di Chiara Paris
Questo articolo fa parte della rubrica “Interviste sull’intervista” per la quale rimandiamo all’introduzione di Francesca Socrate qui.
Io e Luca siamo praticamente coetanei. Abbiamo condiviso un periodo di lavoro a Milano per cui almeno due giorni a settimana eravamo seduti allo stesso tavolo.
Luca impiegava il suo tempo a fare interviste: condurle, selezionare i tagli, montare gran parte dei materiali audiovisivi prodotti per le varie iniziative. Ho scoperto solamente in un secondo momento che viene da un percorso di studi in filologia ed è autore, insieme a Federico Gesualdi e Nicola Nardi, dell’audio documentario Le storie di Pippo, andato in onda su Radio Rai 3 dal 22 al 26 novembre 2021.
L’intervista che segue nasce dalla curiosità di sapere di più su questo progetto dedicato a ricucire una memoria corale dei bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale nel nord Italia. Questo a partire da un ventaglio ampio di punti di osservazione, ossia le voci di 45 anziane e anziani raccolte nelle campagne di Asola (MN) a partire dal passaggio degli aerei bombardieri che le persone chiamavano “Pippo”.
Nel corso delle 3 puntate infatti, oltre alle voci delle intervistate/i, fa da protagonista la presenza dei caccia bombardieri dell’aviazione britannica inviati a perlustrare e bombardare le campagne della neo costituita Repubblica di Salò. Il passaggio dei vari Pippo rappresenta la chiave usata per sbloccare i ricordi legati a quegli ultimi anni di guerra e svela una serie di usi e di immaginari legati a questi strumenti bellici che in parte ne ridisegnano la percezione e il significato.
Partivo quindi dalla semplice curiosità per Le storie di Pippo – che oggi si appresta a diventare anche un percorso laboratoriale nelle scuole – e invece l’intervista a Luca si è rivelata l’occasione per scoprire altri suoi progetti di ricerca su varie forme di marginalità sociale, dalla quotidianità di un gruppo di migranti in una casa occupata padovana a quella di persone senzatetto conosciute a Dublino (da questa ricerca è tratto il libro Dublino dentro).
Parlare con Luca delle motivazioni che lo hanno spinto a mettere il microfono vicino a queste “voci più basse” conferma la sensazione che sia davvero importante confrontare il proprio approccio con quello di chi lavora ugualmente con le storie raccontate e registrate, ma lo fa con finalità diverse da quelle “canoniche” della storia orale. Nel corso dell’intervista si parla anche di questo: cosa significa per noi prendersi cura delle interviste e tentare di restituirle all’esterno?
Personalmente, trovo molto affascinante la capacità di lavorare con la tecnica del montaggio audio. Ho l’impressione che abbia il pregio di far circolare con più “leggerezza” il succo delle storie innescate e registrate. Certo, come sottolinea Luca, se si guadagna in efficacia comunicativa si perde però una ricchezza di sfumature, impossibile da restituire nella loro totalità in un mezzo come il podcast.
Selezionare ed estrarre “perle” dal flusso di una lunga intervista equivale a stralciare tutto il resto, le fasi della trafila che portano al compimento di un’intervista oltre che gran parte del suo contenuto. Ma anche l’ipotesi di pubblicare online integralmente delle interviste, accuratamente “trattate” (indicizzate e/o sbobinate), non assicura una loro larga diffusione e non garantisce che queste acquistino un’utilità pubblica. Nonostante le differenti appartenenze “professionali” alla fine i nostri punti di vista tendono a somigliarsi molto e anzi quasi si invertono rispetto a quello che tradizionalmente si potrebbe pensare: il podcaster più attento alle sfumature e la storica di formazione affascinata dalla forza della divulgazione.
La questione è molto più complessa, tira in ballo scelte di metodo che hanno a che fare con le differenti forme di restituzione, con i pubblici di riferimento a cui ci rivolgiamo e con l’impatto che desideriamo avere. E tutto ciò richiede sicuramente dei tempi di riflessione più distesi di quelli di un’intervista che somiglia molto a una chiacchierata tra amici in un pomeriggio di fine luglio, a Milano, seduti attorno a un tavolino del giardino comunitario dedicato a Lea Garofalo.
Chi siamo
Luca (1990), videomaker e podcaster. Si occupa di produzione, realizzazione e editing di contenuti video e audio. E’ laureato in filologia e da anni si dedica a progetti di ricerca sul tema della marginalità sociale.
Io, Chiara (1992), svolgo un periodo di ricerca per l’Osservatorio su Storia e Memoria della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Mi sono laureata con una tesi di storia orale sull’emigrazione di donne italiane in Canada nel secondo dopoguerra e continuo a lavorare con le fonti orali.
