di Stefano Cattelan
Intellettuali, culture locali, archivi orali: questo il tema del corso di Storia orale del 2019 all’Università di Venezia; al centro l’idea che la storia orale in Italia sia stata, per alcuni decenni, un movimento largo, che ha mobilitato una generazione di intellettuali “diffusi”, attivi anche al di fuori dei circuiti e dei luoghi più noti, che dagli anni Ottanta in avanti hanno condotto ricerche, scritto libri, fondato associazioni, spesso registrato e conservato interviste.
Di loro sappiamo poco. Li siamo andati a cercare. Abbiamo chiesto loro di raccontarci traiettorie personali di vita e di ricerca e di dirci che cosa è rimasto dei loro archivi, dei documenti che hanno raccolto, e a chi pensano di consegnare la loro “eredità materiale” fatta di nastri e cassette con le mille voci che hanno ascoltato. Ne sono usciti degli incontri singolari, illuminanti, talvolta toccanti.
DopoRosarita Colosio,Camillo Pavan,Giovanni Rinaldi, Gastone Pietrucci, Giulio Soravia e il Circolo della Rosa incontriamo Mario Davanzo, ricercatore del Centro di Documentazione storico-etnografica del Veneto orientale “Giuseppe Pavanello” di Meolo, provincia di Venezia.
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Tutto ha avuto inizio tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta quando ci fu la nascita di un’associazione per il recupero della “voga alla veneta” che si occupava, tra le altre cose, di studiare vecchi itinerari lagunari e paludosi ormai quasi spariti soprattutto grazie alla spinta di ex cacciatori, che questi territori li avevano frequentati. La particolarità degli itinerari portò poi alcuni associati a interessarsi alla storia del territorio, a partire addirittura dai tempi dei romani. Siamo, infatti, nell’entroterra veneziano, tra i fiumi Sile e Piave, presso l’antico tracciato della via Annia. È da qui che parte, nel 1989, la storia del Centro di documentazione storico etnografica del Veneto orientale “Giuseppe Pavanello”. Ed è qui, presso la sede del Centro, che trent’anni dopo – il 3 aprile 2019 – ho incontrato Mario Davanzo.
STEFANO: Bene, siamo a Meolo, oggi è il 3 aprile 2019, sono circa le nove e un quarto, siamo a casa di Mario Davanzo che è la persona intervistata e io sono Stefano Cattelan studente dell’università Ca’ Foscari di Venezia. Mario posso intervistarti per fare una tesina per il corso di storia orale tenuto dal professor Casellato presso l’università Ca’ Foscari?
MARIO: Certo, d’accordo.
STEFANO: Ok, grazie. Presentati pure.
MARIO: Sono Mario Davanzo, sono nato nel 1949, il 17 febbraio, a Marteggia che è una frazione di Meolo, poi siamo venuti ad abitare a Meolo nel ’55, ero in prima elementare. Mi sono diplomato geometra nel ’69, anno ’69/70, sono stato iscritto all’università un paio di anni a Trento, Sociologia, con alcuni esami, soprattutto con l’intento allora di ovviare il servizio militare. Poi ho fatto diversi lavori, geometra, educatore in un istituto della provincia di Treviso, parecchi anni all’ospedale di San Donà nell’archivio della radiologia e… basta, è tutto il resto della biografia che è importante…
STEFANO: Sì certo, tu hai fatto tanta ricerca storica, a noi interessava più o meno quello che riguarda le interviste, quindi come tu hai fatto storia orale intervistando a tua volta.
MARIO: Certo. Beh allora guarda, intanto faccio parte di un’associazione, quindi tutto il lavoro di storia orale che abbiamo fatto, che poi è sempre stato associato storia orale-fotografia in un modo che ti dirò. Fotografia nel senso degli archivi privati, la scatola di scarpe con le foto no? Delle persone, abbiamo sempre associato le due cose. E sì quindi l’ho fatta con l’associazione.
