Report della 3ª Scuola di Storia Orale nel paesaggio del Dragone | Montefiorino 29-30 agosto 2020 – 2ª parte
di Antonio Canovi, Chiara Paris, Rossella Roncati, Andrea Tessitore, Giulia Zitelli Conti
Pubblichiamo la seconda parte di un report collettivo frutto della terza Scuola di Storia Orale nel paesaggio del Dragone [qui la prima parte]. Per costruirlo ci si è avvalsi di una ricca ed eterogenea documentazione prodotta dai partecipanti, la cui autorialità è stata indicata nelle didascalie o nelle note. Si ringraziano in particolare Roberta Biasillo, Davide Costoli, Roberto Labanti, Rino Montanari e Antonella Zecchini che hanno messo a disposizione del gruppo video, fotografie e registrazioni audio.
Passaggi di testimone: intervista a Francesca e Ivaldo Bagatti
Giulia:
Ci piacerebbe che ci raccontaste questo paesaggio…
L’intervista a Ivaldo e Francesca inizia con una lunga digressione sulle criticità di questa parte di Appennino – la parte ovest di quello modenese – posta a contrasto con la più turistica parte est, dove sorgono Sestola e Fanano e dove la presenza del Cimone ha permesso lo svilupparsi di una spiccata potenzialità turistica. La critica si estende a macchia d’olio su tutti gli attori del contesto sociale, dal “basso” degli abitanti “all’alto” delle istituzioni amministrative. Come afferma Ivaldo, il fallimento del settore turistico è dipeso anche dall’atteggiamento di rifiuto degli abitanti stessi, mentre il recupero del patrimonio edilizio è stato limitato dall’assenza di politiche di incentivazione al ripopolamento. Ci vuole qualcuno che gestisca questo processo, dicono: una cooperativa o un’associazione. Ci vuole un’idea e un impegno costante per portare avanti un processo di questo tipo.
Poi, una semplice domanda, e il discorso si restringe bruscamente sul passato di Ivaldo, aprendo uno scorcio sulla sua ricca gamma di esperienze lavorative:
Intervista a Francesca e Ivaldo, estratto n.1, 30_08_2020.mp31
Quando nell’82 Ivaldo rileva l’azienda agricola familiare, lo fa con uno spirito di innovazione: aumenta il numero dei capi di bestiame, portandolo a trenta, e poi fabbrica il fienile “con l’intenzione di far diventare grande la sua famiglia”.
Anche in questa intervista il tema dell’eredità dei saperi occupa uno spazio importante. E la cosa vale per Ivaldo quanto per Francesca, la quale interviene per raccontarci il suo percorso di formazione dalla biologia fino all’erboristica. Pur avendo scelto di non dedicarsi all’agricoltura, è il nonno contadino la figura che lei identifica come il primo fondamentale insegnante della sua sensibilità per questo mondo. “Le cose che impari da piccolo restano belle sedimentate”, ci dice, ed è al nonno che Francesca riconosce il merito di averle tramandato i nomi popolari delle piante, dotandola in questo modo di un patrimonio immateriale di cui aveva potuto disporre nel periodo degli studi universitari.
Intervista a Francesca e Ivaldo, estratto n.2, 30_08_2020.mp32
La trasmissione di pratiche e saperi – l’imprinting che una sensibilità riceve dal contesto di formazione – è un filo rosso che unisce i discorsi di entrambi. Ma significativamente, la scelta di fare il contadino per Ivaldo non è solamente una conseguenza dello stampo agricolo dell’azienda familiare che lui e il fratello avevano potuto rilevare. Come ascoltiamo dalle sue riflessioni, sembra che sia il risultato di una scelta di posizionamento fatta con consapevolezza. Posizionamento rispetto al contesto generale di produzioni su larga scala e grande distribuzione e in relazione anche alla dimensione locale del suo territorio: alla possibilità che gli si offriva in questo luogo di creare una sua nicchia di prodotti specifici. Questo stesso meccanismo sostiene anche la scelta di dedicarsi alla produzione di vino facendolo nel modo più sostenibile possibile, andando cioè a recuperare vigneti di altri proprietari, evitando che le vigne siano estirpate e convertite in seminativi da foraggio per il bestiame.
Il mestiere del contadino è totalizzante, afferma Francesca, devi avere “la passione per la terra” per scegliere una vita tanto sacrificante.
Intervista a Francesca e Ivaldo, estratto n.3, 30_08_2020.mp33
Il discorso sul finire torna di nuovo a considerazioni di più ampio respiro. Perché, dice Ivaldo, la poesia è bella ma ci vogliono anche delle basi concrete se si vuole davvero fare questa scelta di vita. Di nuovo, il territorio è chiamato in causa come sistema di fattori che devono permetterti di trovare un equilibrio e sostenerti nella scelta di restare. Ci vogliono rete e comunità contro l’isolamento, dicono. Comunità nel senso di insieme di individui, stretti da legami solidali e di mutuo aiuto. Il territorio non può essere pensato per le persone singole se vuole andare avanti, afferma Ivaldo, e la storia del passato di queste campagne ci offre diverse occasioni per ripensare criticamente la deriva avvenuta.
Il lupo e la valle: intervista a Mario Rossi e Gianni Dan
L’intervista parte in maniera spontanea ancora prima di cominciare con la prima domanda.
Come ci spiega Gianni, l’attuale diffusione del lupo nella zona si concretizza nella presenza di due branchi, il cui numero complessivo è oggi stabile. I nuovi componenti si stanno dirigendo sempre più verso sud, fino a raggiungere il centro Italia. Gianni ci illustra anche dinamiche di gruppo, struttura e linguaggio dell’animale.
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.1, 30_08_2020.mp34
Le cronache antiche richiamano alla presenza del lupo nella zona sin dal XIII secolo, ci racconta Mario, che ha anche uno spiccato interesse e formazione storica – in particolare medievale. Il lupo sarebbe poi scomparso da quest’area durante il XIX secolo, assieme ad altri animali come l’orso e al cinghiale.