CHIARA: Chissà come sarà la qualità dell’audio, col tram, le macchine, i ragazzi che giocano a basket. Però va beh tanto lo devo ascoltare soltanto io… Allora, ti chiederei proprio molto liberamente di raccontarmi del progetto.
PASSANTE: Avete del tabacco che posso rubarvi?
CHIARA: No, mi dispiace.
LUCA: Questo intervento, bellissimo…
CHIARA: Lo sbobino.
[Ridiamo]
CHIARA: Raccontami liberamente delle storie di Pippo e poi io magari mi intrometto e ti chiedo qualcos’altro.
LUCA: Allora Le storie di Pippo è un progetto multimediale, sostanzialmente, che parte da una ricerca che ho fatto con un mio amico, una ricerca di storia, storia locale dopo la quale abbiamo cominciato a raccogliere testimonianze dirette. 45 testimonianze dirette di persone che ricordavano fatti legati agli aerei che hanno bombardato sopra la pianura padana negli ultimi anni di guerra e da lì poi abbiamo sviluppato tutto un documentario radio e altri progetti laterali. Ad esempio adesso un laboratorio per scuole che è già concluso, pensato per il 2022 e altri progetti di mostre sempre a partire da quella ricerca. Tutte queste cose si muovono un po’ da quello che è stato, diciamo, il punto di partenza, e il punto di partenza è prendere Pippo come se fosse un po’ una chiave d’accesso, un segnalibro nella memoria delle persone, sostanzialmente. Pippo era un evento straordinario, è stato un evento straordinario nella vita di molte persone e noi, andando a fare delle domande su quello, cercavamo di tornare a tutto ciò che stava intorno a quelle vite.
Non ci interessava, naturalmente, raccontare la guerra da un punto di vista storico, preciso dei fatti, ma più la percezione di quel momento e soprattutto il fatto che era un evento straordinario, completamente, perché innanzitutto andavi a intervistare le persone delle campagne e le campagne sono lontane dalla guerra… rispetto a tutte le guerre che c’erano state prima… o ci passa un fronte per di lì, ma se non ci passa un fronte o non ci passa, nel momento di un’invasione, una guerra proprio interamente, la guerra da lì è sempre vissuta in modo… ok c’è una parte di popolazione di quella zona che viene mandata a combattere in un altro luogo però, di fatto, lì la quotidianità si adegua a una situazione diversa ma rimane abbastanza stabile.
CHIARA: [Le campagne] rimangono abbastanza impermeabili…
LUCA: La cosa che secondo me è molto interessante nei Pippo è che un’innovazione tecnologica, per la prima volta, portava la guerra altrove e in modo casuale, cioè, non in modo casuale, portava la guerra altrove e in modo capillare. Questa era un po’ la cosa… oltre il fatto che era un aereo, e le persone del tempo vedevano per la prima volta un aereo volargli sopra la testa, che non è una cosa del tutto irrilevante. C’è quella parte di stupore che poi è tornata tantissimo nel documentario. Questi sono un po’ i punti di partenza e…
CHIARA: Ma come vi è venuta l’idea? ti ricordi proprio il momento in cui avete partorito l’idea?
LUCA: L’idea… la cosa viene dai miei nonni sostanzialmente e… io sono cresciuto proprio in una zona di campagna, in un’azienda agricola dove passava, dove passa la Linea Brescia-Parma.
CHIARA: Come si chiama la zona?
LUCA: Allora il comune è Asola, Cacciabella è il nome della località. E lì passa la Linea Brescia-Parma che è una delle prime linee che sono state fatte in Italia, le prime linee ferroviarie e tra l’altro Brescia era un polo… c’erano le armerie a Brescia, c’era un sacco di industria d’armi, quindi per molte ragioni quella era una linea strategica e importante e quindi è una linea che hanno sempre tentato di bombardare. In particolare tentavano di bombardare un ponte che c’era lì lungo, proprio nei campi che poi sono stati lavorati da mio nonno, che tra l’altro, parentesi, erano campi di Feltrinelli, questa è [un’altra] storia…
CHIARA: No, ma dai! come l’hai scoperto?
