di Alessandro Casellato
Questo articolo fa parte della rubrica “Interviste sull’intervista” per la quale rimandiamo all’introduzione di Francesca Socrate qui.
Il colloquio si è svolto a Venezia, venerdì 7 giugno 2019, accompagnando Rita Di Leo dall’albergo, in Fondamenta de le Romite, alla stazione ferroviaria, con tappa al caffè di Ca’ Foscari. Il giorno prima Rita di Leo aveva tenuto una relazione dal titolo “Classe e popolo” all’interno del seminario “Ascoltare il lavoro”. L’intervista non era preventivata: semplicemente, quando Rita ha cominciato a raccontare di come ha conosciuto Carlo Levi, le ho chiesto di poter accendere il registratore, e abbiamo continuato camminando. Per questo la registrazione è diventata anche un documento del paesaggio sonoro della città di Venezia in un giorno di primavera.
RITA: Questa storia comincia con mio cugino che nel governo De Gasperi-Togliatti-Terracini, era il responsabile della distribuzione degli appartamenti dei fascisti che erano scappati da dare agli antifascisti comunisti senza casa, di ritorno dall’estero. Mio cugino era l’unico magistrato, aveva 24-25 anni, comunista, gappista, si chiamava Paolo Raho, ed era l’unico magistrato di cui all’epoca potesse disporre il partito. All’epoca ebbe un potere enorme, per cui ha dato appartamenti a Ingrao, Platone, Ruggiero Grieco, e così via. Carlo Levi – che usciva dall’esperienza di Italia libera a Firenze, si era trasferito a Roma e cominciava essere noto a tipi come mio cugino – e dunque bussa alla porta dell’appartamento in cui Paolo viveva con la madre, e la madre dice: “Lei non può entrare, perché mio figlio è appena arrivato dal ministero, dica come si chiama, glielo riferirò”. E lui disse: “Mi chiamo Carlo Levi”. Allora mio cugino che stava di là, si precipita, e dà a Carlo Levi prima l’appartamento a Palazzo Altieri, e poi quello dove io l’ho conosciuto, il grande studio alla villa Strohl Fern, dietro Piazza del Popolo. Carlo Levi e mio cugino entrano in grande amicizia, per cui quando io, subito dopo il terzo liceo, dissi che volevo fare la rivoluzione e andai a Cerignola a fare la ricerca sui braccianti, e quando finii il primo capitolo telefonai a mio cugino e gli dissi: “Mettimi in contatto con Carlo Levi”, che naturalmente avendo fatto Cristo si è fermato ad Eboli… Carlo Levi ha avuto una grande passione per me perché avevo anni diciotto e mezzo e avevo fatto una ricerca che non l’aveva ancora fatta nessuno, allora mi mise in contatto con Panzieri che era stato appena, allora, preso da Einaudi, e poi Panzieri fece la grande battaglia perché Einaudi – ma non Einaudi: Calvino e un altro – accettassero la ricerca, perché era talmente fuori dagli schemi, non c’era l’operaismo…
ALESSANDRO: In che anno siamo?
RITA: Dunque, io ho preso la licenza liceale nel 1959: liceo classico, nello stesso liceo dell’avvocato del popolo Giuseppe Conte. Dopo il liceo mi aspettava l’università: filosofia, la sola materia che mi interessava, e sono andata a farla a Roma dove avevo la zia e questo mio cugino e altri due cugini, tutti ex gappisti. Quindi io ho avuto la fortuna di avere questo rapporto amicale con Carlo Levi che si è concluso solo con la sua morte: lui ha continuato a venire a casa mia, e io a casa da lui; a casa sua ho conosciuto alcuni personaggi dell’epoca, da Adriano Olivetti, a Moravia, e venivo presentata come la ragazzina del sud che niente di meno si occupava di braccianti. A Carlo Levi il capitolo piacque e mi mise in contatto con Panzieri che era stato appena assunto da Einaudi. Le difficoltà maggiori le ho avute proprio a Torino da Einaudi, dove c’era un razzismo terribile nei confronti di chi veniva dal sud, e non avevano intenzione di pubblicare questa mia ricerca talmente fuori dagli schemi. Io l’ho saputo dopo, perché Raniero, che era un gran buono, non mi ha detto nulla, me l’ha detto solo dopo che la ricerca fu pubblicata. Ricerca che ebbe un grandissimo successo, all’epoca; il titolo è di Levi: I braccianti non servono. Aspetti della lotta di classe nelle campagne pugliesi, ed è stata tradotta in più lingue.