Le fonti storiche documentano come in queste valli, sede dell’antica selva romanesca, la biodiversità fosse molto ampia e comprendesse anche animali come la lince. Questo felino, oggi scomparso dalla zona, sarebbe un elemento fondamentale per ribilanciare la biodiversità del territorio, come ci racconta Gianni.
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.2, 30_08_2020.mp35
Biodiversità che, si noti, non riguarda solo flora e fauna, ma anche l’universo geologico interno alla valle.
intervista a Gianni e Mario, estratto n.3, 30_08_2020.mp36
Dal passato a oggi, il rapporto dell’uomo con l’ambiente è molto cambiato. Certamente oggi si propende a tenere sempre più in considerazione il concetto di recupero dell’ambiente naturale e del rapporto con la flora e la fauna. Questi elementi non sono più considerati a uso e consumo dell’uomo, ma analizzati nella loro complessità: un comportamento rivolto a una pianta o a un animale è agito dietro riflessioni di natura olistica, che considerano l’influenza umana oltre che sull’elemento come singolo, anche sulla sua natura componente della biodiversità del territorio.
Se è vero che oggi il rapporto uomo-natura è vieppiù regolato da leggi che lo tutelano, tuttavia queste incontrano ancora una certa reticenza da parte di alcuni abitanti della valle, abituati a concepire questo rapporto in maniera differente.
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.4, 30_08_2020.mp37
Le contraddizioni riscontrabili nel rapporto uomo-natura si rispecchiano anche nel rapporto con il lupo, che si caratterizza per la propria ambivalenza. Questo animale infatti, ci spiega Gianni, era in tempi antichi un nostro “concorrente alimentare” e di conseguenza, pur non rappresentando oggi una reale minaccia alla sopravvivenza umana, susciterebbe una sorta di paura ancestrale.
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.5, 30_08_2020.mp38
Parallelamente, l’uomo è attratto da questa figura che, pur pericolosa, lo attrae – come sottolinea Mario.
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.6, 30_08_2020.mp39
Da queste riflessioni Gianni si riallaccia a ciò che lo appassiona di questo animale, che riconduce al medesimo fattore che lo lega alla sua professione di giardiniere: il bisogno di contatto con l’ambiente naturale e le riflessioni che ne derivano. Da questa necessità individuale, si sviluppa il desiderio più ampio di creare un approccio collettivo di condivisione con la natura: mission complessa per molteplici ragioni. Secondo Gianni, una delle difficoltà risiederebbe nell’odierno approccio dell’uomo al selvatico, il quale è oggigiorno mediato da un retaggio culturale sempre più urbano, anche nelle zone a più diretto contatto con la natura. Questa sua convinzione è riassumibile nella citazione che ci riporta: “la città si è mangiata la montagna”.
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.7, 30_08_2020.mp310
Ciò è avvenuto anche qui nella Valle del Dragone. Questo imporsi del patrimonio culturale urbano su quello montano, sarebbe all’origine dell’irrigidimento e della chiusura da parte degli abitanti più anziani di queste zone. Essi vivrebbero, infatti, i cambiamenti degli ultimi anni in chiave difensiva, sentendosi sempre più “minoranza”.
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.8, 30_08_2020.mp311
Questa diffusione della cultura urbana traspare come un processo storico di lunga durata che è difficile contrastare. Tuttavia esso può essere visto in maniera propositiva, mediando con l’universo culturale, valorizzando al contempo il territorio: una chiave per farlo è attraverso il turismo e l’organizzazione di percorsi per chi viene “da fuori”, ossia dalla città, a visitare la valle. Per Gianni, è fondamentale ricollegare la valle alla città e viceversa, per creare dialogo e un futuro condiviso.
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.9_a, 30_08_2020.mp312
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.9_b, 30_08_2020. mp313
Il dialogo città-montagna deve per forza passare attraverso quello uomo-natura. In particolare, Gianni ci spiega perché proprio il ripensare il rapporto uomo-lupo sia da lui considerato un punto di partenza cruciale per un ripensamento più ampio nell’approccio all’ambiente naturale.
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.10_a, 30_08_2020.mp314
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.10_b, 30_08_2020.mp315
Mario si riallaccia a questo discorso nell’introdurci al proprio interesse per la fauna – termine con cui allarga volutamente la discussione dal lupo alla più ampia classe in cui rientra. Egli introduce alla cornice della propria riflessione partendo da quelle che considera esserne le radici storiche: l’interesse dell’uomo per quello che – già nel XVIII secolo – era definito “patrimonio natura”, cui l’uomo attinge e con cui inevitabilmente si relaziona. Tale patrimonio – sottolinea – è da considerarsi di tutti, universalmente condiviso, a dispetto della radicata convinzione di proprietà individuale su un territorio e su ciò che lo abita, ancora radicata nella valle, al punto tale da essere corrisposta anche dal linguaggio di questa zona (si ascolti audio di seguito).
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.11, 30_08_2020.mp316
A questa concezione olistica di natura egli ricollega la funzione del proprio ruolo di sorvegliante ambientale e il modus operandi di carattere scientifico di cui si fa promotore. Infatti, ci spiega, per vivere in armonia con il capitale naturale è necessario censirlo per poter avere un dato tangibile in base al quale relazionarsi.
La cultura e la formazione a tutto tondo devono per Mario e Gianni arrivare a riguardare soprattutto figure radicate sul territorio intrinsecamente a contatto col bosco, come quelle dei cacciatori: questi devono uscire dall’ottica del “fai-da-te”, dalla caccia come intesa solamente a proprio uso e consumo e agire su base scientifica, alla luce degli studi e dei censimenti “prelevando” – questo il termine tecnico a indicare la selezione dell’animale da cacciare – le specie e gli elementi che garantiscano la tutela dell’ecosistema.