LUCA: Cosa? che erano di Feltrinelli? Eh no ma perché Feltrinelli erano proprietari terrieri, cioè loro… l’ho sempre saputo. […] Mio nonno negli anni Sessanta ha coperto le buche che avevano fatto, i crateri che avevano lasciato le bombe. Perché poi in realtà non sono mai riusciti a prendere il ponte. E quindi niente, fin da quando ero bambino mio nonno mi raccontava queste cose, sono sempre stati un po’ i racconti e… allora lì ho detto, «voglio sentire un po’ altri»… Siccome c’è poi una memoria collettiva di tantissime persone e si stava avvicinando anche il momento in cui ormai tante persone che abbiamo intervistato sono mancate. Insomma siamo agli ultimi testimoni e quindi volevamo raccogliere un po’ queste testimonianze anche perché, appunto, nei racconti dei miei nonni era sempre un po’ una questione… cioè non erano mai racconti macabri o cose del genere e non erano mai racconti legati solo alla guerra. Viene fuori un racconto completamente diverso di quelli che sono stati quegli anni, diverso rispetto a quello che magari avevo letto dai libri.
Innanzitutto perché noi siamo andati a chiedere alle persone «chi è Pippo» e nessuno… abbiamo delle risposte diversissime, infatti c’è proprio una parte della prima puntata del documentario in cui c’è gente che dice di tutto. Perché alcuni dicono che erano i tedeschi «perché i tedeschi sono i cattivi quindi erano i tedeschi che bombardavano», però ovviamente era la Repubblica di Salò e i tedeschi non è che bombardavano su di loro, e fino a teorie assurde tipo, «erano piloti neri» – perché c’era l’associazione uomo nero, quindi i cattivi possono essere solo dei piloti neri –, un altro addirittura diceva «le donne, perché le donne sono pestifere quindi sono loro che bombardano»… Robe… leggenda totale. E questo aspetto qua di persone che adesso hanno settanta, ottant’anni e non sanno chi guidava gli aerei che li bombardava! Questa cosa qua è super interessante. E oltre a quello era interessante anche la percezione dell’evento come fatto molto materiale. Perché una cosa che poi si è sviluppata anche durante le interviste è di persone che mi hanno raccontato come guardavano i bombardamenti sulle città, praticamente Asola è in mezzo la pianura padana e intorno ci sono Verona, Mantova, Brescia, Cremona, ci sono un po’ di città, oltre che le Prealpi. Quindi quando bombardavano le persone guardavano dalla finestra come se fossero i fuochi d’artificio, era una cosa anche di intrattenimento. Quindi tutti questi aspetti sono le cose che un po’ volevamo raccogliere oltre che i racconti ufficiali, diciamo, della storia.
A queste cose [se ne aggiungono] anche altre laterali sugli oggetti. Tornando al discorso dell’aereo che non interrompe completamente una quotidianità perché non è una guerra, non so, un’invasione che quindi stravolge completamente la quotidianità di una zona oppure una guerra lontana che quindi “non c’è”, ma l’aereo che ogni tanto passa e ti cambia qualcosina… e gli aerei buttavano delle cose, buttavano i bengala che servivano a illuminare l’atmosfera per capire poi dove andare a colpire, ed erano appunto queste torce che però per cadere piano avevano dei piccoli paracaduta che erano fatti di seta. Quindi ad esempio la seta la usavano per fare le camicie… c’era un signore che ci ha raccontato di una famiglia che aveva fatto l’abito da cresima di una ragazzina con quella seta.
I bossoli dei proiettili li raccoglievano e li rivendevano e… c’era questo signore che ci raccontava quali erano i bossoli, che loro andavano e poi si sono comprati un pallone con quello che avevano ricavato dai bossoli. Oppure li facevano riesplodere prendendo della celluloide, la mettevano dentro e li facevano esplodere. Hanno fatto degli accendini, han’ fatto dei candelabri, facevano di tutto! è bello anche questo che prendevano le cose che cadevano e le riutilizzavano. E’ caduto anche un aereo in zona e un signore ci diceva che era come entrare in una sala da cinema, una cosa… quindi boh c’è quella dimensione, come se arrivassero gli alieni, in un certo senso, e quella dimensione lì è la cosa che secondo me è stata più interessante tra le interviste che abbiamo fatto.
Poi insieme a quello, ovviamente c’è tutta la percezione della guerra dal punto di vista di persone abbastanza al di fuori di tutte le logiche più grandi che hanno mosso poi la guerra effettiva. Persone fragili, persone che dicevano «Io qua l’unica cosa che voglio è che smettano di bombardare, non mi interessa che siano tedeschi, angloamericani, chi arriva, basta che smettano, basta che si possa riprendere a vivere normalmente». E quindi c’era questa dimensione, e insieme a questa dimensione tutte le storie di convivenza tra le truppe tedesche e le persone del posto… le storie legate ai partigiani, le storie legate alle persone che erano fasciste… cioè che erano fasciste e che dopo la guerra ne hanno pagato le conseguenze, in alcuni casi, non in tutti ovviamente.
