di Anastasia Barone
L’altra rivoluzione. Dal Sessantotto al femminismo (Rosenberg&Sellier, 2021) di Elisa Bellè ricostruisce la nascita e i percorsi del femminismo degli anni Settanta a Trento, intrecciando la ricerca d’archivio con la memoria delle protagoniste e restituendo così una vicenda rimasta sinora «in un cono d’ombra storiografica pressoché totale» (p. 15). Ricercatrice presso il Centre d’Etudes Européennes di Science Po a Parigi, l’autrice si muove in questo saggio tra la sociologia dei movimenti sociali e la storia delle donne, tra la sociologia organizzativa e lo studio della memoria collettiva, in una lettura interdisciplinare che rende la ricerca particolarmente interessante.
Il lavoro di Bellè, innanzitutto, sposta lo sguardo dai grandi centri cittadini a una città «piccola e periferica», che tuttavia ha rappresentato un luogo cruciale per l’elaborazione e la sperimentazione femminista (e non solo) tra gli anni Sessanta e Settanta.
È proprio a Trento che si forma, nel 1969, uno dei primi collettivi femministi in Italia, Il Cerchio Spezzato, la cui riflessione e sperimentazione avrà un’influenza particolarmente importante sul movimento nel resto del paese. È questo, infatti, uno dei primi gruppi in Italia a praticare l’autocoscienza (o presa di coscienza, come preferiscono chiamarla alcune delle intervistate nel libro, ricalcando in modo più letterale l’espressione consciousness raising in uso negli Stati Uniti e sottolineando la natura processuale e dinamica della pratica). Come sottolinea Bellè, questo primo collettivo presenta un carattere «del tutto sperimentale, pionieristico» (p.111) che tuttavia contribuirà in vario modo a delineare i contorni della prima elaborazione di un soggetto politico femminista.
La ricostruzione storica che questo libro ci offre, quindi, contribuisce a rendere un po’ più distanti i tempi in cui Anna Rossi Doria riferiva di un vero e proprio «vuoto storiografico» relativo al femminismo degli anni Settanta. Il lavoro di Bellè, però, non si limita ad aggiungere un tassello a un quadro già definito; al contrario, scompaginando le geografie prestabilite, le periodizzazioni standardizzate, le temporalità lineari del racconto storico, l’autrice ci consegna la storia del femminismo in una “periferia” che si presenta come centro, talvolta addirittura avanguardia, e che per molti aspetti anticipa e precede l’esplosione del movimento nel resto del paese. E tuttavia, forse proprio perché imbrigliata in questo suo carattere anticipatore, forse perché rimasta relegata a storia di provincia e forse perché oscurata, come del resto accade anche su scala nazionale, dalla memoria del Sessantotto, la memoria del femminismo trentino è rimasta completamente sottotraccia. Nel riportarla in superficie, Bellè affronta alcune problematiche cruciali dello studio della memoria dei movimenti sociali. A differenza del Sessantotto italiano, raccontato dai protagonisti, ricostruito attraverso le immagini delle grandi manifestazioni, ereditato, nel bene e nel male, tramite film e ritornelli di canzoni, poche sono le tracce scritte lasciate dal movimento femminista e lacunosi i materiali d’archivio: reticente a raccontarsi, incline a non definirsi, restio a firmare documenti, così poco “spettacolare”, il movimento femminista prediligeva la presa di parola e il racconto di sé sfuggendo in questo modo alle griglie selettive della memoria pubblica e culturale. Ancor più complessa e radicata la titubanza con cui spesso ci si è chieste se fosse davvero possibile (o giusto?) ricostruire e restituire un racconto, unitario o plurale che fosse, dell’esperienza femminista.
La rottura della dicotomia pubblico-privato, cifra prima del femminismo, rende inoltre necessario a chi intenda compiere una ricostruzione storica il concentrarsi su pratiche poco visibili, intime, su esperienze difficili da raccontare, e certamente non racchiudibili in una memoria museificata. Ed è per questo che in larga parte soltanto le parole delle protagoniste, soltanto i loro ricordi, possono dare corpo alla memoria, restituire non soltanto la viva voce dell’esperienza ma l’interpretazione che ad essa danno coloro che l’hanno vissuta, a distanza di molto tempo, ricomponendo i fili del passato e del presente. Se i materiali d’archivio inediti che l’autrice condivide in questo lavoro rappresentano una straordinaria ricchezza per l’approfondimento storico, consegnando un’immagine in presa diretta dell’elaborazione politica delle femministe all’epoca, è dalle parole delle intervistate che emerge il ricordo incarnato. La ricerca di Bellè, infatti, si avvale di 40 interviste, di cui 10 a testimoni privilegiati delle vicende politiche del tempo e 30 a protagoniste dei collettivi trentini.
