Dal 24 al 28 giugno a Santa Maria Capua Vetere e Caserta si è tenuta la terza conferenza dell’AIHP – Associazione Italiana di Public History (qui il programma). Anche quest’anno AISO è stata presente, nella giornata di venerdì 28 giugno, con tre tavoli di discussione: una tavola rotonda e un panel dedicati al rapporto fra oral history-public history e processi partecipativi e un terzo panel dedicato alla memoria delle catastrofi naturali. Riportiamo sotto i testi preparatori, e qui il link al file audio dell’intervento introduttivo di Antonio Floridia sulla “democrazia deliberativa” (che ci ha fatto pensare che la storia orale possa essere intesa come una sorta di “storiografia deliberativa”).
Tre premesse intrecciate tra loro
1. A dieci anni di distanza dall’innesco della cosiddetta grande recessione, in mezzo alle sue manifestazioni multidimensionali, vediamo delinearsi due processi solo apparentemente contraddittori: da un lato una diffusa richiesta di protezione e una deriva verso la cosiddetta democrazia illiberale (crescente fascinazione per leadership “forti” e verso modalità autoritarie di governo, crescente messa in questione del parlamentarismo, crescente sfiducia verso i corpi sociali intermedi), dall’altro il riemergere dell’idea e delle pratiche della democrazia partecipativa (con la rivendicazione di nuove forme di democrazia diretta e immediata).
Sul piano del discorso storico diffuso nello spazio pubblico, si potrebbe declinare questa endiadi a sua volta in un doppio movimento: la riemersione di macro narrazioni identitarie che la storiografia degli ultimi decenni sembrava aver definitivamente decostruito (i nazionalismi, le religioni, gli scontri di civiltà), e il proliferare di micro narrazioni locali, talvolta esacerbate e contestative della “storia ufficiale”, che denotano un diffuso desiderio di autorappresentarsi e che hanno nella rete la propria arena privilegiata. In un caso e nell’altro, sia dall’alto che dal basso, la storiografia accademica viene ignorata o messa direttamente in discussione, e fatica a trovare o a non perdere legittimazione.
E’ proprio all’interno di questo doppio movimento che crediamo possa collocarsi il fenomeno del going public, l’attuale esplosione di interesse – specie nell’università e specie sotto la spinta dai requisiti dei finanziamenti europei – per i progetti di ricerca collaborativi o partecipativi. Nel caso dell’università, che cosa il public engagement esattamente significhi e come vada valutato resta questione aperta. Ma un primo passo potrebbe essere quello di muovere oltre l’impostazione per cui questo genere di impegno sia necessariamente buono in sé, e riconoscere e soppesare invece – come può facilmente fare chi ne abbia fatto esperienza – anche gli elementi di confusione, approssimazione, ambiguità, parzialità, incompletezza di questo tipo di progetti, magari indagarne i fallimenti, tornare a ragionare sul terreno accidentato del dare la parola/prendere la parola/riconoscere la parola. Tornare a ragionare, insomma, del confine stretto tra shared authority e borrowed authority [l’espressione è dell’antropologo Renato Rosaldo (Rosaldo, in Clifford e Marcus 1986)].
Prendere a prestito in modo surrettizio, per appropriazione, l’autorità che gli intervistati hanno sulle proprie percezioni, esperienze e rappresentazioni è del resto molto facile nel mondo digitale in cui tutto può essere condiviso, campionato e rimixato. Così come è dualmente facile, per gli intervistatori, correre il rischio di perdere propria voce di ricercatori, o scegliere di abdicare volontariamente ad essa (Miller, Little, High 2017).
La popolarità recente della public history in Italia crediamo vada letta anche in contrasto con questa cornice, e con la ben più lunga storia della storia orale come storia pubblica e come storia intrinsecamente partecipata. Il termine public history del resto è polisemico e può essere inteso come divulgazione storica, come ricerca partecipata, come storia “impegnata”. La storia orale è vicina soprattutto alla seconda e alla terza accezione di public history. Sia perché la storia orale è una metodologia che presuppone “ontologicamente” la partecipazione di soggetti esterni al campo della storiografia nella stessa costruzione della fonte, a partire dall’intervista (lo storico ha bisogno del suo interlocutore per accedere a una gamma di informazioni e prospettive che altrimenti gli sarebbero precluse). Sia perché la storia orale, soprattutto in Italia, nasce come strumento di attivismo politico e all’interno di circuiti militanti: viene legittimata a livello accademico solo a partire dagli anni Ottanta, e in maniera interstiziale, ma continua ad essere ampiamente praticata al di fuori dell’università.