Tutte queste storie che alla fine diventa un po’ il paesello su cui sovrapponi la “grande storia” e vedi cosa succede in realtà nel piccolo… che poi sono cose che riguardano più le storie personali… Donne che son’ state rasate e a cui veniva messo il catrame perché non gli ricrescessero più i capelli, semplicemente perché erano state amanti dei tedeschi. E insieme a quello anche varie situazioni ovviamente poco chiare di persone che comunque hanno un po’ vissuto quel momento in modo furbo e adeguandosi a quelli che erano…
CHIARA: Quindi voi partivate da Pippo però poi chiaramente il discorso tendeva un po’ a slabbrarsi, ad allargarsi?
LUCA: Sì sì.
CHIARA: E avete mai pensato che queste interviste potrebbero essere poi valorizzate anche in un senso proprio archivistico, rese pubbliche nella loro interezza? Perché comunque mi sembra di capire che avete raccolto delle testimonianze che parlano della vita materiale di quel paese in un periodo che è particolare…
LUCA: Sì, avevamo pensato a questa cosa inizialmente, che poi va sviluppata a un certo grado di complessità per cui implica tanto lavoro e anche risorse. Una delle idee iniziali insieme al documentario era anche quella di progettare un archivio online, però un archivio sistematizzato. Infatti abbiamo indicizzato tutte le parti di intervista per temi e l’idea sarebbe quella anche di organizzarle in un archivio in cui queste parti…non so, ad esempio, se cerchi il tema cibo, “quello che si mangiava a quel tempo”, riesci ad accedere direttamente a quell’argomento.
E’ una cosa però che è complessa a livello di lavoro, siamo partiti un po’ più schisci sulle cose, più semplici, e poi sarebbe bello rendere questo progetto anche espandibile, cioè creare un frame in cui possono essere inserite altre cose. Vediamo, speriamo che si riesca a fare. Poi tra un po’ non sarà più troppo espandibile, gli anni sono quelli.
CHIARA: Allora vorrei chiederti tantissime cose però parto da una più personale, tua. Se non ricordo male hai studiato filologia… pensi che il tuo percorso particolare di studio, che non ha molto a che fare con il costruire documentari, raccogliere testimonianze, pensi che ti abbia dato delle chiavi di lettura particolari… che tu hai potuto utilizzare, nel selezionare le parti che poi hai valorizzato nel documentario? Non so forse è una domanda caotica…
LUCA: Sì sì, lo studio in filologia un po’, la cosa diciamo che aiuta nello studio della filologia è un po’ di rigore che ci vuole soprattutto nel momento in cui poi vai in terreni che non sono sempre… che non sono terreni facili, per dirla… sono terreni friabili, sono terreni con delle loro forme e delle loro caratteristiche. Tu sai, nel momento in cui vai a intervistare una persona, che quella persona ti sta parlando di un suo ricordo e a volte addirittura magari di un ricordo che è frutto di un insieme di cose… quindi da quel punto di vista il lavoro della filologia è di prendere varie fonti, alla fine, e di capire, cercare incroci, quello sì. Poi di fatto il documentario non è sulla ricostruzione di quello che è successo ma è più sulla ricostruzione di come vivono quello che è successo le persone. Anche come lo vivono adesso! nel senso, è anche interessante, secondo me, sapere che alcune persone non hanno ancora capito chi li ha bombardati, e non è importante sapere che sono stati gli angloamericani è più interessante sentire che c’è questa, appunto, questa esplosione di punti di vista intorno alla stessa cosa e quindi quello sì. Poi ovviamente aiuta il fatto di aver fatto degli studi [in filologia], comunque in filologia si studia anche tanta storia, e aiuta il fatto di avere dei riferimenti. Poi sì, in realtà, ad esempio, nel documentario eravamo partiti da una cosa di 5 puntate che era molto più filologica, molto più precisa e invece siamo andati verso una cosa di tre puntate che è meno filologica, cioè nel senso che magari mescola un po’ di più le storie e però ha il vantaggio di essere un pochino più… di arrivare un pochino più velocemente perché ovviamente alcune storie hanno uno sviluppo lungo, ci sta, sono molto interessanti però ogni mezzo ha il suo linguaggio, ha i suoi tempi, ha il suo… però magari si perdono alcune sfumature.