STEFANO: Che associazione è?
MARIO: Adesso è il Centro di Documentazione storico-etnografica del Veneto orientale, dedicata o intitolata a Giuseppe Pavanello. Giuseppe Pavanello, un meolese, 1878-1933: è uno storico locale ante litteram insomma, che fa delle ricerche, un po’ con le impostazioni del suo tempo, però per noi è importante perché lui pubblica una grande quantità di fonti utili proprio della storia di questo territorio. All’inizio c’è una associazione di Voga alla veneta, per quanto possa apparire strano, che ripercorre le vie fluviali interne e quelle lagunari prossime alla terraferma che qui è interrotta dal Taglio del Sile. L’iniziativa parte da alcuni ex cacciatori, pentiti, che conoscevano molto bene il territorio, partivano da qui con piccole barche e attraverso la fluvialità minore arrivavano fino al taglio del Sile, trasportavano le loro barche nel taglio del Sile di là in laguna eccetera. Quindi una familiarità lunghissima, antica quasi, che queste persone avevano ereditato.
Nel momento in cui fanno questa cosa, buona parte di loro, e questo è interessante per noi, sono operai e lavorano a Porto Marghera, e lì soprattutto chi lavora in Breda [Cantieri navali Breda] ha molti contatti con altri operai veneziani, in particolare di Murano, Burano, delle isole. Sono gli anni Ottanta, fine Settanta, primi Ottanta, in cui c’è una grande rinascita della voga alla veneta. Quindi c’è un po’ anche questo contagio tra associazioni, noi faremo un gemellaggio, come associazione di voga, con una società veneziana, “Tre archi” mi pare. Quindi questo interesse nasce proprio in una parte di queste persone che si erano conosciute anche in laguna per la caccia, e poi si estende anche ad altri mai stati cacciatori. Qui nasce l’interesse per l’antichità di questi itinerari che hanno un grosso significato da un punto di vista storico. Terre possedute quasi interamente da patrizi veneziani, collegamenti via acqua importanti, strutturati, con approdi, squeri di rimessaggio. Quando noi facciamo questa cosa resta pochissimo ancora di questa navigazione, un po’ nella Fossetta sempre in rapporto a Venezia. Quindi questi sono gli elementi che ci legano, che legano molto alcune persone al territorio e alla storia antica di questo territorio; da qui poi queste persone si staccano come associazione, ecco che nasce il Centro di Documentazione e nasce un interesse, all’inizio proprio per estensione di quello iniziale, proprio di esplorazione del territorio, che è una ricognizione di superfice sistematica di carattere archeologico. Qui abbiamo da subito rapporti con la Soprintendenza, quindi tutto si svolge tra virgolette in regola da questo punto di vista.
Siamo arrivati alla ricerca archeologica di superfice, che si svolge principalmente lungo la grande struttura antica di questo territorio che è la Via Annia. Siamo a Marteggia, dove passa arrivando da Altino e poi si inoltra per Millepertiche, siamo a sei miglia romane da Altino, quindi c’è una realtà insediativa importante. Perché lungo una strada in prossimità di un centro importante nascono, come nascerebbero adesso, insediamenti abitativi, produttivi.