ALESSANDRO: Come avevi fatto questa ricerca?
RITA: La ricerca, questa è una bella domanda… non lo so neppure io. Per mesi ho preso gli autobus SITA, sempre con la stessa gonna e la stessa maglietta; le mie origini sono alto borghesi, e si vedevano; compravo “l’Unità” come fosse un passaporto e salivo sull’autobus; l’ho fatto per quattro paesi: Cerignola, Lucera, Carpino e un altro, quarto, che adesso non mi ricordo come si chiama. Sono andata a Cerignola per via di Di Vittorio, e quando sono scesa dall’autobus, la prima volta ho chiesto dov’era la sezione del partito, perché si doveva fare così all’epoca; sono entrata nella sezione del partito, c’erano quattro vecchi vecchissimi, e ho detto che volevo parlare con loro della situazione nelle campagne. Ora da dove mi venisse questa idea delle campagne… non lo so! Non te lo posso proprio dire. Uno di quei quattro si alzò e mi disse: “Posso aiutarti io”. Ed era un personaggio grandissimo, si chiamava Giuseppe Angione, ed era l’amico più fidato di Di Vittorio – cosa che io ignoravo completamente – era quello che andava a prendere Di Vittorio a Foggia quando Di Vittorio tornava giù, e nel viaggio fino a Cerignola gli raccontava come si era comportato il partito, il sindacato e così via; così Di Vittorio arrivava lì che sapeva già tutto. Angione era stato un antifascista e aveva imparato persino l’esperanto nell’isola dove era stato confinato… personaggio di grandissima intelligenza, poeta contadino, aveva fatto un poema lunghissimo su Di Vittorio. Angione mi ha aiutato moltissimo perché mi ha portato in giro nei posti giusti, cioè mi fece scoprire la cosa di cui adesso parlano tutti, cioè la vendita delle braccia, che all’epoca nel sud si faceva al tramonto, adesso si fa all’alba perché dei neri non gliene importa niente a nessuno. Si faceva al tramonto, uno spettacolo terribile, perché tu vedevi i braccianti che stavano fermi e i capoccia dei padroni che passavano e giudicavano se tu eri in grado – tu saresti stato in grado – di lavorare oppure no, e ti dicevano vieni domani alle quattro. Angione mi ha insegnato tutto di quel mondo. Lo stesso spettacolo poi l’ho rivisto negli altri paesi: meno gente che a Cerignola perché Cerignola era il paese di due grandi proprietari fondiari, Cirillo Farrusi e Pavoncelli. Quando nel dopo guerra c’era stata l’occupazione delle terre, ci fu l’assalto ai palazzi dei padroni, Angione aveva impedito – essendo comunista – che venissero ammazzati, ed era stato il primo sindaco, poi spazzato via quando arrivò la Democrazia cristiana. Quindi sono stata molto fortunata a incontrarmi con lui.