CHIARA: Ma infatti questa è la cosa, dal mio punto di vista, veramente affascinante del montaggio video, dell’audio, il fatto di poter restituire in maniera efficace una serie di cose che sono dentro un flusso narrativo più complesso, più ricco di sfumature e che tu attraverso un montaggio riesci a rendere più immediatamente. E’ molto affascinante, è chiaro che la fonte orale è un materiale complicato, nel senso, restituirlo integralmente significa a volte restituire un discorso caotico che si perde, che manca di efficacia…
LUCA: No ma infatti lo sforzo di comunicazione secondo me… a me piace moltissimo la parte di materiali d’archivio eccetera eccetera e la cosa che mi fa rabbia a volte è il fatto che questi materiali siano tenuti un po’ sotto chiave, anche per ovvie ragioni no, però sono materiali che è auspicabile che siano rimessi in circolo e per essere rimessi in circolo vanno fatti degli sforzi di comunicazione che sono legati a delle professionalità. La capacità di costruire una narrazione, un arco narrativo a partire da alcuni elementi per cui riesci a comunicare una determinata cosa. E’ per quello che c’è una mole di lavoro anche grossissima nell’organizzare poi un archivio online perché non è abbastanza caricare le cose online, non serve a nulla. Cioè è veramente una cosa… significa sprecarle totalmente, bisogna costruire un sistema per cui quelle cose ritrovino la potenza che hanno. E’ comunque un lavoro di… Tu vai intervisti una persona e raccogli un audio e stai già impoverendo tantissimo, stai perdendo tutto quello che quella persona ti sta dicendo con il contesto, come si muove… tutta una serie di cose la stai perdendo. Se non ricostruisci almeno una parte di quelle cose, tu quello che hai raccolto… è una cosa da buttare via, va fatto questo sforzo di re-inserire quella cosa in un contesto vivo perché sennò la cosa è una roba, un prodotto morto, una conchiglia di quello che ti ha detto e basta.
CHIARA: Capisco molto bene quello che dici, sto lavorando su un archivio di testimonianze a partigiani e testimoni della guerra in due paesi della provincia di Modena, e sono interviste, una cinquantina, raccolte nei primi anni duemila. Io chiaramente non c’entro nulla e arrivo in un secondo tempo e devo “trattarle”, quindi ascoltarle, indicizzarle, descriverle… E’ complesso perché appunto mi manca tutta quella parte lì dell’esperienza sul campo, diretta, che ti permette proprio di raccogliere un bagaglio di informazioni molto più ricco e preciso.
[25:42]
LUCA: Sì sì, poi qua c’è la parte di immaginazione che fa la persona, che poi ha a che fare con questi materiali e secondo me è molto… l’immaginazione nel senso di prendere parte di queste cose e riuscire a… alla fine è un servizio, tu prendi questi materiali che ovviamente non hai raccolto tu quindi… però fai un lavoro per cui quelle cose poi diventano digeribili per altri, in questo senso è un servizio. Auspico più sponde più complici da parte degli archivi, quando si tratta di utilizzare materiali che, secondo me, è bene che siano ravvivati. Ci sono alcune occasioni, sarebbe bello ce ne fossero di più così da dare sempre più spazio a progetti indipendenti che richiedono licenze di utilizzo. Capisco le difficoltà amministrative, e i carichi di lavoro ecc ecc di chi si deve occupare di quello e di molte altre cose in un archivio, tuttavia secondo me il lavoro di conservazione del materiale è indissolubilmente legato al suo riuso e quindi alla sua attualizzazione e ricircolazione.
[Stiamo in silenzio]
CHIARA: E il tuo amico [il coautore Nicola Nardi] che percorso ha fatto, chi è?
LUCA: Il mio amico è un amico di infanzia innanzitutto [ride] – è bello che abbiamo lavorato insieme – che non c’entra molto con tutto questo, cioè nel senso che fa l’avvocato adesso. Quando abbiamo cominciato no, e lui però si occupa di storia locale, ha sempre tenuto questo blog di storia locale e quindi aveva trattato alcuni temi che poi sono diventati parte del documentario. E sì, praticamente più che una collaborazione professionale è una collaborazione tra amici che vanno a fare delle interviste in giro. Anche perché poi il territorio è quello, nel senso, alla fine è diventato molto un [intervistiamo] “gli amici dei nonni” così… anche se la cosa a un certo punto è esplosa perché poi ci hanno fatto degli articoli sui quotidiani quindi da lì in poi abbiamo avuto tantissime richieste di intervista che però abbiamo fatto… le interviste le abbiamo dovute fare in venti giorni, forse anche meno, c’era di mezzo natale, capodanno, e quindi ne abbiamo fatte tantissime in pochi giorni anche perché poi ne facevamo tre al giorno… poi ogni persona richiede un tempo lungo.
CHIARA: Infatti, di media quanto sono lunghe?
