Lo scorso 10 novembre, presso la Casa della Memoria di Roma, si è svolto un seminario dedicato a “Storia orale e culture popolari”, organizzato in collaborazione da AISO, Circolo Gianni Bosio e Istituto Ernesto de Martino in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Fabio Dei Cultura popolare in Italia (Il Mulino 2018).
Pubblichiamo qui sotto il testo dell’intervento introduttivo di Bianca Pastori e, in fondo, la registrazione audio di quello conclusivo di Fabio Dei.
Per noi di AISO, questo vuole essere un primo incontro su un tema che ci sta a cuore e su cui intendiamo continuare a lavorare.
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Intervento di Bianca Pastori
L’opera Cultura popolare in Italia è il frutto maturo di una lunga riflessione del suo autore sulla cultura popolare, sulla storia e sul futuro degli studi demologici in Italia. Dei rileva nel testo come le tematiche proprie della demologia siano state progressivamente trascurate a partire dagli anni ’80, salvo essere rifunzionalizzate sotto l’egida del Patrimonio culturale immateriale in tempi più recenti. Una disamina critica e riflessiva su quella stagione di studi, sulla sua interruzione e sui suoi lasciti contemporanei era invece ancora da fare e Cultura popolare in Italia ha il merito non solo di aver cominciato ad affrontare la questione, ma anche di proporsi come stimolo ad una più ampia riflessione per coloro che si interessano a questi temi.
La cultura popolare è stata uno degli snodi presso cui si sono incontrati discipline, metodologie e interessi di ricerca differenti e tornare a parlarne – come ha sottolineato il presidente AISO Alessandro Casellato nella sua introduzione alla mattinata – è un modo per riprendere a frequentare compagnie e luoghi della nostra tradizione. Non solo: è una maniera per interrogarsi su quanto accaduto negli ultimi trent’anni e sui processi storici, politici e culturali del nostro tempo.
L’obiettivo dichiarato del volume di Fabio Dei è quello di «riformulare una visione della cultura popolare che tenga conto dei processi di circolazione globale e di comunicazione di massa, cercando di riconoscere proprio al loro interno una sempre mobile frattura tra egemonico e subalterno» (2018:11). A tal proposito, nella seconda parte dell’opera, vengono presentate attraverso alcuni esempi le modalità di questa dinamica; si fa riferimento al dibattito sul concetto di dono contrapposto a quello di merce (cap. 6) – una delle dorsali che attraversano il discorso antropologico – per proporre una lettura che invita invece ad abbandonare una logica oppositiva e ad osservare gli interstizi esistenti tra le maglie larghe della rete istituzionale-economica, spazi che non esisterebbero senza quella rete e che pure sfuggono ai suoi meccanismi. Intrecci. Come intrecciate sono le pratiche della medicina ufficiale e di quella non convenzionale nelle esperienze delle tre guaritrici di cui l’antropologo dà conto trattando il tema del pluralismo delle cure (cap. 7). La permeabilità dei confini tra sfere “alte” e “basse” è testimoniata poi dalla riflessione di Dei sui musei etnografici (cap. 8): macchine in grado di istituzionalizzare oggetti, pratiche e interessi diffusi, comuni, non straordinari, rendendoli “beni” e “patrimoni” di cui si occupano Stati e organizzazioni internazionali. Infine l’autore si sofferma sugli oggetti domestici, al centro di una ricerca ispirata ai nuovi studi di cultura materiale, e sulla capacità dei soggetti di renderli densi sul piano affettivo e simbolico (cap. 9). Tale lettura permette di risignificare il modello, proposto da Bourdieu, che distingue invece nettamente l’estetica borghese da quella popolare.
La prima parte del testo è dedicata a una storia degli studi di cultura popolare in Italia che è insieme rassegna e critica, presenta le griglie ideologiche e le categorie interpretative valide nel passato per riflettere su quelle odierne. Dei si sofferma in particolare su una approfondita presentazione del paradigma gramsciano relativo al folklore, sul dibattito che questo ha aperto nel secondo dopoguerra – culminato nella nascita della demologia – sul suo successo nei decenni ’50 -’70. L’autore sottolinea gli scarti esistenti tra la riflessione gramsciana e le sue interpretazioni successive, in particolare la teoria ciresiana dei dislivelli interni di cultura, che da un lato hanno legittimato gli interessi della disciplina in un ambiente accademico ancora piuttosto ostile, dall’altro, autoconfinandosi alla esclusiva documentazione delle forme tradizionali della cultura popolare isolate dalle trasformazioni storiche della modernità e soprattutto demarcate rispetto agli ambiti della cultura egemonica e di massa, hanno comportato una progressiva ingessatura e infine uno stallo degli studi.
