Ogni racconto autobiografico è il risultato della ricerca di un senso da parte di chi narra rispetto al sé di cui narra. Cioè un accordo tra l’“io” dell’intervistato che racconta e l’”io” di cui racconta: senso vuol dire quindi una coerenza tra il passato dell’evento e il presente dell’intervista con gli inevitabili cambiamenti del punto di vista, dell’identità e della soggettività del narratore, e con i paralleli inevitabili cambiamenti del mondo che gli sta intorno.
È un’operazione in larga parte inconsapevole, che si riflette nella costruzione narrativa, in primo luogo. Ma anche nella scelte sintattiche, negli schemi grammaticali, nelle associazioni semantiche. Così come nei lapsus, nei silenzi, nelle dimenticanze, nelle retoriche.
La costruzione narrativa, e tanto più le scelte grammaticali, lessicali e sintattiche prescindono dalle intenzioni e dalla consapevolezza del narratore, e diventano quindi per chi fa storia orale indizi, spie da investigare per interpretare il racconto e rintracciare la soggettività dell’intervistato e i meccanismi della sua costruzione memoriale.
Con quali strumenti?
Narratologia, psicoanalisi, psicologia, lo studio della storia e dei contesti che si sono avvicendati tra il tempo dell’evento e il tempo del racconto, l’intuizione, e la linguistica.
Prosegui la lettura della relazione di Francesca Socrate, La memoria autobiografica del ’68: un’analisi linguistica.
Qui invece puoi leggere l’intervento di di Marco Lo Cascio, Ai margini del ’68: progetto IRSIFAR di raccolta di fonti orali nell’area romana.