di Santo Peli.
Pubblicato una prima volta nel 2004 ma presto risultato introvabile, torna in questi giorni in libreria nella nuova collana di storia orale dell’editore editpress La sega di Hitler. Storie di strani soldati (1944-1945) di Manlio Calegari, un libro fondamentale e imprescindibile per chi voglia fare storia orale e per chi voglia studiare la Resistenza. Riproduciamo qui la prefazione dello storico Santo Peli alla nuova edizione.
Uomini, partigiani
«Fischia il vento e infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar…». L’iconografia classica fissata dalla più celebre delle canzoni partigiane mal si adatta alla particolare guerra condotta dalla brigata volante Balilla, intorno alle cui vicende ruota questo libro di Manlio Calegari, uscito nel 2004 e finalmente ora ripubblicato.
Niente scarpe rotte, per la ventina di uomini che dal dicembre 1944 sulle colline che circondano Bolzaneto, a ridosso della grande Genova, è protagonista di una guerra atipica, di inequivocabile stile gappista («solo più numerosi»), che prevede attentati, assalti a caserme, camion, treni, incursioni nei paesi, nella periferia della grande Genova, partendo da un rifugio attrezzato nella ferriera Bruzzo di Bolzaneto:
di notte uscivano, percorrevano le strade, entravano nei bar. “Mettevamo delle scarpe di pezza – una specie di guerra in pantofole – che Battista aveva fatto fare per noi dalle donne di Bolzaneto, e uscivamo […] puliti, fucile lucido, educati, soldi in tasca” (pp. 84-85).
Niente aria ribalda e trascurata per questi partigiani in versione gappista. Trasandatezza e scarsa pulizia sono un ricordo dei giorni della montagna ormai alle spalle: «Non ricordo che ci fosse uno solo coi capelli lunghi. Se ci fosse stato, Battista, pidocchi a parte, glieli avrebbe fatti tagliare» (p. 97).
Diversi nell’abbigliamento, diversissimi nell’armamento: gli uomini di Battista si dedicano a una tambureggiante guerra d’attacco, forti di una lunga esperienza (il comandante Battista, il vecchio di trentasei anni e i suoi giovani vice hanno combattuto da gappisti fino al luglio 1944) e possono contare, almeno nell’ultimo e più intenso periodo, su armi efficienti, compresi le micidiali pistole-mitragliatrici Marlin e persino un bazooka.
E diversi anche nei risultati militari: tra il dicembre del ’44 e l’insurrezione eliminano, in agguati e anche in scontri diretti, un gran numero di militi fascisti e, cosa assai più inusuale, molti soldati tedeschi, con la perdita di soli due uomini:
una brigata di combattimento, di sparatori, di gente che non passa va il tempo a difendersi ma andava all’attacco; che non faceva prigionieri perché non aveva retrovie […] niente vie di mezzo: se catturavamo dei nemici o li lasciavi andare o dovevi farli fuori (p. 106).
Dopo aver dedicato oltre vent’anni alla raccolta di documenti e testimonianze sfociate nel monumentale Comunisti e partigiani. Genova 1942-1945 (Selene 2001) Calegari, ne La sega di Hitler, stringe il suo obiettivo sulla vicenda della Brigata Balilla, avviando il racconto con il ritrovamento casuale di una micidiale mitragliatrice M42 tedesca che i partigiani chiamavano “la sega di Hitler”. Non mancano naturalmente riferimenti al contesto generale della resistenza ligure: in pagine straordinarie, attraverso le parole di uno dei testimoni principali, Luciano, possiamo rivivere, “in soggettiva”, il terrore, il caos, la casualità che segna i destini di chi sopravvive e di chi soccombe nella tragedia del rastrellamento della Benedicta (6-11 aprile 1944). Già nella ricostruzione di questo episodio si affaccia uno dei temi che, come un basso continuo, accompagna questo viaggio nelle vicende individuali e collettive della resistenza: come e perché c’erano arrivate queste centinaia di giovani, alla Benedicta? E perché loro, esigua minoranza, e non gli altri? E perché qualcuno, come Luciano, nonostante un’esperienza così traumatizzante, si rituffa nella lotta, e molti dei sopravvissuti l’abbandonano?
