Intervista di Giorgia Gallo.
Intellettuali, culture locali, archivi orali: questo il tema del corso di Storia orale del 2019 all’Università di Venezia; al centro c’era l’idea che la storia orale in Italia sia stata, per alcuni decenni, un movimento largo, che ha mobilitato una generazione di intellettuali “diffusi”, attivi anche al di fuori dei circuiti e dei luoghi più noti, che dagli anni Ottanta in avanti hanno condotto ricerche, scritto libri, fondato associazioni, spesso registrato e conservato interviste.
Di loro sappiamo poco. Li siamo andati a cercare. Gli abbiamo chiesto di raccontarci le loro traiettorie di vita e di ricerca. E di dirci che cosa è rimasto dei loro archivi, dei documenti che hanno raccolto, e a chi pensano di consegnare la loro “eredità materiale” fatta di nastri e cassette con le mille voci che hanno ascoltato. Ne sono usciti degli incontri singolari, illuminanti, talvolta toccanti.
Dopo Rosarita Colosio e Camillo Pavan, incontriamo Giovanni Rinaldi, intervistato da Giorgia Gallo, studentessa di Antropologia.
Il treno mi sta conducendo ancora una volta in Puglia. Osservo il paesaggio che sfreccia dal finestrino e immagino mio padre mentre, giovanissimo, abbandona la sua terra per trasferirsi a Verona in cerca di lavoro. A cinquant’anni dal suo primo viaggio verso il Nord Italia, la tratta ferroviaria che percorriamo è la stessa. Il libro che tengo in mano racconta un altro viaggio lungo gli stessi binari, che nel 1950 decine di bambini fecero dalla Puglia all’Emilia, in quelli che furono chiamati I treni della felicità[1]; è un libro di storia orale ed è stato scritto dalla persona che andrò a incontrare a Foggia, nel pomeriggio: Giovanni Rinaldi.
Rinaldi può essere considerato uno dei primi storici orali della regione. Ha cominciato a intervistare i braccianti agricoli di Cerignola nel 1974, e nel 1981 ne ha ricavato un libro importante, scritto con Paola Sobrero: La memoria che resta. Vissuto quotidiano, mito e storia dei braccianti del basso Tavoliere[2]. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta si colloca la “svolta culturale” della storia orale, quando sempre più ricercatori, formatisi nel lungo ’68, iniziarono a interessarsi, con spirito “militante”, al loro territorio e a tutte quelle realtà di base fino ad allora lasciate al silenzio.
Ce lo possiamo dunque immaginare così il giovane Rinaldi mentre, entusiasta e armato di mangiacassette, si interfacciava con la dura realtà di sfruttamento e povertà dei braccianti agricoli. Da quella sua prima ricerca sono ormai passati più di quarant’anni e la vita l’ha portato a dover svolgere altri lavori per poter “campare”, eppure i suoi occhi e le sue parole mal celano la delusione per l’impossibilità di aver potuto dedicarsi appieno a quella che mi ha detto essere la sua più grande passione: «far parlare le persone e farsi raccontare delle storie». Tuttavia, negli ultimi anni Rinaldi ha svolto ulteriori lavori fondati sulla storia orale per esempio il bellissimo documentario Ritorno a Vico (Daunia Production, Italia, 2014) incentrato sui riti della Settimana santa a Vico del Gargano e sui canti della Passione svolti dalle confraternite durante le cerimonie, ma in realtà anche sulla ricerca che Giovanni ne aveva fatto nel 1978, con registratore e macchina fotografica.
Qui proporrò solo una piccola cernita di argomenti che Rinaldi ha appassionatamente trattato nell’affascinante conversazione di ben quattro ore e mezza intrattenuta nello studio della sua casa, dove ha avuto la gentilezza di accogliermi insieme alla moglie Anna. Un grande ricercatore dunque, ma anche un abile oratore capace di raccontare e di raccontarsi, coinvolgendomi in una variegata narrazione avente la storia orale come filo conduttore e comprendente un ampio arco temporale, dalla sua prima adolescenza fino agli ultimi anni di lavoro. Ne è uscita una sorta di pregnante storia di vita che merita di essere qui riproposta, seppur in modo parziale, tramite le stesse parole dell’intervistato così da poterla apprezzare appieno, come io ho avuto il piacere di ascoltarla dal vivo[3]. Lascio quindi la parola a Giovanni Rinaldi, e questa è la sua storia.