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.12, 30_08_2020.mp317
Questo tipo di approccio non può più essere del solo individuo, ma deve costituire una “svolta culturale” della generale concezione del rapporto uomo-natura. Questa svolta, ci spiega Gianni, non può non passare dalla politica, dalle leggi e dalla loro applicazione concreta. Purtroppo, questo rapporto non è sempre facile, in relazione alla complessità della macchina burocratica, al sovrapporsi di discorsi e di reti di relazioni che finiscono per rallentare o mettere in secondo piano le operazioni più efficaci a miglioramento del rapporto “uomo-selvatico”. Questo si correla alla generale mancanza, di carattere nazionale, di attenzione per politiche verdi, testimoniata anche dalla scarsa adesione alle formazioni politiche presenti nel nostro Paese.
Intervista a Gianni e Mario, estratto n.13, 30_08_2020.mp318
Se è difficile sradicare le convinzioni e i comportamenti diffusi, una nota di speranza è data dalle nuove generazioni, in particolare nel caso del Dragone, i giovani rimasti ad abitare la valle. Pur nell’inevitabile permanere di alcune contraddizioni, Mario riscontra che essi, grazie all’aumento del livello di cultura generale, hanno gli strumenti per cogliere la complessità del rapporto uomo-natura e riuscire a pensare al futuro della valle nel lungo termine.
Seminare la terra trasportati dall’aria
La seconda parte della mattinata nel Cervecchio è dedicata alla semina e alla messa a dimora di alcune piante. Siamo stati invitati a compiere una vera e propria azione di cura culturale della terra, seminando il campo accompagnati dalle note del flautista Giacomo Galvani e dal canto di Bruna Montorsi.
Prima di dedicarci a questa operazione, per alcuni versi molto intima, di contatto e ascolto della terra, Antonella Zecchini e Francesca Bagatti ci raccontano la storia recente del Cervecchio e le loro intuizioni per il futuro dell’area.
Nel 2019 il campo era stato predisposto per la semina del trifoglio biologico, ma le condizioni metereologiche avverse – in particolare la neve arrivata a maggio e conseguente semina su terreno fangoso – non ne hanno favorito la crescita. Nel frattempo, l’Erbalonga si inserisce in un progetto sul popolamento degli insetti impollinatori finanziato da Eataly: vengono allora scelte sementi che facilitino l’impollinazione e costruite arnie per le api. Il lockdown primaverile impedisce la semina, ma tornando nel Cervecchio a maggio, Antonella e Francesca scoprono con grande sorpresa una fioritura straordinaria completamente spontanea ma dal tratto stabile, che così interpretano:
Stralcio audio n.1 della registrazione nel Cervecchio: Antonella Zecchini e Francesca Bagatti presentano il paesaggio, 30_08_2020.mp319
A quel punto decidono di osservare il ciclo vegetativo e si accorgono, ad esempio, che le calendule crescono bene. Sopraggiunge un nuovo elemento: la figlia più giovane di Antonella propone di comprare un altro pezzo di terra, contiguo al campo. Che farne? Antonella parla di rigenerazione in chiave femminile e la scelta ricade sulla semina di fiori edibili e piante officinali.
Stralcio audio n.2 della registrazione nel Cervecchio: Antonella Zecchini e Francesca Bagatti presentano il paesaggio, 30_08_2020.mp320
Invitandoci dunque a compiere quest’azione di semina e messa a dimora, Antonella esprime il desiderio di fare del Cervecchio un luogo partecipato e attraversato. Un tratto di bosco che si apre in un campo fiorito, a cui accedere attraverso una strada che accompagna dolcemente il cammino tra luci ed ombre boschive: “mettere a contatto se stessi con questo paesaggio, ma per riprendere il cammino”.
La semina, video di Davide Costoli
Riflessioni finali
L’ultima parte della scuola vede il nostro gruppo riunito presso l’Erbalonga per un confronto sulle interviste nel Cervecchio – momento in cui il gruppo era stato tripartito – e per più generali riflessioni su quanto emerso durante le testimonianze raccolte nell’arco delle due giornate.
Paesaggi mutanti
La prima impressione che emerge dal nostro confronto è quella di una generale perdita di qualcosa da parte degli abitanti della valle. Un “qualcosa” che si può tentare di riassumere nel concetto di vitalità di questi luoghi, precedentemente scaturita dai propri abitanti poi emigrati altrove. A meno che non tornino dei giovani a far rivivere il territorio, si percepisce come la fine di questi “poveri paesi che vanno scomparendo”; le cui nuove leve, se non se ne vanno, comunque non fanno più i mestieri di un tempo, anch’essi elementi di vitalità per la comunità locale nel passato recente.
Questo sentire, va infatti oltre le persone e coinvolge anche l’ambiente della valle. Il paesaggio narrato si caratterizza per la grande presenza di case disabitate, delle antiche torri lasciate sopraffare dall’incedere della natura che si riprende spazio, dando vita a edifici mutanti.
Questa rappresentazione cozza in parte, ai nostri occhi, con la cura estetica ancora presente nel centro del paese. Questo, infatti, è ben tenuto, composto di case ristrutturate e luoghi pubblici curati. Anch’esso, è tuttavia coinvolto da questo sentimento di perdita: la cura estetica non sempre corrisponde a un abitare i luoghi.
Questo “abbandono” infatti coinvolge anche le pratiche di vita di un mondo montano il cui universo economico, sociale e culturale è mutato con il progressivo diminuire delle attività agricole che ne caratterizzavano precedentemente il paesaggio: il podere, il contado e la mezzadria, elementi chiave della vita nella valle.
Modernità, rottura, ripensamento
Nella descrizione del momento di passaggio dal mondo rurale alla “modernità”, un aspetto che spicca all’interno di più narrazioni è la sonorità del paesaggio. Il forte rumore del torrente Dragone, il vento e altri suoni della natura sono identificati come rappresentativi della realtà bucolica che caratterizza gli anni della giovinezza degli intervistati – che ricordiamo avere tra i 60 e gli 80 anni – prima del punto di rottura, presente nelle biografie di ognuno ma contestuale a diversi momenti della propria storia personale, solitamente tra gli anni Settanta e Ottanta.