LUCA: Eh dipende, però una media sui 25 minuti, perché alcune vanno sui 45-50. Poi in realtà la cosa bellissima di fare questo tipo di lavori è tutta la parte… tantissime volte le cose escono dopo, però non è che sono perse quelle cose lì, no perché ci sono delle cose che magari vengono dette alla fine, nel salutarsi così che tu dici «cazzo però me lo potevi dire quando c’avevo il registratore acceso», e poi dopo allo stesso tempo capisci che quella sarà la domanda che fai per il resto delle interviste. E quindi poi quella cosa lì tira fuori…
In questo senso, la cosa che mi è piaciuta molto è che quando io e Nicola andavamo a fare le interviste stavamo in qualche modo… eravamo come un filo che ricuciva una memoria collettiva e che neanche ricuciva perché era come se si creasse in quel momento quella memoria collettiva, perché le cose esistono nel momento in cui… e non so, c’era quello che magari diceva «ah mi ricordo alla Rosetta quando hanno sparato» – [la Rosetta] è un posto occupato dalle truppe tedesche che nel momento poi della liberazione è stato uno dei crocevia più sanguinosi –, però anche lì, uno magari ci diceva una cosa e poi noi andavamo a chiedere a quello dopo e man mano si ricostruiva.
Invece soprattutto la parte degli spettacoli di luce, quella parte lì… praticamente io sono andato a intervistare Piavoli – prendendo anche il documentario come scusa, perché io con Piavoli ci avrei voluto parlare lo stesso – però Piavoli che è un regista, un documentarista, un fenomeno, un maestro, degli anni Trenta, del ’33 se non sbaglio, di Pozzolengo, che è vicino, in zona, tra la Pianura Padana e il Lago di Garda, sulle colline moreniche che sono un po’ la cerniera tra le Alpi e la Pianura Padana e ad esempio lui, quando ho cominciato a pensare alle persone che avrei voluto intervistare su questo, visto che è del ’33, ho detto, «beh devo assolutamente andare a intervistarlo». E lui da regista – che poi ha fatto, non so se ti capita, vai a vedere Il pianeta Azzurro è una cosa spaziale – e niente, lui che dice «per me quelli erano spettacoli di luce, vedere gli aerei che bombardano erano spettacoli di luce», cosa che mi ha detto a fine intervista, non l’avevo registrata così… però da lì in poi io sono andato a chiedere alle persone questa cosa e lì è uscito, «ah ma sì andavamo a vedere».
Anche perché poi vai anche a intervistare persone che non è che sono abituate a essere intervistate e a tirar fuori i temi che poi possono essere rilevanti o pensano che siano rilevanti. Vai lì, gli fai delle domande, ti rispondono un po’ anche in imbarazzo, c’è anche un discorso di imbarazzo. I miei nonni ad esempio non riuscivano a parlare. Alla fine sono quelli da cui è partita l’esigenza di andare a fare delle interviste e poi quando ho acceso il microfono non riuscivano più a dire niente. Non c’è poi, è anche la cosa bella di andare a intervistare persone, che sono un po’… non sono abituate a parlare.
CHIARA: E’ forte questa cosa di ricevere un input nel corso di una ricerca e poi rimetterlo a servizio della ricerca. Vedi tu magari hai trovato questa espressione che ti è risultata particolare e hai pensato adesso la ripropongo a qualcuno e vediamo se genera qualche scintilla e sblocca un pezzo di narrazione.
LUCA: Sì secondo me è la parte di professionalità legata al fatto di prendere delle cose in mano da un archivio e riuscire a… è un po’ lo stesso discorso… tu hai degli elementi in mano e devi trovare il modo in cui diffonderli. Poi ovviamente, degli elementi di archivio ormai li hai in mano e sono così, però magari se è una ricerca in fieri hai quel modo lì di… è tutta la differenza che passa tra le cose caricate su internet a mucchio che si vanno a vedere tra i nerd e invece il costruire una narrazione che aiuta a diffondere. Che poi, alla fine del fatto, o lo fai per una cosa del genere o sennò non lo fai.