Sono nato a Cerignola. Vengo da una famiglia borghese tradizionale, ma illuminata e colta. Mio padre era avvocato e imprenditore agricolo ma io non volevo diventare avvocato né dottore, non volevo un’occupazione classica. La ricerca era dunque trovare non una università solita e, dopo aver frequentato per quattro anni il liceo a Roma, arrivai a scoprire il DAMS di Bologna. Ed è stata un’apertura di frontiera. Era il ‘73, proprio la fase nascente di questa università caleidoscopica, ed è qui che arrivai alla cultura delle classi subalterne, in una maniera totalmente occasionale.
Il DAMS di quegli anni era sempre qualcosa di esperienziale e io mi incuriosii a un seminario tenuto da Giuliano Scabia. Il titolo era Il Teatro di Stalla, ma non riuscivo a capire di cosa si parlasse perché, venendo da una famiglia borghese, non mi ero mai occupato di cultura popolare. Il seminario ebbe come punto di partenza [la scoperta], in area modenese, di alcuni testi teatrali scritti da contadini. Io e gli altri del seminario iniziammo a studiare questi testi per poi farne delle rappresentazioni e diventammo un vero e proprio gruppo teatrale che si chiamò Il Gorilla Quadrumano, imparando a lavorare in maniera interdisciplinare: io recitavo e suonavo, altri filmavano e fotografavano. Andavamo nelle Marche, nel Lazio, in Lombardia, in Emilia-Romagna a portare questo spettacolo ma, nello stesso tempo, per preparare l’intervento teatrale facevamo anche un lavoro di ricerca parallela: andavamo a trovare le persone che sapevano cantare, i contadini, i maggiaioli, facevamo interviste, [raccoglievamo] materiale, tenevamo un diario di quello che si faceva. Cominciammo praticamente a diventare ricercatori di cultura popolare! E questa abitudine a intervistare, fotografare, registrare e filmare è stata fondamentale per tutto quello che ho fatto dopo. Furono anni belli, di forti motivazioni e opportunità, che non avrei avuto se fossi rimasto a Cerignola. In quegli anni, dopo il ‘68, stare a Roma è stato utile come formazione, [ma fu] grazie all’esperienza [di] ricerca tra i contadini emiliani [che] tornando a [casa] scoprii quello che non avevo scoperto quando ero partito: che Cerignola era [una] città di cultura bracciantile [dove] Di Vittorio era un mito incredibile! Solo a posteriori mi sono ricordato che da ragazzino il Primo Maggio a Cerignola era un qualcosa di fantasmagorico. Facevano le nicchie, le gigantografie di Di Vittorio ma [prima] non riuscivo a capire perché! Io, di famiglia borghese, non stavo nei rioni popolari a vivere queste cose dall’interno, le vedevo [solo] come delle cose che faceva il popolo.
Cominciai a chiedere nel mio paese da chi si poteva andare per farsi raccontare la storia più vicina possibile al mito di Di Vittorio e iniziai, a livello di interesse personale e politico di sinistra, a fare una serie di interviste con il mangiacassette ai braccianti che [lo] avevano conosciuto e [lo avevano sostenuto] durante la sua ascesa politica, raccogliendo materiali sonori, racconti, canti, musiche. Una delle prime cassette è del ‘74, io sono del ‘54, avevo vent’anni e non avevo ancora finito il DAMS quando iniziai a fare queste registrazioni.
[In quello stesso periodo] trovai anche, sempre in modo occasionale, un primo lavoro di ricerca grossissimo che è stato quello che ha portato all’Archivio della Cultura di base[4]. Passai dunque da una ricerca militante, freelance, a ritrovarmi pagato dall’Amministrazione Provinciale, [insieme alla] mia compagna di allora Paola Sobrero, per [ampliare] il lavoro che avevo iniziato a Cerignola e [farne] poi un progetto così vasto da diventare conosciuto a livello nazionale.