È interessante notare che il mutamento dei rumori su cui si pone enfasi spesso non corrisponde a un effettivo cambiamento a livello fisico del paesaggio. L’origine di queste memorie è dunque nel cambiamento di percezione del soggetto, che ricerca anche negli elementi naturali al di fuori di sé dei termini di coerenza con la propria narrazione.
Da un ripensamento di questo paesaggio mutato, modificato rispetto al passato, si intuisce anche una speranza di riscoperta sotto altre forme sociali, culturali ed economiche. In particolare, le narrazioni più propositive sottolineano il potenziale sbocco costituito dal settore del turismo.
Tale settore è visto come importante e appropriato per queste zone, sia perché in grado di ricreare un dialogo tra la realtà della valle e quella urbana, ma anche per ovviare, attraverso la creazione di posti di lavoro adatti alle aspirazioni dei giovani, alla sensazione di isolamento e abbandono della comunità.
Queste considerazioni si basano sull’esempio di altri luoghi montani dalle caratteristiche simili e sulla speranza che le giovani generazioni rimaste ad abitare la valle si impegnino a creare le condizioni per il verificarsi di questa svolta. Questa speranza si correla allo sviluppo di un’idea di “modernità” che si differenzi da quella della grande produzione e distribuzione più prettamente “urbana” e sia alternativa ibrida e critica in grado di valorizzare le caratteristiche proprie del mondo montano, investendo su una relazione con l’ambiente naturale improntata al rispetto e alla sostenibilità.
Perché la svolta culturale alla base di tale sviluppo possa avvenire, molti punti di tale riflessione rimangono ancora aperti. Un elemento chiave, tra questi, è la necessità di un ragionamento più ampio e olistico del rapporto tra l’uomo e l’ambiente naturale. Rispetto a esso, emerge come necessario un approccio relazionale innovativo, anche rispetto ai modi e agli stili di vita dei contadini che abitano ancora la valle, caratterizzati da una concezione più privatistica del patrimonio naturale.
Emigrazione e generazioni
Un altro tema centrale emerso dalle interviste è quello dell’emigrazione. Esso inevitabilmente si intreccia alla narrazione del paesaggio della valle, all’interno della quale costituisce un forte punto di rottura. Ne risulta che nelle narrazioni dei nostri intervistati vi sono sempre almeno due cronologie: quella personale e quella della valle. Queste cronologie tornano a congiungersi nel momento del ritorno.
Dalle testimonianze emerge come l’emigrazione sia spesso correlata a motivazioni di carattere lavorativo. Storicamente, il fenomeno chiave entro cui rientrano questi spostamenti è il boom economico italiano e i conseguenti cambiamenti sociali. Questi mutamenti vengono percepiti generalmente in negativo – specie dai più anziani tra gli intervistati –, come una discontinuità rispetto alla linearità della storia precedente.
A ciò si correla il sentimento di perdita del “senso di comunità”, il tempo corrispondente per i testimoni da noi intervistati al vissuto dell’infanzia/gioventù (anni ’50-’60: l’ultima stagione dell’economia agricola diffusa). Esso si esprimeva, oltre che nei rapporti sociali tra gli abitanti della valle, anche a livello di quelli economici, ad esempio attraverso acquisti cooperativi. L’immagine di questa realtà comunitaria è opposta a un successivo clima di individualismo: le famiglie si arricchiscono e i beni comunitari diventano proprietari; realtà come quella del mulino perdono la loro funzione collettiva nel paese, in relazione al cambiamento dei modi di vivere e dei consumi. Viene in essere un complesso di elementi economico-sociali che naturalizzano gradualmente un modo di vivere più parcellizzato. Infatti, seppur costituisca un elemento di divisione sociale, nelle narrazioni degli intervistati l’acquisizione di beni e proprietà è comunque vista come un’emancipazione e una sorta di traguardo.
Il lupo, ovvero la pista “nel” paesaggio
Senso di perdita della comunità paesana, perdita di senso della vita in valle. La casa forte in disfacimento e il prato colonizzato dal bosco sono le cartoline giustapposte della medesima, malinconica narrazione. Gli anni dell’abbandono. Un abbandono tanto smisurato da assumere la pregnanza di un’estetica conturbante: il paesaggio inabitato, se non dai fantasmi “di famiglia” che nutrono il nostro spaesamento. Le case popolate da intere filiere intergenerazionali; la rete delle parentele diffuse; l’economia circolare della transumanza. Una densità esistenziale, prima che demografica, incommensurabile già a quota 600 con l’Appennino di oggi. E mentre l’uomo dirada, il lupo si riproduce nuovamente: non accadeva, in questa entità, da prima della colonizzazione latina. Carnivoro al vertice della catena alimentare, il suo radicarsi nel paesaggio della Val Dragone va letto come prezioso indicatore ambientale. Seguirne le “piste” diventa allora un modo per apprendere la biodiversità, inoltrandosi “nel” nostro medesimo paesaggio. Il lupo, Mario e Gianni non mostrano dubbi al proposito, è una presenza “appaesante”. Ci ulula: “venite, che nel bosco c’è vita…”.