Infatti anche adesso il laboratorio nelle scuole che abbiamo scritto – stavolta l’ho scritto invece che con Nicola con un’altra amica – si occupa un po’ più di queste cose e un po’ per la stessa ragione: bisogna mettere in contatto le persone anziane con le persone giovani cioè, detta proprio alla grossa. E anche parte delle storie di Pippo è dovuta a questo voler restituire uno spazio di voce a delle generazioni che non ce l’hanno più, a cui è stato tolto, perché in qualche modo, in una certa narrazione del mondo, sono obsoleti, cioè in una delle narrazioni del mondo sono obsoleti. E che però hanno visto un modo completamente diverso quindi per me parlare con mio nonno è un pochino come parlare con gli alieni, come parlare con qualcuno che ha visto delle cose che per me sono proprio… e poi non so, è anche un modo di salvare delle parole, delle cose che comunque aiutano a descrivere quello che hai intorno e quindi anche te stesso. Poi inevitabilmente c’è una parte che si perde e per fortuna… però va beh se c’è uno sguardo un po’ più complesso e se si riesce anche a comunicare con quella parte visto che sono persone viventi, e poi soprattutto persone con cui condividiamo uno spazio sociale, cioè che votano come noi, che stanno in un contesto sociale. Più le parti di questo contesto sono in contatto e meglio è, secondo me. E quindi anche il laboratorio a scuola ha un po’ questo scopo.
CHIARA: Dell’intergenerazionale…
LUCA: E infatti ho detto che è un laboratorio per le scuole ma è un laboratorio pensato per scuole e RSA o centri per anziani. Si fa in due, con due tipi di utenti perché il senso è quello, non è portiamo i ragazzi… dare voce a certe persone è un beneficio anche per le persone stesse. Alcuni hanno bisogno anche di parlare e di riprendersi un po’ quello spazio che è giusto che abbiano, magari perché hanno voci più basse, più deboli e sono sovrastate da altre voci e invece è giusto andare a mettere un microfono vicino a queste persone che altrimenti nessuno ascolta. E poi sì, se non si parlano proprio la vedetta più lontana verso il futuro, che sono i giovani, e la vedetta più lontana verso il passato, che sono i vecchi, chi cazzo si deve parlare. E’ veramente una cosa che può essere utile, non lo so…
[…]
CHIARA: Tu avevi già fatto interviste o è stata quella la prima occasione per sperimentare?
LUCA: No no, avevo già fatto interviste, da tantissimo. Non so, le prime interviste le facevo a caso, nel senso che scrivevo per delle riviste casuali, così, locali, e quindi facevo delle interviste, però era sempre uno strumento poi per conoscere persone, situazioni. Non so… è proprio una forma che mi piace di relazione col mondo, in generale, l’intervista.
Poi sì ho fatto altri lavori un po’ più strutturati che non c’entrano apparentemente niente però c’entrano abbastanza sempre per il discorso di comunicazione tra parti sociali, diciamo. Il primo è stata una cosa disastrosa [ride], è stato molto bello e ho imparato tanto… praticamente c’è una casa occupata a Padova, si chiama casa Don Gallo, si chiamava, che è una casa occupata da cento, più o meno, persone di origine africana che erano uscite da quelli che sono i sistemi di protezione, asilo e accoglienza in Italia. Servizi che comunque durano tre o cinque anni e dopo di quello rimani con un foglio di via in mano, l’invito ad andartene e poi di fatto sappiamo tutti come va a finire. E la cosa più grave è che comunque quelle persone rimangono un po’ come i banditi del medioevo e della storia moderna… gli scomunicati, cioè non hai più diritti, di fatto non sei più una persona giuridica quindi se quella persona viene ammazzata chi se ne accorge, un po’ il concetto è quello. E quindi quella cosa lì un po’ mi aveva… e allora avevo cominciato a fare interviste…
CHIARA: Proprio a loro che vivevano nella casa?
LUCA: Sì solo ero andato molto di cuore e poco di testa e tipo la mia grande programmazione per fare questa cosa era «va bene compro una fotocamera che fa i video» [ride], questo il massimo pensiero produttivo che potessi avere. Ho preso una telecamera che faceva i video, sono andato e… a parte che è stato un percorso in realtà abbastanza lungo perché c’è anche tutto un pregresso… nel senso che alcuni giornalisti televisivi avevano già distrutto lì, perché c’era quella cosa lì di andare, prendere delle storie e scappare, soprattutto perché in quella casa a un certo punto era morto, c’era stato un omicidio e nel frattempo c’era Bitonci che stava salendo a Padova – che è il sindaco leghista – quindi questa cosa è stata molto cavalcata anche mediaticamente e comunque i giornalisti in generale lì sono andati spesso “a rubare” quindi era difficile, impensabile andare lì e accendere la videocamera.