Quando noi cominciamo questa cosa sono esattamente cinquant’ anni circa dalla bonifica [degli anni Venti-Trenta]: stiamo parlando di una palude stabilmente indotta dal taglio del Sile [del XVII secolo] che ha seppellito l’Annia per secoli, o quello che rimaneva dell’Annia. E quindi, quando cominciamo questa indagine sull’Annia, percorrendo la strada romana riemersa dalla palude, è qui che conosciamo chi abita questi territori, da una parte sentiamo i racconti leggendari, la mitologia di Attila eccetera, queste cose, lo spirito dell’antichità del territorio, e dall’altra racconti però molto utili, indicatori importanti, cioè chi ti dice: “In questo luogo abbiamo trovato dei materiali”, che poi le case e i cortili intorno sono pieni zeppi ancora di questi materiali, e chi addirittura dice: “Nella zona del ponte”, indicando con questo un ponte romano, un ponte antico che poi è stato anche scavato, il ponte romano sull’Annia. Quindi a questo punto cominciamo questo lavoro di registrare il racconto delle persone che hanno da una parte frequentato la palude, hanno visto, assistito alla bonifica, qualcuno ha anche lavorato, ma comunque hanno visto la riemersione del territorio dalla palude, e quindi il loro racconto sull’ultimo spolpamento dei materiali dell’Annia: grandi quantità di materiali, soprattutto sulla sede stradale, e strutture di reticolari di travi poste a sostegno del terrapieno stradale, in un terreno molto difficile che tendeva a sprofondare, adesso riemergono con gli spianamenti e le prime arature profonde e vengono interpretati nei modi più… Insomma, i tetti delle case sepolti da Attila eccetera, e quindi una sconnessione temporale spesso, proiezione mitica, leggendaria, però ricca di informazioni territoriali puntuali. Quindi il fatto è che il loro racconto, il loro racconto della palude e della bonifica, il racconto della loro vita diventa per noi l’interesse principale.
STEFANO: Quindi c’è questo passaggio.
MARIO: Sì, dall’interesse archeologico che ci porta a loro, testimoni del prosciugamento della palude e della frammentazione della palude. Perché poi il racconto stesso della palude, il racconto di micro itinerari all’interno, riportati poi sulla carta, testimoniano come si frequentassero sempre segmenti di una viabilità antica, l’Annia stessa che sopravvive comunque, in parte, come terrapieno e come luogo che permette di passare da Marteggia verso Ca’ Malipiero, per dire ecco, quindi c’è questo intreccio…
STEFANO: Di indagini anche, no? Perché partite da un qualcosa che è archeologico, di studio di antichità e arrivate tramite chi hai detto o ha lavorato o ha vissuto magari, viveva lì in prossimità, e arrivate a capire il loro rapporto stesso con questi oggetti antichi, ma anche come vivevano l’ambiente paludoso che era tipico di questa zona fino alle bonifiche hai detto quindi, anni Venti, Trenta? Più o meno?
MARIO: Sì, dunque sì, i testimoni più antichi diciamo ci raccontano del pre-bonifica, quindi anni Venti fino al ’30, ’33: qui tra il ’30 e il ‘33 c’è il piano della bonifica di Marteggia, Ca’ Tron, Musestre, eccetera.
STEFANO: I primi che hanno visto ancora la palude.
MARIO: Sì, sì. Hanno visto e frequentato la palude, quindi poi hanno visto appunto la riemersione della terra, e all’inizio quello che cerchiamo sono degli indizi per la nostra ricerca di carattere archeologico che intanto aveva già conosciuto, a fine anni Ottanta, una prima pubblicazione, una mappa archeologica della bassa pianura tra Sile e Piave, con una ricostruzione dell’idrografia antica, cioè era già nato un lavoro interessante, fatto sempre con la soprintendenza, con il Cnr eccetera. Poi è il loro racconto, il racconto della loro vita, che diventa il nostro interesse principale.
E qui c’è una particolarità: chi racconta queste cose sono i nostri, dal punto di vista generazionale, sono i nostri genitori, o i nostri nonni in alcuni casi, ma soprattutto sono i nostri genitori. Quindi siamo andati anche a rivedere… cioè da una parte eravamo anche cresciuti con il loro racconto, perché allora si raccontava anche molto, e qui siamo andati a rivedere quello che in parte già conoscevamo e che adesso cominciava ad interessarci. Cioè chi ci raccontava, non lo so, che in una parte di Marteggia riusciva a coltivare due righe di pannocchie perché c’era un posto alto che era chiamato “la strada di Attila”, e vent’anni prima ci era parso una cosa interessante, adesso era diventato un indicatore anche nella nostra ricerca. Quindi siamo andati a rivedere un po’ anche quello che avevamo già sentito, no? Poi nel racconto c’è qualche dettaglio, da noi era nato per capire qualche dettaglio all’inizio, no? Cioè: “Dove hai trovato queste cose? Dove hai visto?”. Ma uno in sostanza ti racconta la vita, questo è estremamente più… è un giacimento di informazioni molto più esteso e molto più interessante insomma.