Note
Lei ha mantenuto la famiglia facendo il contadino. Quindi ci può raccontare come ha fatto con tutte queste difficoltà che sta raccontando
Ivaldo (stralcio, cit.):
Io inizialmente a vent’anni ho cominciato. Adesso vi racconto un po’ la mia vita. A 14 anni sono andato a lavorare in risaia, in Piemonte, sono stato 45 giorni, avevo 14 anni, son partito con delle donne della zona qua. Ho fatto il mondino, eh ho fatto la mondina [ride], sono andato a mondare il riso. Allora sono stato 45 giorni là, poi dopo sono ritornato a casa, poi dopo ho fatto un po’ l’operaio, ho fatto il marmista, in un’azienda dove si produce del marmo cioè le mattonelle, i davanzali, quel lavoro lì, sono stato un anno lì. Poi dopo da lì ho lavorato con un’impresa che faceva linea telefonica, un anno anche lì. Poi dopo c’era un’azienda che veniva a fare, han fatto le ricerche qua sul… per cercare il petrolio, la Practo si chiamava, un’azienda tedesca che faceva ricerche per il petrolio, un anno anche con quell’azienda lì, erano lavori locali perché si lavorava in questa zona qua, poi dopo si sono spostati […] poi dopo ho lavorato per una cooperativa agricola, che allora c’erano, che era quella sui mezzi agricoli. C’era il mezzo agricolo in comune, in poche parole c’erano due trattori che lavoravano per tutti i contadini della zona, allora io lavoravo insieme a un altro, andavo ad arare, a seminare i campi per tutta la popolazione perché di trattori allora ce n’era uno per una frazione. Si faceva tutto, ed era una cooperativa dei contadini che si erano messi assieme e avevano comprato il mezzo agricolo poi dopo ci avevano messo insieme a due persone a lavorare, facevano così. Poi dopo ho fatto il sindacalista, per 5 anni alla CGIL, poi dopo dalla CGIL l’ho fatto per altri 5-6 anni alla CIA, confederazione agricoltori italiana, poi dopo a 33 anni ho detto, io adesso… non riuscivo più a fare quel lavoro lì, non riuscivo a essermi, a sentirmi realizzato perché si lavorava sempre con… lavoravi sempre per della burocrazia, fondamentalmente il lavoro sindacale era diventato quello e allora io con la burocrazia non andavo d’accordo e allora io provo a fare e allora ho fatto, c’avevo l’azienda di mio padre, che era un’azienda vecchia, però lui era già morto da anni e c’era mia madre che aveva 3-4 mucche e allora ho detto io adesso provo a partire con questa esperienza.
In casa mia di agricoltura se n’è sempre re[spirata], e comunque veniva anche lei [la madre] da una famiglia di contadini; anche i miei nonni sia materni che paterni erano tutti quanti coltivatori diretti e… diciamo che l’azienda agricola da cui proveniva mia madre non è cresciuta invece com’è successo a quella di mio papà perché i figli non hanno portato avanti il discorso dei genitori, mentre nel caso di mio padre c’è stato di nuovo un altro salto generazionale, sempre in agricoltura, che sembra esserci di nuovo perché i figli di mio zio continuano comunque a gestire l’azienda, e quindi sembra che ancora per un po’ dovrebbe esserci un’azienda agricola Fratelli Bagatti. Niente, io invece non ho proseguito con il discorso agricoltura, ma essendo comunque cresciuta in questo ambiente e avendo comunque sempre avuto un amore per la natura, mi ero iscritta inizialmente a biologia per poi invece dirottarmi sul discorso delle tecniche erboristiche e perché ho sempre avuto un pochino la passione delle piante e delle erbe trasmessami un po’ da mio nonno che mi portava a passeggio quando ero piccolina. Lui è stato il mio primo insegnante che mi insegnava il nome, magari anche il nome popolare della pianta… però mi ricordo bene che quando mi trovavo all’università, a fare appunto l’esame sulla conoscenza delle piante, sono comunque stata aiutata da questa cosa che ho imparato da piccolina, anche se era il nome popolare ho fatto molta meno fatica ad associarla al nome scientifico. Mi ricordo che mi riuscì abbastanza semplice questo esame di classificazione delle piante, proprio perché le cose che impari da piccolo ti rimangono proprio…
Giulia:
Erano belle sedimentate.
Ti volevo domandare, questa trasmissione di cui ci parli, quand’è che si è persa evidentemente questa…?
Ivaldo:
Eh si è perso… uno deve avere la passione, perché se non hai la passione per la terra e se non fai quel mestiere lì non sei neanche interessato ad imparare. Cioè, dal momento che te da giovane no, non sei interessato a quella cosa lì… difficilmente se lo vuoi fare a quarant’anni ti interessa, non sei interessato neanche a quaranta cioè… è una passione che ti prende, se sei appassionato del territorio, se ti piace il territorio, se ti piace fare quella vita lì, lo spazio c’è, la terra la vedi è lì. Te su questa qua ci puoi fare un sacco di cose, su quella lì, ci puoi piantare del mais, ci puoi piantare del grano, puoi allevarci un maiale, puoi farci l’orto. La terra è una cosa immensa, se uno si appassiona ci puoi fare qualsiasi cosa sul terreno, devi rispettarlo, ma ci viene di tutto. Eh però si impara a fare le cose, cioè bisogna imparare a farle, sbagli anche, perchè se fai l’orto e poi dopo non ci dai l’acqua quando è ora, lo fai per niente eh, devi imparare a starci dietro. Le cose si fanno non tanto per farle, si fanno se ci credi.
[Ci sono] uno o due branchi sicuramente.
Mario:
Sì, sì sì, io ho sentito ululare sul versante, beh, zona Medola così, non più di due settimane fa.
Gianni:
Per cui diciamo, poi se non sono, se non si fa un lavoro di ricerca stabilire il numero esatto sul lupo è complicato perché va in giro, però stiamo sicuramente uno sicuro e un altro probabile, è una struttura verticale ci sono la coppia dominante che è l’unica che si riproduce, agli altri è preclusa questo tipo di riproduzione, in genere fanno dai 4 ai 7 cuccioli, la mortalità dei cuccioli è molto elevata, siamo su, almeno certi studi sono al 70, 60, dal 70 all’80% anche, per cui questo è quanto rimane. I giovani rimangono all’interno del branco per più o meno un anno poi molti pigliano e vanno in dispersione e vanno alla ricerca di nuove aree e incontro con un nuovo o maschio o femmina. Il branco è composto in genere da 4 fino a massimo 7 elementi non di più, poi chiaramente dipende da quanta roba c’hanno da mangiare nel loro territorio e questo li sostiene. Un buon tasso di mortalità deriva da che loro vanno incontro quando vanno ad attraversare zone occupate da altri branchi di lupi, che spesso e volentieri non li accolgono in maniera amichevole. E poi lui fa tanta strada nel senso che… [ride].