Sostiene Geertz (2001:81) che uno degli obiettivi del processo antropologico è destabilizzare: tirare i tappeti da sotto i piedi, ribaltare i tavolini da tè, far esplodere petardi; Cultura popolare in Italia riesce in quest’intento nella misura in cui propone un ritorno alle origini, la riscoperta del pensiero di Gramsci quale strumento euristico utile alla comprensione della realtà contemporanea. Soprattutto però, Dei ci ricorda che seduti a quei tavolini da tè, sopra quei tappeti, ci siamo anche noi (ricercatori e ricercatrici, accademici e non) con i nostri canoni e le nostre routines. E che un impulso genuinamente riflessivo richiede di storicizzare le basi teoriche della demologia e di interrogarsi oggi sul nostro posizionamento all’interno delle pratiche (e teorie) di ricerca.
Nel corso del seminario, una serie di interventi programmati ha messo l’accento su alcuni dei temi presenti nel libro di Dei, ponendoli in dialogo con esperienze di lavoro e ricerca in corso o concluse, utilizzandoli come spunti per allargare il novero delle declinazioni odierne della cultura popolare anche ad altri ambiti oltre a quelli proposti nel testo, o per riprendere autori, teorie e questioni di lunga durata nel dibattito storico e antropologico.
Tra i concetti che sono stati ribaditi nel corso degli interventi, ne richiamerò qualcuno, sia per sintetizzare i contenuti del seminario sia per rilanciare una discussione che, nelle intenzioni di AISO, non vuole essere confinata a quell’unica occasione.
Popolo. Era inevitabile che trattando di cultura popolare venisse chiamata in causa una delle questioni politiche oggi più d’attualità, il populismo. Alessandro Portelli nel suo intervento ha confrontato la declinazione del termine popolo nel discorso populista e nel pensiero gramsciano. Insieme indifferenziato di individui che seguono un leader e si contrappongono alle élites nel primo caso, pluralità di componenti (le culture popolari appunto) nel secondo. Queste, lo ha ricordato anche Gabriella Gribaudi ritornando sui proficui scambi interdisciplinari che hanno caratterizzato il dibattito italiano, sono indagate dalla storia orale e dalla demologia in termini di specificità degli individui, le cui vicende, quantunque messe in connessione e ricondotte ad un comune afflato sociale, sono irriducibili a generalizzazioni. Lo sforzo che il libro di Fabio Dei e il suo discorso a conclusione della mattinata sembra invitarci a fare, va proprio nella direzione di un riconoscimento delle soggettività. E l’esortazione è a ricercare non solo tra i soliti interlocutori, quei “dannati della terra” che un tempo si chiamavano subalterni e che oggi sono al centro delle teorie critiche radicali postcoloniali – vi ha fatto riferimento Antonio Fanelli citando l’impegno di Fabio Dei in ambito epistemologico e il recente volume curato con Caterina di Pasquale: Stato, violenza, libertà. La «critica del potere» e l’antropologia contemporanea (2017) – ma anche tra coloro che, di primo acchito, non incontrano le nostre simpatie. Se la sinistra progressista cui le nostre tradizioni disciplinari si richiamano sembra aver perso una relazione con ampi segmenti di quello che un tempo era il “popolo”, sospendere il giudizio e capire ad esempio chi sono e cosa muove i soggetti che sostengono i movimenti populisti, resta una strada ancora poco battuta.
Allo stesso modo, ma da un’altra angolatura, gli interventi di Giovanni Contini, Alessandro Casellato e Stefano Bartolini hanno suggerito di prestare attenzione all’imprevisto, alle configurazioni inedite sul terreno di faglia tra egemonia e subalternità, agli stereotipi (anche positivi) che ci portiamo appresso: studiosi delle culture popolari autoctone poco propensi a guardare con la medesima benevolenza fenomeni culturali e preferenze agroalimentari di comunità “in arrivo”; letture aproblematiche delle dinamiche e dialettiche che interessano i rapporti tra migranti e i contesti in cui (anche se provvisoriamente) si insediano; lavoratori e lavoratrici di call center che nel lavoro quotidiano e durante uno sciopero si discostano dai luoghi comuni (insoddisfazione, alienazione) impostisi al nostro immaginario.
