anche come un atto di volontà, allora in questo senso si può diventare minoranza linguistica. Quindi in questa minoranza non solo ci devi entrare come percorso tuo, ma una volta che ci stai dentro non è detto che tu debba avere con la lingua quel rapporto pieno che puoi avere tu con l’italiano. C’è un qualcosa quasi di inafferrabile certe volte; però sei sordo, se non sei sordo appartieni alla comunità sorda? alla minoranza linguistica dei sordi? perché i figli dei sordi udenti che segnano che fanno? è una cosa complessa, è un evidenziatore. Francesca tu non l’hai incontrata, noi ci diciamo sempre che è proprio un evidenziatore: non è niente di nuovo quello che ti dico, però quando poi lo guardi sulla comunità sorda è come se avessi evidenziato in giallo le parole chiave di un testo, bam bam bam salta fuori proprio evidente, come certi temi, e tu li devi affrontare.
NOTE
[1] La sottotitolatura di un’intervista svolta in lingua dei segni pone delle questioni specifiche che amplificano il carattere di traduzione proprio di ogni processo di trascrizione. Sul tema generale della trascrizione, con un focus sulla sottolineatura di interviste in LIS, l’Aiso sta peraltro preparando un convegno per l’autunno 2020.
[2] Il “Congresso internazionale per il miglioramento della sorte dei sordomuti” avvenne a Milano nel settembre 1880. Rappresentò un momento di svolta nella storia dell’educazione dei sordi poiché determinò l’affermarsi del metodo di insegnamento della lingua orale e la messa al bando della lingua segnata.