ALESSANDRO: Quindi lui ti portava…
RITA: Lui mi portava a vedere che cosa succedeva ai braccianti. Mi ha portato nella piazza di Cerignola, che era la piazza del Duomo, che chiamavano Piazza del Cremlino. E poi mi portava nelle case a seconda del tipo di bracciante: il bracciante con poca terra, il bracciante con un po’ più di terra, il bracciante senza terra. Ora naturalmente lui la pensava al contrario di me che volevo che i braccianti diventassero tutti operai e avessero un contratto di lavoro e i diritti che cominciavano ad avere all’epoca gli operai. Lui invece voleva che Cirillo Farrusi e il conte Pavoncelli fossero espropriati e le terre fossero date ai contadini… mi pare normale. La ricerca doveva finire con un capitolo sui braccianti che emigravano a Torino, alla mitica FIAT, perché non riuscivano a trovare lavoro nei loro paesi, e quindi io sono andata a Torino, e sono andata a Torino abbastanza presto, cioè nel maggio del ’59, ad anni diciannove, e andai lì con una dritta di Raniero che mi disse: “Guarda devi andare a parlare con due persone: Gianni Alasia e Aris Accornero”. Allora sono andata alla Camera del lavoro di Torino, e ho chiesto di parlare con Garavini, che era il segretario della Camera del lavoro, e intanto mi sono seduta ad aspettare, si avvicina Aris, dice: “Posso aiutarti?”. E io gli rispondo: “Non mi puoi dare del tu perché io non sono una compagna”. Allora lui mi risponde: “E allora se non sei una compagna non ti aiuto”. Poi nella realtà, avendo io anni 19, e lui nove anni più di me, ma ancora era giovanissimo, in realtà mi ha molto aiutato, e mi ha aiutato un po’ come il contadino del sud, portandomi nelle zone dei meridionali a Torino, e facendomi conoscere Diego Novelli, il quale si occupava all’epoca dei meridionali, e quindi ho avuto facilità nell’inchiesta. Allora è nato più o meno il rapporto…
ALESSANDRO: Il vostro amore…
RITA: Da parte sua, perché io invece sono tornata a Roma, a fare lavoro di base che nella mia testa d’allora significava lavorare per la rivoluzione. A Roma Raniero – io avevo un rapporto molto particolare, per un motivo che se ti dico spero che tu prenda bene: perché sono per metà ebrea, allora…
ALESSANDRO: Anche Raniero?
RITA: Sì e quindi c’era un rapporto molto facile. Mi vergogno a dirlo. Raniero a Roma mi portò dal direttore di “Nuovi Argomenti”, Carocci, il quale mi diede i soldi, molti all’epoca, per fare una ricerca sugli edili, attraverso interviste, e io assoldai quattro o cinque giovani, ragazzi e ragazze, cui davo all’epoca 3.000 lire a intervista, che era una somma…
ALESSANDRO: Era tanto!
RITA: È stata un’esperienza per me importante ma la ricerca non andò bene perché nel frattempo era venuto su l’operaismo, “Quaderni rossi” e così via, e diciamo che io trascurai gli edili per occuparmi in toto dei “Quaderni rossi”, e perché dico così? Perché essendo io, come ho detto prima, avendo io una casa abbiente… mia sorella e io ci eravamo trasferite a Roma, io potevo accogliere i compagni, e dare loro persino da mangiare, e quindi a casa mia è stato deciso di chiamare i “Quaderni rossi” “Quaderni rossi”, “Classe operaia” e così via, semplicemente per questa ragione, cioè per un motivo molto materiale.
ALESSANDRO: Dove era la casa?
RITA: A Corso Trieste. Ed è lì per esempio che ho conosciuto Trentin, perché si era sparsa nel frattempo la voce di questi “Quaderni rossi” e Trentin era venuto a conoscermi.
ALESSANDRO: Era con Foa?
RITA: No no. Io Foa l’avevo già conosciuto… per la ragione che ho detto un momento fa. Ero stata portata da Raniero più volte a casa di Foa che aveva con Lisetta un appartamento che davano allora ai deputati sulla strada che va verso l’aeroporto, poi si sono tutti quanti fatti altre case; loro avevano quella casa. Foa l’ho conosciuto bene. Anche Lisetta. Ma Foa era più simpatico di Lisetta. Erano molto amici di Raniero naturalmente.
ALESSANDRO: Ma perché dici: “Mi vergogno a dirlo”, di questa tua radice ebraica?
