di Valentina Lisi.
Da poche settimane si è conclusa la mia esperienza di tirocinio presso la Fondazione Università Ca’ Foscari con il progetto ‘AquaGranda’ di Science Gallery Venice1 e di Odycceus2.
Il progetto AquaGranda nasce inizialmente dall’idea di cogliere come attraverso i social media si sia diffusa una memoria dell’evento dell’acqua alta eccezionale che ha colpito Venezia nel novembre del 2019. Lo scopo è quello di creare una memoria diffusa digitale accessibile a tutti. Il sistema vincente di questo progetto è che si basa su public engagement, ovvero sulla partecipazione attiva dei cittadini che contribuiscono alla creazione dell’archivio digitale non solo consegnando il materiale multimediale in loro possesso e da loro ‘creato/scaturito’ (foto, audio, screen-shot di chat, dati scientifici, dati del centro maree), ma anche collaborando alla classificazione dello stesso. Dall’enorme mole di informazioni raccolte si sono poi ispirati ricercatori e artisti internazionali creando alcune opere virtuali distribuite all’interno della città e che diventano delle porte di accesso all’archivio di materiale raccolto online (attraverso la scannerizzazione di un QR-code)3.
Come era naturale che fosse, l’attenzione si è poi rivolta all’acqua alta eccezionale del 1966, la prima di cui si conserva memoria ‘viva’ in città. Che memoria è rimasta dell’alluvione del 1966? Com’era Venezia a quel tempo? Quell’evento ha cambiato qualcosa nella vita della città? I cittadini come ricordano quei giorni dopo più di cinquant’anni?
Il progetto si è quindi articolato su un altro piano: i laboratori di storia orale con le scuole. Si è voluto coinvolgere la parte della popolazione più giovane che avesse vissuto l’acqua alta del 2019, ma non avesse avuto esperienza di quella del 1966. I testimoni di quell’evento gli studenti li hanno in casa: nonni, zii, e talvolta genitori stessi.
La partecipazione è stata inaspettatamente numerosa per un totale di 50 studenti. Quarantasette di loro provenienti da due classi del Liceo linguistico Benedetti-Tommaseo di Venezia, una studentessa del Liceo di scienze umane Galileo Galilei di Dolo e infine due studentesse del Liceo linguistico Dal Piaz di Feltre.
L’obiettivo prefissato, e che avevamo presentato alle scuole, era quello di far conoscere un modo, se non nuovo, sicuramente diverso di fare storia. Ciò che è scritto è ‘monumento per l’eternità’, ricordo dai miei studi classici. E la fonte orale? Cos’è la fonte orale? La necessità prima è stata quindi quella di avvicinare gli studenti alle peculiarità di questo tipo di fonte e alla pratica dell’ascolto.
Abbiamo programmato cinque appuntamenti, rigorosamente online a causa dell’emergenza Covid ed è iniziata un’avventura… intensa! Io, come tutor degli studenti, insieme alla preziosa collaborazione di 3 referenti, che voglio qui citare e ringraziare, la prof.ssa Cinzia Crivellari4, il prof. Alessandro Casellato5 e Antonella De Palma6, abbiamo progressivamente esplorato insieme agli studenti teoria, metodologia e ‘buone pratiche’ dell’intervista: l’importanza di produrre un file audio di buona qualità, la scelta del testimone, la co-autorialità nella creazione della fonte orale, la costruzione di un rapporto fatto di negoziazioni, curiosità, rispetto e generosità. Un lavoro paziente, artigianale, quasi sartoriale, che si apprende facendolo.
I laboratori sono stati rallentati notevolmente dalle norme anti-Covid e dalle quarantene, dagli isolamenti e dal fatto che le persone che gli studenti hanno intervistato sono perlopiù anziane.
Il risultato è stato per me una grande soddisfazione. Le narrazioni di alcuni nonni intervistati, ma anche dei vicini di casa, degli amici di famiglia o di sconosciuti, presentano una Venezia meravigliosa: le stagioni erano cadenzate da alcuni odori specifici, le ‘botteghe’ erano numerose e varie, c’erano le piscine in canale, una rete di solidarietà tra cittadini solidissima.
Roberto: «Quando mia mamma faceva i gnocchi, allora metà calle mangiava i gnocchi, perché erano proprio tutti una famiglia. Ci aiutavamo… uno se aveva bisogno».
Dolores: «A quei tempi, ricordo, mia mamma, nelle scale c’erano degli anziani, e mi ricordo che quando mia mamma faceva il pesce… la polenta col pesce, andava su all’ultimo piano […] a portare il pesce caldo con la polenta, oppure c’era un magazzino vicino […] c’erano dei poveri che… […] mia mamma andava a portare giù da mangiare a questa persona che dormiva nel magazzino oppure portare qualcosa, del caffè caldo, caffelatte al mattino».