STEFANO: Mi piacerebbe capire come li avete contattati, se era gente che conoscevi del posto e quindi dicevi sì, oppure non lo so avete cercato qualcuno che magari anagraficamente fosse nato in un determinato periodo, non so, come?
MARIO: I punti di riferimento genericamente all’inizio sono state le persone più anziane, non per una scelta culturale, ma perché le più anziane erano i testimoni che ci interessavano in un primo momento, cioè chi vede la palude, vive la bonifica e descrive questa trasformazione che per noi all’inizio ha un interesse. Chi scopre la strada, chi ha i campi tira su l’ira di Dio, porta a casa, mette nei cortili pieni di fango, nelle fondazioni delle case, è un riutilizzo ancora continuo del materiale ormai millenario dell’Annia. Questo era l’inizio, insomma era un approccio strumentale, poi invece appunto il nostro interesse diventa per le persone. Quasi tutti li conosciamo già, quindi funziona che intervisti uno e lui ti racconta: “Devi chiedere a questo, per quel posto devi chiedere all’altro, lui conosce, lui ha visto, lui sa”. Quindi c’è una rete proprio di testimoni che se comincia ad allargarsi pone anche una difficoltà, e avrebbe dovuto imporre una certa sorveglianza. Perché se sei estraneo ad un racconto lo assumi per come te lo raccontano, ma lo vagli in modo critico. Questi ci raccontavano una storia che avevamo già sentito raccontare, quindi eravamo un po’ dentro, compromessi in questo racconto. Poi da uno, da una persona che racconta o perché glielo chiedi: “Qui chi c’era? Qui con chi hai…”, “Con chi sei andato in guerra?” eccetera. Un po’ si è fatto in questo modo, perché poi d’altronde è sempre pieno di imprevisti. Spesso i testimoni più interessanti sono quelli apparentemente residuali, anche all’interno di una certa gerarchia.
E poi è stato fondamentale il racconto delle donne. Credo che il racconto più importante della palude è stato fatto proprio dalle donne. Ho presente un paio di casi di vedove di uomini della prima guerra, o che muore poco dopo, che hanno una famiglia, vivono nella palude, sbarcano il lunario con quattro figli. Quindi queste donne sviluppano una dimensione di lavoro, di rapporto col territorio e con le famiglie intorno che è straordinario. Poi qui c’era una caratteristica, ma è una mia idea: ci sono anni soprattutto tra gli anni Venti e Trenta, in cui genericamente non solo c’è molta povertà, ma non è questo è il problema, c’è uno stato quasi di prostrazione anche piscologica da parte degli uomini e spesso è la donna a tirare avanti. L’uomo esce a lavorare in campagna dove lo chiamano a far qualche ora, e si beve quasi tutti i soldi, sistematicamente, e torna a casa ubriaco, ma sensa schei [ma senza soldi], spessissimo succede questa cosa. Questa è la generazione che dopo va in guerra durante la seconda, e ci sono anche i più vecchi che non vanno in guerra perché hanno già parecchi anni negli anni Trenta. Questi stanno seduti davanti la casa durante il giorno, senza prospettive, però hanno famiglia, e la donna tira avanti, ed è quindi quella che descrive in modo più importante il modo di vivere con le altre persone.
STEFANO: Mi dicevi poi che le interviste le facevate già col registratore?