RITA: Perché c’è ancora e di nuovo tanta diffidenza. La ragione è quella. Per il resto la mia famiglia assolutamente era… mia madre era… assolutamente laica. Solo che a Roma durante la guerra abbiamo avuto problemi, per questo quando siamo andati a Foggia, i problemi sono stati messi sotto il tappeto.
ALESSANDRO: Tuo papà che lavoro faceva?
RITA: Avvocato, avvocato meridionale tipico. Ma importante era mio nonno, che era un grande avvocato, che era quello che aveva salvato Di Vittorio un paio di volte dalla galera. Famiglia la mia del tutto anomala rispetto al milieu borghese cattolico democristiano o fascista di Foggia. Casa mia era piena di libri di tutti i tipi, quindi era tutto facilitato, questa è la realtà. Facilitato anche nel senso che nel ’60 mia madre consentisse che le due figlie a quell’età andassero ad abitare da sole a Roma, c’era certamente sua sorella in città ma abitava da tutt’altra parte. I “Quaderni rossi” sono nati proprio per iniziativa di Raniero, resa possibile perché a Torino c’era il gruppo che tu sai, Rieser e Giovannino Mottura, e perché a Roma c’era Tronti, un po’ Paolo Santi, figlio di Fernando Santi, e poi c’erano Coldagelli e Asor Rosa. Raniero mi indirizzò così: “A Roma tu, le sole persone da frequentare più o meno della tua età – no avranno circa dieci anni più di te, però non fa niente – sono tre, uno si chiama Tronti, l’altro si chiama Asor Rosa e l’altro si chiama Coldagelli”. Tieni presente che con queste tre persone ancora mi frequento. All’epoca 1961, presi un primo appuntamento e io li vidi tutti e tre, questi tre giovanotti abbastanza imbarazzati dall’arrivo di questa ragazzina, e poi aspettammo Raniero, che era sempre in ritardo. Solitamente andavamo tutti e cinque a mangiare al ghetto; Raniero mangiava sempre la coda alla vaccinara (terribile) mangiava con suo grande piacere, perché a Torino non la trovava. Era una persona straordinaria; quando arrivava a casa mia, e arrivava sempre un’ora dopo, entrava, dicendo: “Dov’è il telefono? Sempre al solito posto?”. E magari chiamava Tokyo. Perché era sempre senza una lira, e io gli prestavo i soldi. La prima volta che arrivò con un loden nuovo quasi svenivo. La sua casa a Torino gliel’aveva arredata Giovannino Pirelli, ricordo un divano sfondato e le minestrine quando ero a cena da loro, i tre bambini e la meravigliosa Pucci. [Rita Di Leo ha insegnato Economia dei paesi socialisti all’Orientale. Parla dei viaggi in URSS. La difficoltà di avere rapporti diretti con gli operai. Grande fascino. L’ultimo libro è L’età della moneta, Il Mulino: è un libro di storia]
ALESSANDRO: Invece quando facevi la giovane operaista gli operai li incontravi?
RITA: Ah sì! Avevo una enorme facilità, infatti io ero la deputata al primo contatto. Questa facilità mi veniva paradossalmente dalla mia estrazione, perché avevo avuto la possibilità di avere rapporti con – non equivocare – con i “subalterni”, e quindi sapevo come non farli sentire tali. Ero la preferita: andavamo fuori dai cantieri o fuori dalle fabbriche…
ALESSANDRO: E come riuscivi ad accreditarti?
RITA: Con la faccia tosta.
ALESSANDRO: Perché eri una ragazzina?
RITA: Sì, immagino che fosse perché fossi… sai, donne allora non è che ce fossero tante.
ALESSANDRO: Ma anche perché eri giovane, forse?
RITA: Sì ero giovane, ma soprattutto perché ero molto tranquilla nel rapporto con loro, e sapevo fare le domande giuste, non ho mai avuto problemi. Uno a disagio era Mario Tronti, che appunto essendo di estrazione molto popolare…
ALESSANDRO: Ah, ho capito! [chissà se ho capito: lì per lì ho pensato che Tronti fosse socialmente troppo vicino agli operai, ma da questi distinto, per riuscire ad avere con loro un rapporto sciolto]
RITA: Non era capace. Diciamo che sia con gli operai alla FIAT, sia con gli edili e anche con gli altri della Fatme e della Fiorentini, non ho mai avuto problemi.