E arriviamo alla domanda che guida la seconda parte di Cultura popolare in Italia: dove e come indirizzare il nostro sguardo? In un mondo globalizzato, in cui capitale economico, culturale e sociale non si distribuiscono in modo uniforme, in cui non ci sono più né isole di ignoranza né isole di resistenza perché l’isolamento non è più (semmai lo è stato) un tratto distintivo dei soggetti con cui abbiamo a che fare nelle nostre ricerche, dove si nasconde la cultura popolare? Dei suggerisce di cercare nelle pieghe del discorso egemonico, nelle pratiche della vita quotidiana che sporgono (Dei, 2008:26) dai contorni di un disegno prestabilito, in maniera non necessariamente eclatante, apertamente critica o sovversiva costruendo universi di significato non standardizzati, personali, differenti.
Intellettuali. Personalmente, uno dei punti su cui mi interessa continuare a ragionare riguarda la distanza tra figure di intellettuali alla Gramsci e de Martino e le differenti sfumature che caratterizzano invece le nostre esperienze di ricerca in relazione all’età e al genere, alla posizione in ambito accademico (e più in generale nel mondo del lavoro) e ai “campi” cui si indirizza il nostro interesse. Portelli ha richiamato il senso di responsabilità legato al termine intellettuale, senso che non va certamente rigettato. A questo proposito ricordo lo struggente passaggio in cui Ernesto de Martino dichiarava «non posso e non voglio perdere la coscienza che i miei doveri di scienziato sono appena un momento dei miei doveri di uomo» (1953). Tuttavia, la posizione dell’autore di queste parole era intrisa di una passione, di un impegno militante e di una sollecitudine nei confronti del riscatto dei suoi interlocutori che oggi dobbiamo assumere con maggiore cautela. Da un lato perché è chiaro che non siamo più noi a dare voce ai soggetti cui ci accostiamo nelle nostre ricerche, i quali spesso e volentieri sono in grado di negoziare e gestire una presa di parola autonoma. Oggi – riprendo le parole di Dei – più che dare voce al popolo abbiamo il problema di capirlo. D’altro canto dovremmo ormai essere sufficientemente accorti da non sovrapporre le nostre griglie di valutazione a quelle altrui, anche quando i nostri scopi sono nobili (distinguere, collegare, connettere e anche trasformare le realtà che ci circondano). È un tema, questo, che è stato affrontato precocemente dalla riflessione femminista (per un inquadramento si vedano Perilli ed Ellena: 2012) in relazione ad obiettivi di emancipazione delle donne che sembravano univoci ed erano invece profondamente differenziati al loro interno. Riallacciandomi all’intervento di Gribaudi, che ha sottolineato come la legittimità intellettuale sul campo come in università (per non parlare della sfera politica) sia sempre stata prettamente maschile, mi piace richiamare le parole di Luisa Passerini, in dialogo con Anna Bravo e Simonetta Piccone Stella sulle pagine di Memoria, secondo cui il problema può essere affrontato in questo modo: «per far esprimere in pieno la soggettività delle persone intervistate c’è bisogno di un’accentuazione dell’altra soggettività, quella di chi interroga» (1983:101-113).
Negli ultimi anni, alcuni casi giudiziari che hanno coinvolto studiosi e studiose dei movimenti, hanno suscitato reazioni e riflessioni nelle Università e non solo. Al di là della denuncia delle restrizioni all’esercizio di un pensiero critico, un dato non trascurabile è la sovrapposizione tra studiosi/e e persone studiate. Perché “il popolo” è cambiato nei modi che ho ricordato poc’anzi, perché il ricercatore medio è un precario squattrinato equipaggiato solo di un alto capitale culturale (che da fuori non sempre si vede), perché è spesso più subalterno dei suoi interlocutori ecc. Siamo insomma, ancora più che venti anni fa, in un momento fatato per fare ricerca sulle culture popolari da antropologi nativi (Dei, 2002). E come antropologi nativi dovremmo interrogarci sulle strategie di distinzione/avvicinamento che mettiamo in atto, sulla attualità delle categorie che utilizziamo e proponiamo, sulla natura storica, culturale e sociale anche delle nostre pratiche.
Riferimenti bibliografici
Geertz C. (2001) Antropologia e filosofia, Bologna, Il Mulino.
Dei F. (2008) Tra le maglie della rete. Il dono come pratica di cultura popolare in Id e Aria M. (a cura di) Culture del dono, Roma, Meltemi.
Dei F. (2002) Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Roma, Meltemi.
Perilli V. ed Ellena L. (2012) Intersezionalità. La difficile articolazione in Id Marchetti S. Mascat J. Femministe a parole. Grovigli da districare, Roma, Ediesse.
Bravo A. Passerini L. Piccone Stella S. (1983) Modi di raccontarsi e forme di identità nelle storie di vita in «Memoria» n. 8 (2).
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Intervento di Fabio Dei (file audio)