MARIO: Sì, siamo partiti dalle prime con una videocamera e con un registratore, una doppia registrazione che adesso si è rivelata importante perché la parte audio della registrazione audio-video, i primi minuti, sono scomparsi. Però abbiamo la registrazione. Naturalmente all’inizio avevamo degli obiettivi da realizzare, cioè conoscere alcune cose di un territorio, poi siamo stati coinvolti in un racconto più complessivo, e però quindi l’intervista non era molto strutturata. E quindi spesso è un colloquio libero nel quale ci sono anche domande, poi le domande diventano più importanti quando ci rendiamo conto. Quindi: in casa, all’inizio sempre, poi qualche volta le facciamo nella nostra sede, qualche volta per strada, in piazza con un registratore, spesso anche interviste o colloqui brevi su qualcosa, un quarto d’ora, anche dieci minuti, con il registratore in mano. Uno racconta, lo trovi magari anche al bar! Quindi a tutto campo. Quindi sono interviste, sono colloqui liberi e capisci dopo il potenziale interesse che tu hai verso le informazioni di quella persona. Alcune sono importanti ma brevi, capitate così. Due sere ci siamo messi in un bar del centro con una videocamera su un tavolino, eravamo d’accordo con qualcuno che veniva, altri si sono aggiunti e li abbiamo intervistati sulla piazza. Quindi situazioni molto diverse, spesso nelle abitazioni loro, all’inizio è sempre così. All’inizio le donne dicono: “No, no, no!” dopo alla fine si convincono. E dopo la videocamera è un disturbo! All’inizio però, perché poi era una postazione fissa su un cavalletto e quindi la dimentica, però intanto il giorno prima si è fatta la permanente.
STEFANO: E anche questa è una cosa importante perché magari chi doveva parlare si preparava, la sera prima si chiedeva: “Cosa devo raccontare domani?” quindi si ricordava tutte le cose, ma anche esteticamente sapendo che c’era la telecamera voleva dare una certa apparenza.
MARIO: Sì, sì ma infatti. Penso che ce ne siamo resi conto nel corso del tempo, spesso alcune interviste sono state ottenute con una certa insistenza verso persone che conoscevamo anche, mobilitando parenti che dicevano: “Dai! Fai!”, però dopo ci sono stati momenti che erano significativi per chi raccontava. Una spia è questa: perché il testimone si prepara, e dopo perché molti sono incorsi in una specie di rievocazione molto partecipata, molto intensa, coinvolti anche emotivamente insomma nel racconto, si emozionano. Si emoziona non solo perché racconta, naturalmente ghe xe dentro desgrazie [ci sono dentro disgrazie] di tutti i tipi, ci sono tragedie. Ma per il rapporto personale che ha con il suo vissuto. Quindi un momento estremamente importante, difficile, difficile da star ad ascoltare, però spesso sì, spesso i testimoni sono coinvolti, in una forma di partecipazione molto intensa ecco. Soprattutto per la sensazione che molto di quello che è successo sia rimasto in qualche modo irrisolto, sospeso, o non concluso in modo giusto, senza giustizia a volte: “Non è stato giusto fare questo, che morisse così, la guerra”. E quindi è un qualcosa che diventa, nel momento dell’intervista, attuale. Parla adesso insomma, è ancora presente, non nel deposito della memoria, è presente nel tessuto emotivo della persona.
STEFANO: Quindi voi eravate in un certo senso anche all’avanguardia, perché non avevate solo il registratore, tra l’altro che tipo di registratore era?
MARIO: Il registratore era tipo mangiacassette a nastro. Le prime registrazioni audio-video non sono fatte con supporti digitali, oppure noi non li conoscevamo, quindi diciamo nastri, i “videotto”, non la pellicola. Supporti analogici della qualità che puoi immaginare, che ci sono serviti poi per fare poi diversi montaggi nell’utilizzo. Poi abbiamo registrato più tardi anche in digitale, anche qua era digitale su nastro, i “mini dv”, le cassette “mini dv”. Adesso proprio in digitale.
STEFANO: E le interviste poi per cosa le avete usate?