Nelle pagine conclusive di Comunisti e partigiani l’autore aveva messo in chiaro che per utilizzare sensatamente delle testimonianze, è necessario stabilire chi era il testimone prima, durante e dopo i fatti; quale il suo rapporto con la lettura, la scrittura, la militanza politica, la partecipazione ad associazioni, il mantenimento di relazioni amicali con i compagni di un tempo, ecc. (p. 528)
Ora, nella Sega di Hitler, la questione viene ripresa, fino a diventare via via, soprattutto nella seconda parte (il racconto di Ezio), il nodo problematico più rilevante. Concentrando l’attenzione su un numero assai limitato di protagonisti-testimoni, Calegari può dedicarsi compiutamente alla ricerca dei «perché che solo ascoltando è possibile ricostruire; i perché del salire, del restare, del combattere a quel modo, della fedeltà al gruppo e così via» (p. 84). «Questo libro è costruito muovendo da storie di vita». Così, nella sua lingua essenziale, l’autore riassume la genesi e i materiali costitutivi della Sega di Hitler. Rispetto al precedente lavoro, qui non troviamo, se non in modo occasionale e implicito, citazioni da documenti; i rimandi ai dibattiti storiografici sono di fatto assenti, o ridotti a qualche stringata considerazione generale.
Un esempio: Gino e Luciano, i primi due testimoni da cui l’indagine-racconto di Calegari prende le mosse, hanno compiuto scelte diverse, il primo partigiano, il secondo solamente disertore. Ma…
in verità le rispettive storie avevano ai loro occhi un identico segno di valore; il disertore come il partigiano. Al contrario di quanto avviene nella storiografia resistenziale, o nel racconto morale, dove la figura del primo – in assenza di particolari motivi di ordine religioso – ottiene una considerazione positiva solo se prelude ad una svolta verso la seconda; da disertore della guerra sbagliata a combattente di quella giusta, da renitente a partigiano e così via (pp. 29-30).
Si tratta di uno dei rarissimi cenni storiografici contenuti nel libro; anzi, sospetto che sia scivolato fuori dalla penna di Calegari quasi inconsciamente. Come l’autore sa perfettamente, la storiografia della Resistenza ha anch’essa compiuto un lunghissimo percorso, conosciuto stagioni ricche di contrasti, imboccato molte strade diverse, alcune delle quali approdate anche a una riconsiderazione delle figure del disertore e del partigiano assai vicina a quella che si ricava dalle considerazioni di Gino e di Luciano, per i quali «Ribellione era la parola magica; corrispondeva al vissuto di entrambi ed eguagliava le loro esperienze» (p. 30). Già nel lontano 1991 Claudio Pavone aveva scritto che:
il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale è implicito nel suo essere un atto di disobbedienza […] era una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù […] per la prima volta nella storia dell’Italia unita gli italiani vissero in forme varie un’esperienza di disobbedienza di massa (Una guerra civile, 1991, pp. 25-26).
E tuttavia non sono a mio parere queste scarne considerazioni storiografiche l’aspetto del libro sul quale valga la pena di soffermarsi.
Calegari si è ormai lasciato alle spalle la forma tradizionale del saggio storico, forse con un sospiro di sollievo, suscitando in chi scrive una sincera invidia, ma provocando probabilmente, in certi ambienti istituzionali e accademici, una risentita presa di distanza, e persino un certo ostracismo, fino al confinamento di questa atipica e originalissima narrazione partigiana tra gli oggetti difficili da definire, forse di scarsa attendibilità.
In verità, se mai Calegari avesse avuto bisogno di accreditamenti “scientifici” per quanto riguarda il rigore del suo approccio alla storia della resistenza, il suo Comunisti e partigiani già consegnato all’attenzione degli storici professionali – assai scarsa in verità, e di gran lunga inferiore ai meriti di originalità dell’opera – era lì a certificare rigorosa acribia, profonda conoscenza dei “fatti”, dei documenti ufficiali e della letteratura specialistica. Inoltre, buona parte dei materiali, delle “fonti” sulle quali è intessuta la fluida narrazione che si dipana nella Sega di Hitler, era già presente, e trattata con tutti i crismi tradizionali, nel lavoro precedente.