[Volevamo infatti] fare una piccola rivoluzione [dedicando] un settore della biblioteca per le classi popolari, perché al di là del fatto che ci potesse interessare come lavoro era proprio un discorso di formazione culturale [il] nostro! Dopo le esperienze universitarie [lavorare con] la cultura popolare era diventata per noi una specie di scelta etica e politica. Era un impegno di vita. In quegli anni avevamo già letto Montaldi, Bermani, Revelli, tutto quello che ha riguardato l’utilizzo della Storia Orale. E ci siamo formati su quello, cioè se vuoi capire le classi subalterne le devi conoscere, punto! Come le conosci? Solo lasciando parlare le persone e andandole ad ascoltare. Il nostro approccio era scientifico [ma anche] emozionale e un po’ romantico perché per me, che venivo da una classe borghese, la ricchezza culturale dei braccianti cerignolani del tempo di Di Vittorio è stata una scoperta.
Fino ad allora nessuno aveva ritenuto che la classe bracciantile fosse utile per fare discorsi culturali, era rimasta sconosciuta. Noi che eravamo interessati a capire come le persone avevano vissuto, come erano state sfruttate, come si erano ribellate, abbiamo poi scoperto che i braccianti cantavano, scrivevano, creavano poesie, avevano miti sociali e simbolici. Queste cose per noi erano gioielli, e le abbiamo scoperte andando casa per casa. Andavamo sempre con un mediatore eh! Perché io, figlio di Giuseppe Rinaldi imprenditore agricolo, prima di essere accettato come il compagno a cui puoi dire tutto c’è voluto del tempo e la dimostrazione che quello che facevo era perché ci tenevo. Noi eravamo interessati alle persone, non alle radici o alle canzoni. [Abbiamo raccolto] centinaia di registrazioni di braccianti che raccontano della loro vita quotidiana, dei figli che non avevano da mangiare, della famiglia. Parlano delle loro condizioni di lavoro nelle masserie e di una forma quasi feudale. C’erano i Pavoncelli, i Zezza, i Caradonna; erano tutti grandi proprietari di terre immense e che avevano mille braccianti a lavorare. [Noi in tutto incontrammo] circa trecento informatori e ho conosciuto pure quelli che lavoravano per mio padre! L’idea era di parlare con le persone, chiunque fossero, ma non [intendendole in modo] generico: il popolo non esiste! Il popolo [sono le] persone specifiche a cui ti rivolgi. E le persone, sapendo che noi eravamo sempre presenti o alla festa o alla riunione politica del quartiere e registravamo tutto, arrivarono al punto [di invitarci anche] ai funerali! Eravamo considerati [parte] della famiglia.
Con questo materiale [realizzammo] La memoria che resta, [che] è appunto un lavoro su un paese (Cerignola), e su una classe sociale, [ma per] l’Archivio della Cultura di Base abbiamo lavorato in trenta-quaranta paesi: tutta la provincia! Facemmo tutto un lavoro d’inchiesta sulle donne braccianti di Orsara di Puglia, sfruttate dai caporali, che noi andavamo alle quattro di mattina ad intervistare [quando] dal sub Appennino scendevano verso Foggia per lavorare. A San Nicandro trovammo testi teatrali contadini che venivano messi in scena nel periodo carnevalesco, canti sociali ed altre cose. Lavorammo poi sulle festività e le cerimonie, come l’Incoronata che coinvolgeva tanti paesi [vicino a Foggia] che arrivavano al santuario in pellegrinaggio con allegorie, carri addobbati con fiori eccetera. Una cosa meravigliosa!
Tutte queste ricerche le facemmo contemporaneamente, sempre in quei quattro anni [1976-1979]. Ogni giorno stavamo in un posto diverso, e se oggi registravamo poi andavamo a casa e trascrivevamo subito! Perché sapevamo già che saremmo tornati, e quando tornavi dovevi avere chiaro le altre cose che dovevi chiedere. Mi ricordo nottate fino alle sei di mattina a trascrivere con la macchina da scrivere, ed era una fatica incredibile. Quasi non dormivamo! [Delle interviste si] trascrive tutto capisci? Anche quello che sembra inutile, perché non sai se quello che cancelli poi ti servirà! Vedere per iscritto [le cose] ti fa trovare la continuità di certi argomenti che solo con l’ascolto rischi di perdere. Sono tutte cose che avrebbero potuto diventare pubblicazioni. Poi la provincia ha smesso di finanziare [e] noi rimanemmo senza lavoro da un giorno all’altro.