2. Sempre più attenzione è portata alle diverse implicazioni della recessione a livello sociale, in altre parole alle connessioni tra recessione economica e recessione democratica (Giugni e Grasso 2017, Morlino e Raniolo 2018). Sono molte le azioni politiche che vediamo in gioco per riequilibrare/bilanciare la sofferenza economica e l’esclusione sociale, ma queste azioni non passano quasi più (o passano molto meno in termini di adesione) per i partiti e i movimenti della sinistra, per il sindacato. Questo ha molte spiegazioni, ma una in particolare intreccia il fatto che la crisi a noi contemporanea tende a colpire non in modo uniforme a livello nazionale (come è stato per le crisi economiche del ‘900), ma luoghi e comunità precise, segregandoli nell’abbandono. Questi “luoghi che non contano più” o “luoghi lasciati indietro” hanno molto da dire circa il modo in cui sono state rappresentati (o silenziati) nelle trasformazioni globali degli ultimi due o tre decenni. Alla crisi danno risposte sia in termini di partecipazione al voto (o di astensione dal voto), sia di partecipazione ad azioni legali o illegali più o meno convenzionali (scioperi, boicottaggi, blocchi, manifestazioni, disordini, etc.). Ma anche attraverso forme di partecipazione nuove, molte delle quali orientate alla modernizzazione dei servizi pubblici o al sostegno e supporto di processi di governo locali, oppure non nuove affatto se lette in prospettiva storica, ma riattualizzate in modo inedito al nuovo contesto. Solo per fare pochi esempi: modelli ripensati di spesa, network di baratto, banche del cibo, servizi mutualistici di assistenza medica, forme cooperative di vario tipo, cucine condivise, spazi condivisi, rafforzamento di legami famigliari di sostegno, trasformazione di stile di vita anche attraverso forme più sostenibili di consumo e di produzione, forme artistiche di espressione. Sono tutte forme assai poco visibili, a basso impatto, ma quantitativamente molto più diffuse rispetto ai cospicui movimenti degli anni ’60-’70. E sono forme più difficili da decifrare.
3. Una ulteriore precisazione di contorno: democrazia partecipativa è un’espressione che ha una sua storia precisa e una precisa genealogia che affonda proprio negli anni ’60-’70 (Floridia 2017). È un’espressione con cui ci si riferisce al coinvolgimento attivo dei cittadini nel processo decisionale per rendere la presa delle decisioni più inclusiva e più efficace (il che è cosa diversa dal e non sovrapponibile al sostenere che garantisca delle buone decisioni). Ma è anche un’espressione che rimanda alla enfatizzazione, valorizzazione, desiderabilità di questo coinvolgimento. L’aggettivo “partecipativa” da un lato implica soprattutto un’azione, una qualche forma e misura di sovranità esercitata in modo diretto [non necessariamente una discussione e uno scambio argomentativo, che più pertiene alla democrazia deliberativa, fenomeno intrecciato e distinto], dall’altro punta a innescare circuiti ampi di partecipazione, autodeterminazione, esercizio della responsabilità, empowerment. L’assunto che più fondamentalmente giustifica la partecipazione è un argomento che è insieme cognitivo e morale: cognitivo perché presuppone un soggetto competente e capace di lungimiranza su ciò che riguarda la propria vita individuale e associata; morale perché presuppone un soggetto potenzialmente capace di autonomia, di creatività, di comprendersi al di là dell’interesse più immediato, di coltivarsi. Da ciò deriva che l’atto stesso di partecipare è inteso come trasformativo: nella partecipazione l’impegno si auto-rafforza perché i soggetti si trovano più informati, più consapevoli di diritti e doversi, più critici nel formarsi delle opinioni (Floridia 2017). Anche gli sviluppi in questa direzione sono oggi più difficile da decifrare.
Storia orale, public history e processi partecipativi
A partire dalle premesse precedenti, un obiettivo che abbiamo immaginato per questa tavola rotonda è ragionare sugli slittamenti di significato del termine partecipazione, sul se e come esso si è affermato, nascosto o modificato nel corso del tempo entro i progetti di ricerca a cui si è collaborato. Ci piacerebbe farlo a partire dalle esperienze degli invitati, ma anche a partire dalle differenze di contesto di lavoro, mentre cambiavano la scolarizzazione della società, la struttura dei media (anche quelli tradizionali e non solo dei nuovi media sociali), il rischio democratico (in Italia e nell’Europa occidentale, negli anni ’00 era certamente percepito molto più basso che negli anni ’60; oggi questo rischio sembra avere mutato nuovamente pelle).