Mario:
Madonna! Un camminatore instancabile.
Gianni:
Lui gira sulle autostrade di notte, attraversa ponti, attraversa ferrovie.
Daniele:
Quanto cammina in un giorno?
Mario:
Boitani mi diceva Gianni che lui aveva sicuramente potuto studiare un lupo fare 80 chilometri in una notte, son tanti!
Daniele:
E’ una bicicletta!
Gianni [ride]
Mario:
Il professor Luigi Boitani che ho avuto il piacere di conoscere…
Gianni:
No fa tanto, per quello c’è anche una difficoltà di monitoraggio se non metti in campo purtroppo anche delle forza che sono costose perché devi mettere il radiocollare, insomma, non è una cosa da 4 soldi, però questo è quanto e loro sono qui, per adesso non stanno aumentando perché ormai più o meno il numero, da un po’ di anni che io sento, è più o meno lo stesso per cui probabilmente hanno trovato una chiusura. Si sono spostati in giù, perché adesso negli ultimi 4-5 anni credo siamo stati avvistati.
Daniele:
Vicino a Scandiano…
Gianni:
Nello Scandia… Esatto, per cui probabilmente sono espressione che sono andati a recuperare.
5 Gianni (stralcio, cit.):
Così per capire poi quanto la biodiversità aiuta delle volte a risolvere i problemi e non a complicarli, io sono iscritto a un gruppo di questo parco nazionale che c’è in Bielorussia, dove è un parco nazionale molto grosso, dove all’interno ci sono lupi, orsi, linci, alci, cervi, è un ambiente molto grande e hanno visto, perché stanno studiando da parecchi anni, che..hanno, non capivano perché la popolazione di lupi rimanesse abbastanza stabile, perché la lince è un predatore terribile sui cuccioli di lupo.
Mario:
Esatto, esattamente.
Gianni:
Per cui la lince aveva questa funzione, perché poi la lince cosa faceva? Quando arrivano i lupi la lince andava sopra gli alberi e il lupo rimane sotto come un cocomero [ride] perché non è capace di fare ‘sta roba e invece la lince ha la capacità… e loro predavano veramente i cuccioli e praticamente la popolazione dei lupi veniva tenuta sotto controllo da quella delle linci, che poi a loro volta probabilmente morivano per colpa dell’orso o per colpa di altre cose, però la biodiversità più è grande.
Mario:
Eh, esatto.
Gianni:
E più ci sono delle risposte a dei problemi che vengono scompensati nelle situazioni in cui c’è meno biodiversità.
Mario:
Non c’è più bisogno dei piani di controllo, perché il professor Perco, altro grosso nome in materia di gestione faunistica di cui son stato allievo, diceva chiaramente che una lince equivale mediamente a 60 caprioli in meno all’anno, [ride] 60 caprioli in meno una lince, non c’è più bisogno, il fucile si mette… anche parlo del personale specializzato eh, lo tiene lì ad ammuffire.
Adesso siamo nel versante sbagliato ma di là dove ci sono molte più… c’è un punto lungo il sentiero delle miniere di rame medievali sfruttate anche dopo, ma rendevano poi pochino, dove c’è un fenomeno di gigantismo dei funghi e si possono raccogliere, nei limiti della legge regionale dove il galletto, il cantharellus cibarius, è alto così [fa il gesto]. è un esempio di questa biodiversità del tutto particolare. Si è creata una micro ecologica dove questi oligominerali presenti in questa roccia che dicevamo prima del mantello […] terrestre, non dico dal centro della terra ma insomma due- tre- quattrocento chilometri di profondità hanno queste caratteristiche e ci sono. Un mio amico aveva studiato anche le persone, è un medico del lavoro, faceva delle ricerche, aveva notato che le persone afflitte di ipertensione arteriosa in queste zone tendono a sviluppare molto meno dei danni vascolari [..] insomma è la biodiversità della valle.
La legge regionale 2 del 1977 che tutela la flora è stata vista all’epoca come qualcosa all’avanguardia ma sostanzialmente poi accettata. è ancora difficile far capire a certe persone guarda che quel fiore lì bisogna lasciarlo stare perché è protetto.
Gianni:
Qualche anno fa hanno abbattuto una quercia secolare di almeno di tre-quattrocento anni e alla domanda del perché era “perché c’avevo bisogno di legna” [ride], questa è stata la risposta, in un posto del genere, in cui tu dici “ma perché proprio lei?” certo perché ha un valore, però probabilmente bisogna lavorarci sopra al messaggio, c’è ancora strada da fare.
Mario:
Come quando il lupo è scomparso. Qualcosa è migliorata tantissimo ma soprattutto, come dicevo, sono state introdotte tantissime norme, la tutela dell’ambiente, del patrimonio floristico e anche faunistico ma accettate non universalmente bene, diciamo.
Gianni:
Diciamo che una volta il lupo, o chiunque faceva danno, per cui [il contadino] usciva, scoppiettone e si era risolto il problema. Perché comunque non c’era un’esigenza di un recupero, perché nelle città non avevano ancora sviluppato questo cercare di tornare alla natura per cui quello che succedeva nel campo del contadino fregava soltanto al contadino, per cui lui quando aveva un problema se lo risolveva così: c’era il fucile, usciva e se lo risolveva in quella maniera la maggior parte delle volte. Per cui dopodiché questa roba è cominciata a diventare una relazione problematica quando una buona parte della società si è chiesta se c’era bisogno di recuperare un certo tipo di discorso, se bisognava lasciare andare all’estinzione, se tutti potevano andare in un campo a tagliare qualunque cosa e portarsela via. Questo processo che dura da un bel po’ di anni, ha messo in moto che ci sono, che sono state create delle leggi e delle norme di tutela che si vanno poi a scontrare, tante volte, invece ancora con dei modi di vivere che ci sono in quei modi.