Questo materiale [tuttavia] non è stato perso: dal punto di vista etnomusicale è confluito nell’Archivio Sonoro di Puglia, e quella è stata una fortuna! Domenico Ferraro mi ha permesso di digitalizzare 1341 brani, di farne la schedatura, l’analisi e l’indicizzazione. Tutto il Fondo Rinaldi [è dunque frutto] di un lavoro, faticosissimo ma meraviglioso, [svolto] trenta anni dopo aver fatto la ricerca. Io per fortuna avevo tutti gli appunti e le schede di base [grazie alle quali] selezionammo i materiali. I nastri andarono poi in un laboratorio dell’Università di Milano specializzato per la digitalizzazione e mi tornarono i CD con le registrazioni integrali. Dopodiché il lavoro era mettersi con le cuffie e indicizzare, cioè se avevi parlato tre ore con una persona le dovevi far diventare [delle] sezioni con i temi, gli argomenti ed i blocchi logici.
[Ma] l’Archivio Sonoro è essenzialmente etnomusicale quindi c’è un po’ di storia orale ma [soprattutto una] buona parte di musica: [c’è dunque] una buona raffigurazione del mio archivio, ma non tutto [perché] se in un nastro c’era solo parlato quello veniva scartato. Chiaramente tutto l’originale è ancora conservato da me. Io c’ho [ancora] i nastri magnetici, anche perché lì è il punto interrogativo della storia orale: che fare di tutti i materiali originali? devi pensare bene a chi li devi lasciare se non sei un’associazione o un’istituzione! Poi non è nemmeno detto che i nastri digitalizzati [siano davvero salvi], perché per esempio io c’ho dei nastri del ‘74 che si ascoltano ancora, mentre i CD non è detto. [Sempre che] il nastro magnetico [sia] conservato bene! Io li ho sempre tenuti in cartoni chiusi al buio e nel fresco del box, come se fossero stati nei contenitori refrigerati degli archivi.
Tra parentesi le registrazioni sono ancora perfette perché siamo stati gli unici nel Sud a lavorare allo stesso livello tecnologico dei grandi! [Avevamo] gli Uher tedeschi, i Revox, le cineprese migliori, i primi VHS, gli Ampex, tutto il meglio tra nastri magnetici e microfoni. Ci siamo fatti comprare il meglio dalla biblioteca, perché già lo usavamo [al DAMS]! E se lavori in storia orale devi sapere l’importanza della qualità della registrazione! [Perciò] il mini recorder [lo si usava solo per i] memorandum, quando stavi in giro e qualcuno ti voleva dire qualcosa, mentre le cose più complicate, come le bande, le abbiamo registrate in stereo. E quello già da solo pesava dieci chili! [Era come se] ti portassi una specie di trolley su una spalla.
Tutte queste cose qua noi le avevamo ben presenti perché venivamo dall’abitudine di Roberto Leydi e Franco Coggiola e avevamo fatto proprio lezioni su quello: come posizionarci, come poggiare il registratore e il microfono, a che distanza, come capire fino a che punto incideva sul modo di parlare di una persona. Insomma studi che, in quegli anni, erano scientifici e il lavoro era professionale.
[Allora] la rabbia mia è che io ho fatto delle cose bellissime con mezzi ottimi, ma [molto] materiale è sparito – non ti so dire se rubato, distrutto o cosa – perché era la parte che abbiamo lasciato alla Biblioteca [Provinciale di Foggia] quando [il progetto dell’Archivio della cultura di base] si è chiuso![5] Solo quello che avevamo a casa si è conservato. [E questo per un] disinteresse provinciale, amministrativo.
[Solo nel] 2003 c’è stata una ripresa [di interesse] quando Roberto Raheli e Vincenzo Santoro, della casa editrice Aramirè di Lecce, vennero a scoprire questo [mio] massiccio lavoro di storia orale [e decisero di ristampare] La memoria che resta[6]. Allora con Paola [ci siamo messi all’opera] per due anni, ed è stata una fatica [perché tra le due] edizioni c’è un ampio scarto che comprende un altro argomento di dibattito degli storici orali: come trascrivere le testimonianze.