Una Venezia diversa: senza navi mostruose che passano davanti al bacino di San Marco, più decorosa, più ‘lenta’, con un turismo di qualità, una città in cui si respirava un’aria diversa. L’acqua alta è qui descritta come normalità. Essa faceva parte delle radici acquatiche della città e dei suoi cittadini. L’acqua alta del ’66 invece ha scosso, ha segnato i giovani adulti di allora. Le parole ricorrenti sono: paura, buio, freddo, preoccupazione per l’attività di famiglia.
Leopoldina: «L’acqua alta quando è eccezionale, come c’è stata anche 2 anni fa, sì, è preoccupante, ma altrimenti ci si può vivere benissimo, ci si è sempre vissuti. Non è che l’acqua sia solo adesso, c’è sempre stata».
Caterina: «Quel giorno lì tornavo dal viaggio di nozze, pensa… verso sera siamo arrivati in stazione sembrava tutto normale. Appena scesi dal treno abbiamo capito che doveva essere successo qualcosa perché ho sentito un silenzio bestiale. L’illuminazione non c’era, non era la solita illuminazione pochissima gente e proprio uno strano strano silenzio. Quindi io e mio marito ci siamo guardati e senza parlare mi ricordo che ci siamo subito diretti verso l’uscita. […] Lo scenario che si è presentato a noi è stato una cosa devastante proprio. […] Ci siamo resi conto che era arrivata l’acqua alta bestiale perché abbiamo trovato tutto il pavimento coperto da macerie di ogni genere, dai materassi al mobilio, scatoloni… […] Il mio pensiero mi ricordo che è andato subito al negozio di ferramenta di mio papà ecco quello è stato proprio, dove lavoravo anch’io. Il mio primo impeto sarebbe stato quello di telefonare subito a casa, quella volta non c’erano i telefonini i cellulari e però purtroppo le cabine erano tutte sottosopra».
Franco: «(Faceva) fredo, te digo mi, fredo! (L’acqua alta) non è stata una sola, è stata più, ma quella era più alta; è venuta tra e quatro, sinque dea matina e i ea ga avùa tuti, par queo che i ea ciama acqua alta, no… acqua granda, acqua grande; ea xè sempre stada grande, no ea xè mai stada picoea, ciò! […] (parlando del lavoro) Dopo, ghemo ciapà, butà via queo che no se podeva tegner, dopo se veniìo i omeni a meter a posto i machinari, e robe insomma no […] No… dopo un poco ea xè tornada (Venezia), xè tornada si… è tornata normale…»
Poi il ricordo che segna fisicamente la città: l’infinita linea scura lasciata dall’acqua e dal gasolio dei riscaldamenti lungo tutti i muri dei palazzi, sulle colonne di San Marco. Acque alte eccezionali che rendono sempre più fragile la città, ma ad ascoltare le parole dei testimoni del ’66, all’abbassarsi dell’acqua corrisponde una città che si rialza:
Leopoldina: «Sapevamo dell’acqua alta perché ci vivevamo sempre tutti quanti gli anni, tutti i… sempre. Però così non era mai stata, però… dopo, si supera […] Il giorno dopo tutto… tutte le cose, tutte rovinate erano tutte quante nelle calli, tutte buttate fuori, perché dentro c’era da pulire, da mettere apposto, da mettere in ordine, però nel giro di una settimana dieci giorni non c’era già più niente, la vita era tornata normale, non è che si vedesse poi che… si vedevano i segni dell’acqua che ha lasciato sui muri. […] Quando l’acqua va giù, uno si tira su le maniche, si dà da fare e rimetti apposto…»
Resilienza e desiderio di rinascita sono presenti anche nelle interviste delle studentesse di Feltre che si sono dedicate all’evento più recente di Vaia 2018, anziché all’alluvione del 1966. Molti comunque sono i testimoni di Feltre, Agordo, Cencenighe, Falcade, ‘della montagna’ che avrebbero voluto raccontare la loro alluvione del 1966. Purtroppo le misure anti-Covid e di isolamento tra comuni hanno impedito alle studentesse di muoversi per svolgere le interviste. Anche questo è stato uno degli ostacoli che la situazione pandemica ci ha messo di fronte.
David: «È stata una notte lunghissima, che nessuno si immaginava. Sapete che di solito questi eventi succedono come i terremoti di notte, che non ti rendi conto di niente. E solo la mattina quando siamo tornati a casa e ci siamo alzati di buon’ora, alle 7 era tutta una nebbia, non si vedeva niente… e poi quando si è alzata, ci siamo trovati davanti agli occhi un disastro: l’intera montagna rasa al suolo. E comunque vabbè… ci si tira su le maniche, a fare il giro […] Insomma… aiutandoci l’uno con l’altro, abbiamo fatto fronte anche a questo».