Come avevo già anticipato ieri sera, c’è la teoria che noi viviamo un po’ come concorrente alimentare, sempre parlando a livello ancestrale, del rapporto col lupo, perché [il lupo] ha un’organizzazione molto simile a quelle che avevano i clan dei cacciatori. Una struttura gerarchica e sociale che è molto forte, in cui vengono rispettati i ruoli, in cui ci sono delle cose per cui era anche un nostro concorrente perché mangiava spesso le prede che noi a quei tempi cacciavamo. Se tu frequenti un po’ facebook e i social, ci sono dei gruppi in cui diciamo che il lupo non riscuote massima simpatia e, se leggi un po’ tutti questi vari interventi, cogli che al di là di tutta una serie di problematiche che il lupo pone, e su questo non ci piove, c’è però una paura ancestrale. Questo se provi a leggerlo con un po’ di distacco, lo cogli e deriva probabilmente un po’ dal fatto che la nostra società che si è trasformata e ritiene che la natura non debba rappresentare più pericoli, per cui si ritiene che se vado in un bosco dove sono degli orsi, però l’orso se ti incontra ti deve dire “ciao” o se ne deve andare via da un’altra parte, perché secondo te non ti deve fare nulla.
Quando parli dell’animale pericoloso c’è un discorso antropologico dietro, sembra quasi ci sia un certo compiacimento di sapere che c’è un pericolo, se questo fosse un bosco tranquillissimo sarebbe meno bello andarci, frequentarlo, se invece sai che c’è il pericolo. Questo me lo dicono dei miei amici antropologi. L’uomo ha sempre avuto un certo timore ma anche compiacimento del pericolo dell’animale pericoloso.
Una volta chi abitava in certi luoghi e aveva un rapporto più diretto con la natura, fra virgolette, apprezzava anche il selvatico. Perché oggi questa cosa si è modificata perché ci sono tanti contadini o tante persone che vivono nei boschi e hanno lo stesso rispetto ecologico di un qualunque altro cittadino rispetto a quello che hanno vicino. Perché la città, come avevo letto su un libro, si è mangiata la montagna a livello culturale, per cui sono passati dei concetti e dei valori che abbiamo perso noi che viviamo in città ma che stanno perdendo anche persone che hanno un contatto quotidiano invece con questa cosa. Credo che la mia passione nasca inconsciamente da questa ricerca. Una ricerca che ho fatto anche coi viaggi, sempre andando a cercare delle situazioni dove è ancora possibile recuperare il rapporto uomo-natura, uomo-animale, uomo-selvatico con tutti i problemi che ci sono. Perché il selvatico non è né bello né buono e non è… è selvatico e va rispettato per quello che è.
Negli ultimi vent’anni la montagna ha vissuto un conflitto e perso parte della sua identità, per cui questa roba, loro – dico loro perché io abitando a Milano, anche se vivo qua da tanto tempo – abitano ancora in montagna, hanno in parte le abitudini di montagna, ma hanno la contraddizione che ormai sono contaminati da quello che è la città. Per cui questa roba gli crea un conflitto e tante volte hanno un rigetto. Per cui c’è una tendenza alla chiusura. Perché si stanno spopolando, perché allo stesso tempo vivono e vedono che di una parte delle persone che avevano di fianco non c’è più nessuno. Se vieni qua d’inverno e vai fino al passo delle radici avrai 30 case abitate, se ti va bene. Cioè questa roba chiaramente provoca, credo anche a livello psicologico, comunque un tentativo di chiudersi piuttosto che di aprirsi, perché c’è il rischio che questa cosa stia per finire. Se non ci sono persone che riprendono in mano cose di nonni e vanno tutti quanti a Modena e Reggio Emilia qui non ci rimane più nessuno e questa contraddizione delle volte porta a un rigetto, a una incomprensione, a un rigetto, a non cogliere invece l’opportunità che il cittadino ti porta. Perché comunque ti porta i soldi, parlando in termini bassi bassi, ti da da mangiare se lo usi bene, è colui che ti può far vivere meglio.
Il futuro di queste zone passa attraverso la relazione con la città o con chi viene da fuori. E chi viene da fuori cosa cerca quando viene qua, se deve trovarsi un ambiente che può trovare anche a casa sua a Milano, fra virgolette, non ci viene. Sta a casa sua.
E’ lì che l’incontro tra questa cosa è il futuro di questi posti. Se si riesce a coniugare queste cose nel rispetto di chi ci lavora, di chi ci produce e chi vuole usare per se stesso, per raccogliere la storia, per capire da dove si viene.
[Manca] in particolare il concetto di patrimonio di tutti, ma che questo qui è mio, e questo lo sentirete dire, in dialetto montanaro dicono io vado in te me, nel mio. allora provate a demolire questa mentalità e non è facile.