Onestamente non è una cosa su cui si può mettere una parola fine perché per esempio noi nella prima edizione trascrivemmo tutto tentando di essere il più fedeli possibili alla registrazione, [quindi con] i tentennamenti, gli incisi, le parole troncate, i puntini di sospensione. Una fedeltà che per noi era quasi etica, mentre tutta la descrizione del contesto era demandata all’introduzione. Ma in realtà queste trascrizioni erano [già] una italianizzazione dei modi di parlare dialettali, e noi alla fine dei conti rimaniamo [sempre] mediatori del racconto. [Allora] a questo punto è meglio trascrivere quello che ci hanno raccontato nella maniera migliore affinché lo si possa capire. Per avere una maggiore decifrabilità [dunque] le trascrizioni le abbiamo raffinate e pulite. Sono più libere! Se poi vuoi sentire [esattamente] quello che hanno detto allora ascolti le registrazioni, ma nemmeno lì [c’è] tutta la verità perché non li vedi! [E le interviste] non bastano [per cogliere] quelle cose che [ci] insegnava Camporesi: la cinetica [del] corpo, la prossemica.
[Io] tutti i materiali li ho sempre utilizzati così, mescolando frammenti audio di interviste, fotografie, video, documenti cartacei, in sintesi audiovisive. Perché, per raccontare, la sola parola non basta, soprattutto se devi spiegare a dei ragazzi di oggi delle cose che sembrano, per loro, lontanissime![7] I più tradizionalisti ritengono che io abbia fatto dei lavori di tipo più divulgativo [che] specialistico, [ma] per me gli aspetti della riproposta sono fondamentali. È la capacità di far diventare [uno studio] condivisione che ti rende uno che fa un lavoro utile e importante.
Già all’epoca noi fotografavamo, registravamo e filmavamo tutto e [con] questo materiale, poche settimane dopo, giravamo per Cerignola [ad] organizzare degli incontri, anche nelle sezioni comuniste, [dove] veniva mostrato. Volevamo che queste occasioni diventassero nuovo argomento di discussione e [si creava] proprio una specie di animazione sociale in cui [le persone] parlavano di quello che vedevano. Ed ecco la riproposta: come se restituissimo quello che avevamo “rubato”.
Registravamo anche cose collettive, perché il metodo era sempre quello: registratore al centro del tavolo e si registrava! e la bellezza di questi incontri [stava anche nel fatto che] per molte persone [era] la prima volta che vedevano queste cose messe in una mostra. I braccianti [stessi] non avevano mai visto le fotografie della loro storia! Loro entravano e si mettevano a piangere! E noi ne approfittavamo perché chiunque poteva sedersi e dire: «Mado’, mi so’ ricordato!», tac! e noi registravamo. Stavamo là, ad aspettare che le persone venissero a farsi intervistare. [Quando] era una cosa che non gli chiedevano più manco i figli capito?
[Eppure proprio per il fatto di] registrare tutto non eravamo guardati benissimo dai dirigenti del partito comunista di Cerignola, perché [avevamo] nelle registrazioni anche quelli che ci dicevano: «Noi ci siamo disinnamorati del partito perché abbiamo visto che quello si è fatto la villa» eccetera. Il registratore [è] un elemento di democrazia sostanziale, e lo scrive benissimo Bosio nell’Elogio del magnetofono. [Dunque noi] non eravamo ligi e ortodossi perché non eravamo tesserati comunisti, in più andavamo in giro a far parlare le persone. E [questo] è pericoloso, sempre!
[A noi] non interessava il solo lato politico: [volevamo] unire all’attività politica quella culturale, la riproposta, il lavoro con la musica, la riflessione capito? Molte pagine de La memoria che resta farebbero capire tante cose rispetto la situazione attuale in provincia di Foggia [dove] ogni estate stanno ancora 15.000 braccianti, in maggioranza lavoratori immigrati. Oggi c’è poca gente che si occupa di questo, [mentre] tutto il movimento di storia orale degli anni Settanta [si concentrava proprio sul] tentativo di guardare la realtà delle condizioni di chi esprimeva la cultura popolare [e di] creare una memoria condivisa tra lo storico e il soggetto narrante.