Ora, emancipatosi dalle vincolanti regole della canonica forma-saggio, l’autore può dedicarsi in piena libertà compositiva a ciò che più lo cattura: il tentativo di comprendere “dall’interno”, partendo dalla specifica e irripetibile esperienza individuale, i molti “perché” che né le storie generali della resistenza, e tanto meno una tradizionale visione “monumentalizzante” della “scelta” partigiana permettono di mettere compiutamente a fuoco. Un’indagine come questa, attenta alla complessità e alla drammaticità dell’esperienza partigiana rivisitata “dal basso”, “in soggettiva”, pur rifuggendo da conclusioni apodittiche, sul punto della “scelta” è perentoria:
per essere lì non bastava aver scelto una volta sola. Lassù si arrivava per motivi diversi, con diverse storie alle spalle e ci si fermava per motivi che a volte si aggiungevano o più spesso si sostituivano ai precedenti […] la patente di partigiano non era la patente di guida che superato l’esame ti viene data per sempre o quasi (p. 131).
Storie di vita raccolte negli anni, montate, smontate, intrecciate, dense di rimandi interni, che coinvolgono non solo i diretti testimoni, i partigiani della brigata Balilla, ma anche i loro famigliari, e gli ambienti di lavoro, dunque le loro esistenze sul lungo periodo, prima e dopo l’esperienza partigiana. Il montaggio delle interviste, virtuosistico, non permette di scorgere punti di sutura. Il risultato è un affresco dove l’alternarsi della voce dell’autore e quella dei suoi testimoni scorre senza cesure. Liberatosi da ogni formalismo accademico, e anche da un preciso ordine cronologico, Calegari riassume parti di intervista, ne riporta una frase o un brano tra virgolette, fonde riflessioni individuali e collettive. riprende la parola in prima persona. Se il punto di partenza dell’indagine è appunto costituito dalle vicende della brigata Balilla, la controrappresaglia ne rappresenta l’apice, il momento di verifica, il punto dove percorsi individuali, emozioni, consapevolezze e caratteri diversissimi trovano un punto di fusione decisivo, certificato dall’unanime voto che si fa carico della responsabilità collettiva della controrappresaglia.
Il 4 aprile 1945, in risposta a una rappresaglia tedesca perpetrata a Cravasco (frazione di Campomorone) il 23 marzo, gli uomini di Battista falciano nello stesso luogo 39 tedeschi e fascisti prelevati dal campo prigionieri di Rovegno con una marcia di tre giorni.
Fin da quando iniziano i colloqui con Luciano, ricorda Calegari, «la controrappresaglia di Cravasco mi era apparsa un fatto capace di rappresentare da solo l’insieme dei processi morali, militari e politici, di cui la Balilla era stata espressione» (p. 83).
Non è l’accertamento dei fatti, in buona parte già noti, a interessare l’autore, quanto l’interpretazione che i protagonisti hanno via via elaborato della propria esperienza.
La soggettività dei protagonisti-testimoni, la loro moralità, emerge con fatica, gradualmente. Dapprima più o meno consapevolmente schermata, difesa, scarnificata o semplificata, riacquista complessità sotto lo stimolo dell’intervistatore, a sua volta implicato in un rapporto intenso, che mette in gioco fino in fondo anche la sua soggettività. In una recente intervista a Jessica Matteo (2019), Calegari chiarisce che per quanto lo riguarda
l’intervista, l’oralità, è un punto d’incontro, una costruzione che risponde ad un momento preciso, un anno, un luogo, quei sentimenti e tanto altro. Un momento affettivo, di scambio; spesso faticoso non facile da mettere a fuoco […] Sono pulsioni amicali, amorose; legami improvvisi e fortissimi tra voci ed esperienze lontane anche decenni; come si trattasse di letteratura.