MARIO: Abbiamo fatto dei riutilizzi sempre parziali. Ora, il primo al quale abbiamo pensato è stato estrarre informazioni di interesse archeologico, anche da queste persone registrate in audio-video con la qualità che è quella che è. Una delle cose, che è stata un po’ una caratteristica, è stata quella di interventi di riproposizione di memorie nei luoghi in cui le avevamo raccolte, per esempio a Portegrandi [frazione di Quarto d’Altino] e nella bonifica di Marteggia. Abbiamo riproposto delle selezioni tematiche di memorie che avevamo raccolto, relative a quel luogo o a fatti avvenuti in quel luogo, riproposti pubblicamente con proiezioni di parti, spezzoni delle interviste, con foto che avevamo raccolto. Un’altra per dire in riferimento alla guerra su un meolese che è stato ucciso da una squadraccia di fascisti. Lì abbiamo intervistato i testimoni di questa cosa, nell’osteria in cui lui poi è stato portato dentro nel tentativo di nasconderlo, lì abbiamo proiettato parte di queste interviste, e letto altri testi. Ecco questo è stato il modo principale di usare le interviste, questa restituzione nei luoghi. Dopo è stato fatto quello di fare dei piccoli fascicoli in occasione di mostre. Altre sono state anche utilizzate in alcune tesi di laurea, e poi in brevi montaggi video.
STEFANO: E oggi queste registrazioni come sono?
MARIO: Oggi quelle registrazioni sono il nostro problema, perché c’è stata una fase lunga e anche abbastanza intensa di raccolta. Naturalmente la fase che richiede più tempo è la sistemazione di questo materiale, per renderlo utilizzabile anche da altri. Poi per la conservazione, nei nastri non può conservarsi, bisogna digitalizzarlo. Lì c’è un lavoro che abbiamo cominciato di sistemazione e di schedatura delle interviste. Però questa è un poco la nostra preoccupazione. Ci sono stati alcuni problemi nati dal fatto che noi avevamo una sede in Marteggia, dopo è stata chiusa per anni, ci siamo spostati di qua a Meolo, alcuni anni ultimamente abbastanza travagliati, in cui abbiamo speso energie soprattutto per i traslochi, questo ci ha un po’ penalizzato. Però quello che dovremmo fare è fare un progetto di lavoro su questa cosa, decidere come mettere in salvo, anche perché le ore sono tante di interviste.
STEFANO: Sarà un bel lavoro anche quello da fare, prima che…
MARIO: Prima che sie massa tardi! [Che sia troppo tardi!] Questo è un lavoro assolutamente che implica molto più tempo a sistemarle che a registrarle, non c’è niente da fare. Noi abbiamo trascritto anche molto, ma sempre in questo modo: mai interviste integrali, pochissime interviste integrali trascritte, e perché c’è stata un’occasione esterna, ad esempio le registrazioni di alcuni operai quando c’è stato un congresso della CGIL di Porto Marghera, per cui uno dei nostri soci aveva avuto questa commissione in qualche modo, le abbiamo registrate assieme e poi lui le ha trascritte.
STEFANO: Va bene Mario, le informazioni generali che mi servivano ci sono. Siamo partiti dalla ricerca archeologica che poi diventa ricerca etnografica o comunque di territorio, il modo me l’hai detto e come le conservate. Poi ti farò avere la tesina, la trascrizione, e anche il file audio.
MARIO: Poi sarebbe bello usarla se faremo un progetto sul nostro lavoro di storia orale. Magari potremmo farlo assieme, quando sarà.
STEFANO: Va bene! Prima di chiudere ti chiedo di nuovo il consenso a poter registrare l’intervista per fare questa tesina.
MARIO: Sì, sì, vai tranquillo perfetto.
STEFANO: Va bene allora alle undici meno dieci concludiamo. Grazie Mario.
MARIO: Sì e ci risentiamo, grazie a te.