La consapevolezza è stata che io credo che attraverso una possibile soluzione della convivenza col lupo passi tanto della risoluzione di una serie di problemi che ci sono nel rapporto fra la città e i contadini o comunque la vita con gli allevatori e tutta la vita che è al di fuori. Perché il lupo, insieme anche ad altri selvatici, rappresenta anche il discorso della paura, è la massima espressione della contraddizione di questa roba perché in realtà per molti un po’ fa paura, però in realtà piace, però è affascinante, però crea problemi con le attività umane – ha mangiato il gatto della signora piuttosto che il cane del mio amico qua a Vitriola –. Qua per fortuna ci sono pochi allevamenti allo stato brado per cui ancora le tensioni con gli allevatori sono basse, ma in Lessinia, per esempio, vicino a Verona, o piuttosto che in Toscana e Maremma, i problemi con gli allevatori sono molto forti, insomma, poi questi spargono anche esche avvelenate, ammazzano… insomma diventa una cosa complicata, io credo che il tentativo della soluzione di questa roba potrebbe essere una vittoria importante perché nell’accettazione, nei compromessi che questa faccenda porterà, c’è anche il futuro del nostro rapporto con la natura e di quello che vogliamo. Perché lui [il lupo] è un punto, poi dopo se parli per esempio con chi fa vigna ti dicono che i caprioli gli mangiano le vigne, i cinghiali sono troppi, le nutrie ci stanno uccidendo tutti. Però quelli sono più piccoli e invece il lupo è l’apice di questa roba e attraverso questa cosa qua secondo me può passare una soluzione e anche una verifica di come siamo capaci, come società, di accettare e di fare dei compromessi per la nostra qualità. Lui comunque è un simbolo della biodiversità perché lo avevamo praticamente quasi perso
Quell’animale […] è stato in base al censimento purtroppo destinato a essere, prelevato, ma in poche parole vuol dire fatto fuori. Ha senso se chi fa queste cose è affidabile perché è colto, è stato selezionato e soprattutto se sgarra deve pagare molto caro.
Gianni:
Due fattori a integrare questa roba, anche perché il fai da te delle volte dura da anni, nel senso che, in un branco di lupi, la coppia dominante tende ad essere specializzata alla caccia delle prede quando c’è n’è il maggior numero nel suo territorio e insegna agli altri questa cosa qua, soprattutto ai cuccioli, e agli altri affiliati. Nel momento in cui vengono uccisi a caso e non su indicazione, semmai si dovesse arrivare a questa cosa, sarebbe meglio non ucciderli. Perché poi succede che il branco si destruttura e delle volte [i lupi] vanno a caccia a cercare quello che la fame li spinge ad andare a cercare, e non il cinghiale che diventa già una preda che devi essere capace di andare a prendere perché non è un signore che si fa prendere facilmente dal lupo.
Vengono usate strumentalmente determinate situazioni per avere vantaggio o creare svantaggio ad associazioni o perché magari fra sei mesi ci sono le elezioni o perché c’è questa roba. Ci sono dei modi che si possono, per limitare dei danni, certo che se tu non metti in condizione o non li fai conoscere a nessuno questi modi e li tieni nascosti o per il rimborso dell’uccisione di un animale delle volte in alcuni punti in Italia – non sto parlando dell’Emilia Romagna – ci mettono sei mesi, è chiaro che il contadino, l’allevatore, dopo la quinta pecora che gli viene ammazzata gli girano le madonne perché non può aspettare sei mesi perché gli venga rimborsata una cosa del genere. Però la domanda è: sei sicuro che non ce la fai perché non riesci o non ce la fai perché ti fa comodo? che poi tutti i contadini in quel momento si arrabbino e, com’è successo in altre parti, vanno a fare le manifestazioni contro o a favore. Questo è purtroppo, anche a livello emozionale come paese, tendiamo ad avere poche conoscenze scientifiche e in base a quelle a prendere delle decisioni, ma ci facciamo portare dentro ai tifi per cui o tutti i lupi salvati per sempre o uccidiamoli tutti che non ci interessano.
Io intravedo una nota ottimistica nell’aumento…
Gianni:
Siete voi che dovete farlo [ride]
Mario:
Ecco, [nell’aumento] del livello culturale, nelle giovani generazioni, anche della montagna. devo dire, quei pochi che decidono di non abbandonare la montagna. Devo dire, io sono molto in contatto che hanno preso la licenza di caccia per cui voi direte, ‘questo qui sta facendo un sacco di cose!’ Il problema è che vero, io sono un istruttore di tiro, di poligono nel nostro poligono di Sassuolo che è uno dei più grandi d’Italia, e abilitiamo anche al tiro di carabina, alle distanze giuste, a una conformazione geologica che consenta… e faccio le abilitazioni a questi soggetti e proprio a questi ragazzi qui della montagna. E insomma vedo in alcuni di loro che hanno assorbito un po’ di quella cultura dell’animale per cui ‘questo è mio perché è sulla mia terra, mangia la mia roba e quindi io lo butto giù quando mi pare’. Quindi resiste ancora un po’ [questo modo di pensare] però la cultura sta aumentando nelle nuove generazioni. Con le vecchie generazioni onestamente è quasi una battaglia persa. Ma nelle nuove generazioni c’è questo, e per me è proprio la cultura, la cultura generale.
Io ho un po’ interpretato questa cosa, aiutata anche da Francesca, ho pensato che la terra aveva una sua memoria. I semi forse erano forse ancora lì, sono stati un po’ girati, no? Portati sicuramente dal vento e dagli uccelli, ma qui è ritornato un tratto stabile. È stata veramente emozionante questa cosa [sorride].
Se io provo a pensare a mio padre… non so cosa mi potrebbe dire! Nel senso che già sento il contadino e già sento gli uomini del bar che dicono insomma che sono idee bizzarre. Però, la cosa che volevo un po’ dire è che dipende veramente a chi arriva la terra: quando tu ti senti un po’ proprietario di una terra, metti sopra un’azione. E questa è un’azione che forse gli uomini, boh non lo so, i miei antenati sicuramente non avrebbero…
Francesca:
Tu ci metti l’azione che ti appartiene di più.
Antonella:
Io provo a metter questa. L’idea è veramente camminare in mezzo ai fiori, in mezzo ai profumi, nell’erbalonga, nell’erba alta e sentire. Tutte le volte che si cammina si sentono profumi, soprattutto di menta. Quindi la cosa che chiediamo a nome anche del movimento de l’Erbalonga è: aiutateci a dare, date anche voi dei suggerimenti, dei pensieri, delle idee, venite a lavorare anche, se volete, ci farebbe molto piacere [sorride]. Oggi vi chiederemo di fare proprio un’azione di semina: di mettere un po’ di fertilità in questo posto.