L’obiettivo è insomma quello di ragionare sulla storia orale come storia pubblica in questa particolare congiuntura, ma in tensione con il passato. Per congiuntura intendiamo un contesto particolare ed il momento in cui forti e contraddittorie spinte sociali, politiche, economiche e ideologiche improntano insieme una formazione nuova. In gioco ci sembra che ci sia la capacità di riconoscere, definire e comprendere la natura di questa formazione, emergente ma pericolosamente instabile. Per noi qui la posta alta è capire se e in quale misura e forma può farlo la storia orale.
Con in mente questa ambizione, vogliamo porre ai partecipanti alcune questioni, nate in gran parte dal dibattito che si sviluppa all’interno e nell’intorno di AISO. Chiediamo a ciascuno di rispondere partendo dalla propria specifica esperienza di lavoro con le fonti orali, diversa per genere, generazione, collocazione professionale e afferenza disciplinare.
Alcune questioni per la tavola rotonda
1. La storia orale è una ricerca scientifica presuppone l’incontro con soggetti, saperi, modi intendere, di trasmettere, di narrare il passato “altri” rispetto a quelli della storiografia; questo incontro è la ragion stessa della storia orale; esso allarga e arricchisce il campo di ciò che può essere considerato oggetto di analisi storica, suggerisce piste di ricerca e chiavi di lettura non preventivate; tuttavia può produrre anche frizioni, fraintendimenti e talvolta conflitti, che coinvolgono singoli individui e gruppi sociali (famiglie, comunità locali), soprattutto se e quando lo storico fa il proprio mestiere e non si limita a veicolare o amplificare il punto di vista dei soggetti di cui sollecita la memoria e di cui raccoglie le narrazioni. Questi conflitti a volte sono positivamente evolutivi (nel senso che producono una modificazione e un arricchimento reciproci); ma altre volte hanno effetti paralizzanti, bloccano la ricerca e lasciano nelle persone intervistate una scia di sfiducia nei confronti del ricercatore, o il sentimento di essere stati usati o manipolati. Vorremmo che ragionaste su questo tema – l’alleanza e insieme la divergenza tra lo storico orale e i suoi interlocutori – possibilmente portando degli esempi tratti dalle vostre esperienze. In quali forme e su quali presupposti credete che sia possibile una co-creazione degli esiti della storia orale?
2. Se in una qualche parziale misura valgono anche per voi le premesse che abbiamo stilizzato sopra, ci sono delle considerazioni che vi è possibile avanzare su come e in quale direzione è cambiata il significato dell’idea e della pratica della partecipazione nei vostri progetti di ricerca nel corso del tempo?
3. Se la domanda non suona troppo astratta, ci sono dei modelli politici impliciti che sono stati generatori delle vostre pratiche di storici orali? E come credete siano cambiati nel tempo e nelle congiunture (se sono cambiati)?
4. Gli archivi orali [e la questione del riuso delle fonti orali da parte di ricercatori diversi da quelli che le hanno costruite]: lo storico è il primo archivista delle fonti orali che ha provocato e registrato; ma costruire un archivio non è solo un dato attinente alle procedure di indagine; esso è un “fatto sociale”, cioè produce effetti di legittimazione, riconoscimento, valorizzazione, da parte dei soggetti che, con le proprie testimonianze, hanno contribuito a produrre quell’archivio. Negli ultimi anni abbiamo incontrato diverse comunità, associazioni e gruppi che si sono proposti di realizzare una “casa della memoria” – un “community archive” – come forma di riscatto e affermazione rispetto a narrative dominanti stigmatizzanti. Costruire un archivio orale è una forma di attivismo civile: lo ha ricordato Alessandro Triulzi al convegno di Napoli sui testimoni, invitando a documentare il tempo presente: “creare gli archivi giusti perché lascino una traccia di quello che sta succedendo” in Italia e nel Mediterraneo, perché nessun’altra fonte ufficiale lo potrà fare allo stesso modo. Ci piacerebbe che portaste una riflessione su questo tema legato alla conservazione delle fonti orali, e ai loro possibili riusi futuri, su cui è in corso un lavoro che coinvolge AISO insieme a una rete ampia di istituzioni e associazioni preoccupate di garantire la preservazione degli archivi orali.
Oral e public history: un’opportunità di partecipazione democratica?
Il tema della partecipazione è costitutivo tanto delle pratiche di storia orale che della public history, chiamando in causa quella che Michael H. Frisch ha chiamato la shared autorithy. Se infatti, come osservato da Alessandro Portelli, l’intervista di storia orale è sempre un rapporto dialogico e di scambio, la storia pubblica intende non solo fare storia in pubblico ma anche con il pubblico, accettando una negoziazione costante con la memoria. Public e oral history portano cioè con sé un’istanza democratica di partecipazione e inclusione nel processo del fare storia, che evidenzia l’utilità pubblica di quest’ultima, non solo nel passaggio dal semplice ricordo del passato alla storia – dalla memoria-ripetizione alla memoria-ricostruzione, come è stato detto – ma anche, ed in particolare, nel trasformare il pubblico da consumatore a coautore di storia. Attraverso le pratiche “partecipative” la storia diventa un bene comune, non più una narrazione alta ed esterna ma la risposta a una domanda sociale, ed al tempo stesso torna in primo piano anche la funzione sociale dello studioso, che scatena processi di recupero di una memoria finalizzata alla restituzione di una storia che sia patrimonio della cosiddetta “comunità immaginata”.