Le interviste raccolte sono moltissime e ognuna con le proprie peculiarità: alcune in dialetto, altre a tal punto formali da usare in contesti familiari la forma di cortesia e risultare così troppo pulite e distaccate. Svariate quelle in cui le persone pur non abituate a raccontarsi si dimostrano generose e felici di raccontarsi ai propri cari, tanto da dimenticarsi la presenza del registratore. Alcune volte erano i testimoni ad emozionarsi ricordando momenti felici del loro passato, ma anche i momenti angoscianti dell’alluvione:
Dolores: «Io abitavo a Rialto e mi ricordo i mercati che c’erano di frutta e verdura con i loro profumi… era una cosa meravigliosa […] il mercato del pesce bellissimo. Era un mondo, in quel periodo, meraviglioso. […] A Venezia c’erano addirittura delle piscine. C’era una grande piscina alle Zattere […] nuotavi praticamente nel canale della Giudecca. Era una piscina tutta recintata dove avevi anche la bellezza della città, che era una cosa meravigliosa».
Alda: «Ho avuto tanta, ma tanta paura sai, Lisa (si rivolge alla nipote). […] e mi ricordo che sotto le 16 così di sera, l’acqua non andava giù anzi veniva sempre un po’ più su, pocco ma veniva sempre più su e mi ricordo sempre che mio papà si è fermatto, e venuto un po’ giù, si è fermatto che sono venuta giù anch’io sui scalini della scala e si è messo a pregare perché vedeva che era tanto periccolo aveva tanta paura mio papà, essendo ciò più vecchio capiva di più il periccolo. Ma io essendo che ero giovane avevo solo ventun ‘anni non capivo il periccolo prendevo più le cose leggermente e così però per fortuna dopo il vento ha cambiatto, il scuro, quel vento che era, ha cambiatto che invece di sirocco e arrivato un po’ di bora e quindi un po’ alla volta l’acqua è andata sempre più giù». (le doppie sono dovute alla variante di Burano)
Altre volte erano gli studenti ad essere emozionati, come spesso mi hanno confidato, e ad essere ‘disorientati’ tanto da dare del Lei al nonno. Manuel si rivolge così al nonno Franco:
M: «Buongiorno […] posso intervistarla sull’acquagranda del 4 novembre 1966?»
F: «Ma ti me dà del Lei?»
La maggior parte dei ragazzi ha trascritto e compilato una scheda di corredo per ciascuna intervista. L’obiettivo ora è geolocalizzare all’interno della carta di Venezia (sulla base di dove si trovassero i testimoni durante l’acqua alta del 1966) il materiale raccolto e renderlo fruibile attraverso un archivio online.
Il materiale raccolto sarà conservato presso tre archivi: l’archivio delle fonti sonore di Ca’ Foscari, la società di mutuo soccorso Ernesto de Martino di Venezia e l’archivio digitale di Science Gallery Venice che elaborerà alcuni brevi estratti da ciascuna intervista e li accosterà al materiale fotografico e multimediale già raccolto per il 2019.
L’immagine nella mia mente è quello di un archivio double-face. Infatti le narrazioni e le voci raccolte dagli studenti sul 1966 possono diventare le didascalie perfette alle immagini raccolte dai cittadini sul 2019. Un lavoro fatto collettivamente dalla cittadinanza per la città.
‘La voce batte immagine 3 a 0’. Vero? Io penso di sì. La voce ti entra dentro e continua a risuonare dentro di te. Mi sono quindi chiesta se i ragazzi avessero capito il valore della testimonianza raccolta, l’importanza del racconto e della voce. Attraverso le narrazioni dei loro nonni hanno creato autonomamente un tassello di storia che andrà ad arricchire la loro città, ma anche loro stessi all’interno della città (appaesamento).
Tra gli studenti numerosi erano quelli stranieri. Vincent mi scrive così:
«Conoscevo vagamente i fatti del ‘66 attraverso i racconti televisivi. Dopo aver ascoltato un racconto dal vivo, con tutti i dettagli, da un ragazzo di quel tempo, ogni volta che sentirò parlare di questo evento mi verranno in mente le sue parole ed espressioni.
Riguardo l’intervista, era la prima volta che svolgevo da solo un’attività come questa. Inizialmente, mi sono sentito emozionato al punto di tremare. Superato questo momento, mi sono sentito di continuare e così ho fatto».
Non tutti mi avevano detto come gli era sembrata questa esperienza7. Inoltre cercavo di immaginare i risultati che avrebbero potuto avere i laboratori se fatti in presenza, invece che online. Ero dispiaciuta di questa dinamica e pensavo non fossero stati così efficaci. Ma ecco che alcuni giorni fa, di sera, camminavo in compagnia per le calli tranquille di Venezia. Parlavamo, i volti coperti dalle solite mascherine. Incrociamo una ragazza, anche lei mascherata, in direzione opposta alla nostra. I nostri sguardi si sfiorano per poco, ma non riconosco nessuna amica e passiamo oltre. Noto però, girandomi, che la ragazza mi fissa. Allora mi viene incontro: “Mi scusi, ma lei è quella dei laboratori?”. Io rimango spiazzata e domando: “Scusa? Laboratori di AquaGranda?”. Lei “Sì! È lei vero?”.
Sorrido sotto la maschera e annuisco. La risposta che la ragazza mi ha dato, non poteva essere risposta migliore ai miei dubbi: “Sì, l’ho riconosciuta dalla voce!”.