Non c’è una verità da scoprire, già ben definita, come fosse depositata in una memoria-cassaforte, dalla quale basta estrarla. Piuttosto si tratta di intrecciare una relazione nella quale le risposte e le domande mettono a soqquadro pigre certezze e verità di comodo. Questa tecnica concorre a creare nel lettore la sensazione di averli davanti, gli intervistati, di percepirne il tono, il ritmo del pensiero, gli slanci e le ritrosie. In un crescendo di intense relazioni umane e di reciproca fiducia, le figure di Gino, Luciano, Ezio, Badoglino, Mauro, Zorro, Bufalo, Johnson, man mano che le interviste divengono dialogo, scambio, reciproca interrogazione, acquistano spessore e fascino. Non più semplici depositari di una memoria ormai sclerotizzata, ma protagonisti di un’ininterrotta indagine sulla moralità delle azioni, anche estreme, di cui sono stati consapevoli protagonisti. Racconti che prendono le mosse dalla rivisitazione dei mesi cruciali nei quali la Balilla è protagonista di imprese extra-ordinarie; racconti, domande e riflessioni che si dilatano e finiscono per tentare di abbracciare esistenze intere, ambiente familiare, esperienze lavorative, formazione politica, illusioni, aspettative, emozioni, motivazioni, delusioni e scoperte. Esistenze individuali, scandagliate alla ricerca – inesauribile – dei motivi che hanno spinto una esigua ma decisiva minoranza a mettere in gioco la vita e, soprattutto, della varietà e mutevolezza di questi motivi.
«Storie diverse che si erano intrecciate in montagna durante pochi mesi per poi separarsi nuovamente». Il crocevia dove queste vite si erano intersecate, l’esperienza partigiana del gruppetto selezionato personalmente dal comandante Battista (nome di battaglia Cacciou, cacciatore), era già stato narrato, con tono affettuosamente partecipante, da un giornalista, Leonida Balestreri. Uscita nel 1947, e più volte ristampata (nel 1971 e nel 1982), l’opera di Balestreri è una cronaca fedele degli «episodi belli di semplicità e di forza che l’autore man mano riportava fedelmente dalle parole dei partigiani che li avevano vissuti» riuscendo, come si legge nella nota editoriale premessa al libro, di «mostrare ancora una volta come gli italiani sappiano combattere e morire ubbidendo all’imperativo dell’Idea» (pp. 7-8).
Nelle ricostruzioni di Balestreri e di Calegari i “fatti” non sono significativamente diversi, ma balza agli occhi la distanza che separa il punto di vista e gli obiettivi perseguiti dai due autori. Come sottolinea Calegari, senza alcuna intenzione polemica,
dati i tempi in cui fu scritta – nel 1946 – era inevitabile che Leonida Balestreri, autore de La brigata Balilla, nel ricostruire le gesta della formazione desse più spazio ai sentimenti di giustizia e alla generosità dei partigiani piuttosto che alla brutalità che sempre si accompagna agli atti di guerra (p. 71).
I “ragazzi della Balilla”, che nella prosa simpatizzante e scorrevole di Balestreri battagliano con sprezzo del pericolo come i tre moschettieri sui bastioni di La Rochelle, a differenza degli eroi di Dumas si trovano quotidianamente immersi in una lotta impietosa, costretti a non lasciare
scampo a chiunque fosse stato fatto prigioniero. “Eravamo una formazione senza retrovie, o meglio le avevamo nello stesso campo nemico. Facevamo prigionieri solo per interrogarli. Diversamente…” (p. 72).
E ancora:
La loro non era una guerra elegante – ammesso che questa esista – ma il suo contrario.
– Brutale?
– Dura, molto dura (p. 71).
Mi pare che il tema della durezza, delle forme spietate che assume la guerra in stile gappista della Balilla, di come queste esperienze estreme vengano vissute e rielaborate dai protagonisti testimoni, sia il più originale, il più intensamente coinvolgente. Tra le molte scoperte che il lavoro di Calegari, il suo corpo a corpo con la sofferta soggettività dei suoi interlocutori portano alla luce, c’è la possibilità di tornare a una visione della guerra partigiana liberata dalle incrostazioni, che continuano con implacabile retorica a rilanciarne un’interpretazione disincarnata, nazional-patriottica e autoconsolatoria.
I partigiani di Calegari, liberati da stereotipi, schematizzazioni e strumentalizzazioni ideologiche, risultano assai più convincenti ed emozionanti, più “veri”, di quelli che un’incoercibile pulsione monumentalizzante ci ammannisce ad ogni anniversario; nella Sega di Hitler circola nuovamente l’autenticità di Nuto Revelli, di Emanuele Artom, di Luigi Meneghello, di Beppe Fenoglio, di Pietro Chiodi. Il partigiano Mauro lo sintetizza così:
L’uomo nella guerra è una bestia. Della guerra non si può parlare come abbiamo fatto noi due, qui, seduti tranquilli… Non sapevi. Combattevi per colpire, per difenderti, per affermarti. La guerra travolge; ti obbliga (p. 124).