Un approccio che ci porta lontani dalla mera ricerca di forme comunicative efficaci per arrivare più vicini alla community history, chiamando in causa i sentimenti di appartenenza a una comunità che dalla mitizzazione arrivano alla consapevolezza storica, che è cosa diversa dalla tanto abusata “memoria condivisa”.
Il panel intende far dialogare esperienze realizzate da varie figure professionali, scaturite da ragioni diverse, favorendo una contaminazione multidisciplinare delle pratiche ed evidenziando le ricadute che possono avere campagne partecipative di raccolta di memorie in termini di output finali, siano questi la realizzazione di un archivio, di un museo, un libro, un film, uno spettacolo teatrale o altro ancora. In particolare, i relatori e le relatrici verranno sollecitati a confrontare le loro esperienze concrete con tre nodi problematici: l’utilità dei lavori di raccolta di memorie per sollecitare forme di partecipazione che non siano mera mobilitazione; come queste raccolte poi si intreccino nel processo di identificazione di una comunità con il proprio passato se non addirittura di identity building, con tutta la carica di ambiguità che questa seconda evenienza si porta dietro anche rispetto alla frontiera di inclusione/esclusione; infine, sul rapporto che questo lavoro di sollecitazione e raccolta ha con l’allargamento della vita democratica.
La memoria delle catastrofi naturali. Il racconto delle esperienze e la loro divulgazione
Nonostante l’Italia sia uno dei paesi più colpiti da eventi catastrofici, il loro grado di rimozione è, come è noto, piuttosto elevato. L’oblio domina nella memoria pubblica ma caratterizza anche gli studi storico-sociali. Nei manuali di storia non se ne trova quasi traccia e così nei più importanti lavori sulla vicenda nazionale. In età contemporanea si assiste alla quasi totale eliminazione di quasi tutto ciò che è “naturale” dall’agenda degli studi storici. I disastri “naturali” vengono considerati incidenti e per questo al di fuori del controllo o azione umana e quindi il loro studio viene lasciato interamente alle scienze dure.
In realtà i disastri sono esperienze sociali che segnano l’intersezione fra natura e cultura, rappresentano un turning point nella vita pubblica e nelle vite private. La ricostruzione storica della catastrofe è dunque la ricostruzione di un evento e insieme di un processo sociale di trasformazione, che ha bisogno di confrontarsi con l’esperienza viva dei soggetti e riportarne la memoria. Come le comunità hanno reagito di fronte al rischio, quali sono state le pratiche empiriche per affrontare e reagire al disastro, quali le culture e le conoscenze popolari, le categorie interpretative? Quali i traumatismi collettivi, i gaps, le omissioni?
L’oblio impedisce di riorganizzare la vita sociale affrontando a viso aperto il pericolo con la prevenzione. Per questo suscitare e alimentare la memoria dell’evento in sé diventa molto importante. Ed è cruciale fare riemergere una memoria dal basso, perché riconduce all’esperienza della gente e contrasta le narrazioni che tendono ad oscurarla. Per fare ciò è necessario prendere in considerazione le esperienze e le percezioni delle persone, capire le conoscenze locali, fare emergere le capacità e le possibilità di organizzazione dal basso, costruirne la storia nel tempo.
La storia orale e il modello etnografico di campo sono strumenti imprescindibili per portare alla luce i fenomeni che avvengono nel microcosmo sociale colpito dalla catastrofe e per affrontarne la natura multidimensionale: il comportamento e la risposta al disastro; l’interpretazione culturale del rischio; i cambiamenti sociali e culturali dopo la catastrofe. Ed è importante trovare dei canali di comunicazione per rendere pubblici i risultati degli studi per combattere stereotipi e narrazioni superficiali, rafforzare le culture del rischio e della prevenzione, e, infine, in un dialogo costante, restituire il lavoro di analisi a coloro che ci hanno concesso il racconto delle loro esperienze.
Il panel propone quattro interventi incentrati su casi ricostruiti attraverso video interviste, che hanno poi dato luogo ad archivi multimediali, presentazioni e installazioni mediatiche: i terremoti in Irpinia, a L’Aquila, a Mirandola, il bradisismo a Pozzuoli.