Quindi alla fine ci sarà quello che abbiamo raccolto delle persone, ma insieme alla loro storia [c’è] pure la nostra! La memoria che resta è anche la mia memoria, è la mia storia insieme a quella dei singoli che ho incontrato. Questo per dire [cos’è] per me la storia orale. [Ma] io non sono solo un ricercatore di storia orale, non sono un accademico. Il mio specifico è nell’aver miscelato sempre tutte le possibilità per provare a rappresentare la storia orale, [la quale] non si può solo né scrivere né raccontare! è più complicato, perché le persone si mettono con le loro cerimonie, con la loro abilità di raccontare e ti trasmettono tante cose che tu non puoi sintetizzare così facilmente. [Il libro] è una gabbia rispetto a tutte le storie che ti hanno raccontato. [E] queste storie sono vive! non meritano di essere nascoste, dimenticate. [Esse costituiscono] la bella memoria di questo Paese, lo dobbiamo dire tutti, lo dobbiamo sapere tutti!
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[1] Giovanni Rinaldi, I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie, Ediesse, Roma 2009.
[2] Giovanni Rinaldi, Paola Sobrero (a cura di), La memoria che resta. Vissuto quotidiano, mito e storia dei braccianti del basso Tavoliere, Amministrazione provinciale di Capitanata, Foggia 1981.
[3] Il testo che segue è frutto di una rielaborazione della trascrizione verbatim dell’intervista. Le frasi utilizzate sono state tratte integralmente da quest’ultima mentre gli unici cambiamenti effettuati nel testo originale riguardano la correzione di forme grammaticali e sintattiche tipiche della lingua parlata. L’inserimento di parole aggiuntive o di alcuni elementi di congiunzione è stato invece segnalato tramite l’utilizzo delle parentesi quadre e ha il solo scopo di rendere più fluida la lettura dell’elaborato stesso.
[4] Il progetto dell’Archivio della Cultura di Base fu ideato da Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero su iniziativa del vicedirettore della Biblioteca Provinciale di Foggia Guido Pensato e venne sostenuto dall’Amministrazione Provinciale con l’obiettivo di creare un’ imponente raccolta di testimonianze orali – individuali e collettive – accompagnate da rilevazioni fotografiche e audiovisive relative alla storia dei braccianti della Capitanata, alle loro lotte per il lavoro ed ai grandi miti collettivi di natura sociale, culturale e religiosa come Di Vittorio, il Primo Maggio e l’Incoronata.
[5] I materiali di cui non si è più avuta traccia comprendevano alcune registrazioni, un’intera mostra fotografica e quattro documentari riguardanti le cerimonie svolte durante il Primo Maggio a Cerignola, l’Incoronata, il Carnevale a San Nicandro e la Passione del Venerdì Santo a Roseto val Fortore. Solo recentemente si è avuta notizia del ritrovamento del documentario “La Festa del Primo Maggio a Cerignola. 1977” presso i depositi della Biblioteca Provinciale di Foggia. Invece, oltre a La memoria che resta, si è conservata ancora qualche piccola pubblicazione rimasta interna alla Biblioteca Provinciale come Proletariato agricolo in Capitanata e nel Ferrarese e Primo Maggio. Protagonisti e simboli della festa del lavoro a Cerignola e in Puglia. Nel ‘79 uscì inoltre un disco in vinile dell’Istituto Ernesto de Martino incentrato sulla figura di Di Vittorio, nel quale vennero utilizzate delle interviste fatte da Rinaldi ad alcuni braccianti cerignolani che erano stati amici e compagni del sindacalista.
[6] Giovanni Rinaldi, Paola Sobrero, La memoria che resta: vita quotidiana, mito e storia dei braccianti nel Tavoliere di Puglia, Aramirè, Lecce 2004, con 2 CD audio.
[7] Rinaldi si riferisce qui al progetto Casa Di Vittorio [vedi www.casadivittorio.it] da lui ideato nel 2006 per il comune di Cerignola e diventato poi anche un’associazione avente il fine di realizzare tutta una serie di attività divulgative nelle scuole per avvicinare i giovani cerignolani alla figura di Di Vittorio e sensibilizzarli alle problematiche del territorio.