ALESSANDRO: Quindi anche con gli edili, nonostante avessi dei collaboratori…
RITA: Sì ma io ci andavo sempre. Io davo loro i questionari da compilare, però il rapporto diretto che a me sembrava importante avere, quello lo riservavo a me. Ed ero accompagnata spesso dal segretario della FILLEA, un personaggio straordinario, ex partigiano, Angelo Fredda il quale mi legittimava con lo stare accanto a me a parlare con gli edili nella pausa pranzo. Lo vennero a sapere quelli dell’“Espresso” e fecero un servizio che diceva: “Gli studenti si occupano degli operai”. Quando Fredda lesse il pezzo… per fortuna che ero una ragazzina, se no mi menava: mi cacciò in malo modo, mi cacciò immediatamente perché all’epoca uscire sui giornali per i comunisti era un errore, non un mezzo di propaganda, e io mi ero prestata al gioco… Naturalmente io non lo sapevo nemmeno dell’“Espresso”. Ripeto che era facile parlare con gli operai, però gli operai dovevano essere sicuri che tu eri di sinistra, se poi avevi la tessera del partito, allora era fatta. Tutto ciò adesso è diventato assolutamente incomprensibile, adesso devi avere la tessera della Lega; allora dovevi avere la tessera del partito comunista.
ALESSANDRO: Usavate il registratore o erano sempre questionari scritti?
RITA: No, ma quale registratore… solo Aris.
ALESSANDRO: Aris è stato uno dei primissimi; registrava di nascosto…
RITA: Anche perché poi gli operai se tu registravi non… invece se prendevi appunti o altro, si fidavano.
ALESSANDRO: Dove li incontravi?
RITA: O davanti alle fabbriche, quasi fuori Roma; o nei cantieri; o appunto nelle sezioni del partito, se mi facevano entrare.
ALESSANDRO: Erano dei presìdi.
RITA: Erano veramente dei presìdi. Nelle sezioni c’erano le bibliotechine, c’erano le radio, poi arrivò la televisione, soprattutto nei quartieri periferici [confronto con l’oggi nei quartieri periferici]. La diffidenza c’era ai quadri intermedi e ai quadri alti, la solita diffidenza del partito e del sindacato nei confronti degli intellettuali. Ma a livello popolare assolutamente no. Io andavo a Tiburtino III o alla Magliana, quando mi vedevano da lontano scendere dall’autobus, mettevano Bandiera rossa, non Bella ciao… negli ambienti di partito avevo difficoltà per il rapporto con Aris, perché io ero troppo a sinistra rispetto al partito. Te l’ho già raccontata del film I compagni? Quando andavamo al cinema Aris e io ci sedevamo in posti diversi, questa era la situazione. Andiamo a vedere I compagni, e ci mettiamo insieme. Il giorno dopo Trentin telefona ad Aris e dice: “Ma tu che ci facevi ieri sera con Rita Di Leo, al cinema?”.
ALESSANDRO: Tu sei stata anche dura ieri su Bruno, nella tua relazione, sul passaggio al sindacato dei diritti; ma è una delusione che è maturata in quella circostanza o anche prima?
RITA: No no no, l’ho sempre visto come un grandissimo intellettuale del Partito d’Azione, capitato chissà perché nell’ambiente di Di Vittorio. Glielo ho anche detto, sia chiaro. Bisognava vederlo come trattava i compagni di base. E poi allo stesso tempo aveva tutti i tic di quelli che erano influenzati dal sistema sovietico. Quando andavo in CGIL a trovarlo, mandata da Raniero o da Foa, lui chiudeva la porta e mi diceva: “Non vorrei che ti vedessero”.