Quindi è stata una roba di un anno per cui io andavo lì e ho conosciuto le persone, dopo un anno ho fatto le interviste e ho scoperto come ragionano i microfoni… perché i microfoni funzionano in modo da sentire tutto uguale, giustamente, perché non hanno un cervello che gli dice di selezionare. Il cervello umano seleziona il range di frequenze della voce e abbassa tutto il resto, infatti se chiudi gli occhi senti molto di più no? E quindi ho buttato via un sacco di roba, però ci stava, lì era più… è stato giusto così, ed è stata la ragione per cui poi ho deciso di… poi in realtà nel mezzo ho fatto una cosa più strutturata con dei senzatetto a Dublino perché poi ho abitato a Dublino un anno e ho lavorato con i senza tetto. Invece questa per fortuna è arrivata un po’ più conclusa e però anche lì è stata una cosa dove giravo con un registratore così, a far le interviste, però sapendolo. Non volevo fare una cosa multimediale e infatti è diventata una cosa scritta, un libro che poi è uscito penso nel 2019.
CHIARA: E perché vivevi a Dublino? Curiosità.
LUCA: Era un periodo di viaggi appunto in cui lavoravo d’estate e viaggiavo d’inverno sostanzialmente, abbastanza trascinato da quello che leggevo [ride]. Avevo letto Il popolo dell’abisso di Jack London che praticamente parla di un viaggio di London nell’East End di Londra nel 1902 e quindi va beh ho deciso «vado a Dublino»… cioè avevo trovato un’offerta per lavorare con i senzatetto e ho detto «vado a Dublino». Poi tra l’altro avevo appena fatto questa cosa, il lavoro lì alla casa Don Gallo, e ovviamente quando fai ‘ste cose devi studiare tutte le robe, quindi mi ero fatto anche dei corsi casuali sui meccanismi di accoglienza, ‘ste cose qua no, per capire… ho fatto un tirocinio al centro Astalli di Trento per capire, perché ovviamente devi un po’… poi quelle cose lì sono tornate utili per lavorare nel sociale in Irlanda a caso, totalmente imprevisto, quindi ho lavorato un anno nel sociale lì e alla fine di quell’anno poi ho deciso di fare un po’ una cosa simile a quello che… con alcune differenze sostanziali, a quello che era Il popolo dell’abisso. Differenze sostanziali perché nel suo libro Jack London si traveste da senzatetto e va a fare il senzatetto. Non l’ho fatto travestito, però ho passato una settimana stando con loro, praticamente, però insomma c’è anche un discorso di coscienza del proprio… della propria posizione sociale nel mondo… nel senso, travestirmi non fa parte del mio, per gioco sì [ride] ma travestirmi da senzatetto non lo farei. Per gioco mi travestirei da tutto ma…
CHIARA: E tu in quell’occasione registravi e basta?
LUCA: Partiva già come una roba finanziata da un bando. Dopo un anno che ero lì praticamente partecipo a questo bando, anche in modo un po’ casuale, che era promosso da Internazionale e da Fuori Rotta, sostenuto da Internazionale e da Andrea Segre, e niente, praticamente finanziavano viaggi e reportage, roba del genere, quindi l’ho fatto in quel contesto e all’inizio non era… non doveva essere per forza un libro, avrei dovuto raccogliere il materiale. E il materiale che avevo raccolto erano delle interviste, interviste che poi ho usato insieme a delle fotografie che avevo fatto io. Praticamente quando ho fatto questa settimana sono partito, sono stato in realtà una settimana a Dublino, cioè una settimana praticamente dove stavo già però stando con tutte altre logiche. La stessa città di sempre però senza… diciamo, metti una x sulla casa e devi stare fuori e devi stare fuori con le persone… e come cambia anche il fatto di vivere la strada così e quindi sostanzialmente il kit era un registratore vocale e due fotocamere usa e getta. Poi a fine viaggio con la fotocamera digitale sono andato a fare altre foto che erano più, diciamo, cose che avevo maturato quella settimana, modi di vedere la città che avevo elaborato in quella settimana. Praticamente avevo organizzato questa cosa per cui ogni giorno avevo un senzatetto che mi portava in giro, guida turistica. Il patto era: sto con loro tutto il giorno, giorno e notte, faccio quello che fanno loro. Questo è, perché quello è l’unico modo per… nel senso per me è una questione di mettersi in un tempo e in uno spazio. E quello era quindi l’altro percorso di interviste un po’ più strutturato, prima delle storie di Pippo.
E poi in generale, boh, mi piace un sacco fare le interviste, vorrei fare sempre le interviste e invece me le fan’ fare su Zoom e me le fanno odiare, tra l’altro.
[Ridiamo]
Infatti quando ho fatto il colloquio e Giovanni [un collega] mi ha detto «devi fare le interviste», ho pensato «bellissimo!», poi arrivo qua, ti connetti a Zoom, schiacci REC… spero si possa tornare presto a farle in presenza perché si perde molto del contesto e dell’opportunità di viaggio e scoperta che è ciascuna intervista. Che è anche spostarsi, conoscersi, parlare d’altro…