L’uso delle fonti orali, lungi dal presentarsi quale semplice complemento alle fonti documentarie, rappresenta in questo lavoro una scelta di metodo che permette di far emergere tanto le voci quanto i silenzi delle protagoniste, mostrando la soggettività nel suo farsi. Ricordare è infatti sempre un gesto di ricamo, una trama che si intesse, guardandosi da lontano, ricostruendosi di nuovo. Nel raccontare il proprio passato, le femministe intervistate dall’autrice ricostruiscono percorsi non lineari, che talvolta portano a guardare con distanza un tempo ormai lontano, con nostalgia un movimento che spesso ha coinciso con la propria gioventù, ma che altre volte conducono a riconoscere una passione mai sopita, a rivendicare una rivoluzione femminista personale iniziata prima dell’esplosione del movimento e certamente non finita con il suo (temporaneo) defluire. È questa una delle ragioni che rendono ulteriormente apprezzabile il lavoro di Bellè, capace di far emergere dalle pieghe dei ricordi delle protagoniste, dai silenzi e dalle espressioni di disagio, dall’oblio e dai ricordi sfumati, una storia viva che ancora si (e ci) muove. Non a caso, l’autrice abita un campo che conosce: Trento è la sua città, la memoria del femminismo le appartiene, da nipote e da figlia, oltre che da ricercatrice. I fili della memoria si annodano nei corpi e si sciolgono e dipanano nell’incontro con le protagoniste dell’epoca. Se il femminismo nasce nelle case in cui le donne si incontrano per discutere, la memoria del femminismo vive nelle conversazioni in cui ci si racconta e ci si confronta su un passato comune, vissuto o ereditato che sia. Così, più che di fonti verrebbe da parlare di veri e propri incontri: non soltanto le intervistate nel raccontarsi dialogano con l’autrice, ma molto spesso gli stralci che quest’ultima riporta sono frutto di vere e proprie conversazioni a più voci, in cui le protagoniste (ri)costruiscono insieme una storia sia personale che plurale di ciò che insieme hanno vissuto.
Elisa Bellè sceglie di indagare il femminismo a Trento in una prospettiva relazionale, privilegiando l’attenzione ai nessi, alle connessioni, alla circolazione. Così Trento rappresenta tanto lo scenario di una storia locale, che merita di essere ricostruita e raccontata, quanto il nodo di una rete, nazionale e globale, che prende forma nello sguardo delle femministe trentine rivolto agli Stati Uniti, così come nei rapporti tra queste e gli altri movimenti. La ricerca che il libro presenta mette in luce connessioni, dialoghi, conflitti, sovrapposizioni, risonanze e diffrazioni che caratterizzano il legame tra femminismo e Sessantotto, tra femminismo e nuova sinistra. Se il racconto del Sessantotto in Italia è stato principalmente incarnato dal “maschile universale”, lasciando così in secondo piano l’esperienza delle donne (p. 16), il femminismo, che ha fatto del separatismo il suo gesto di rottura più radicale, ha avuto la tendenza a raccontarsi come isolato, situandosi volutamente a risolutamente fuori dalla polis e dalla politica. In questo racconto, come ricorda anche Lea Melandri (La protesta estrema del femminismo in Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Bertilotti e Scattigno, p. 81), la necessità di sottolineare il carattere originale del femminismo, e di indicarne l’autonomia, ha spesso fatto scivolare in secondo piano il contesto circostante e le esperienze che si sono mosse a cavallo tra il femminismo e altri movimenti, quelle esperienze “spurie” che hanno visto mescolarsi il dentro e il fuori del femminismo. Tra queste ci sono le biografie stesse di coloro che hanno vissuto il movimento attraverso la posizione scomoda e di crinale della doppia militanza, quelle che, dice Bellè, «forse più di tutte hanno sperimentato l’arte difficile dello stare sul confine» (p.17).
È sempre l’attenzione dell’autrice al femminismo come trama di reti e connessioni che ci restituisce in modo chiaro e intenso un aspetto realmente taciuto del movimento femminista italiano degli anni Settanta, ovvero la potente circolazione di idee e persone sul territorio nazionale, il movimento che viaggia per tutta Italia attraverso le biografie delle femministe stesse. È così che uno dei principali collettivi femministi romani, il Pompeo Magno, prende una luce diversa nel racconto di Bellè, come punto d’approdo di femministe passate dai collettivi trentini, che trasferitesi a Roma, riportano qui un’esperienza elaborata altrove.
Ancora, nel guardare a quelle esperienze situate sul confine tra il dentro e il fuori del femminismo, ci sono le esperienze sviluppatesi nell’ambito della salute, in cui i confini tra il piccolo gruppo e “le altre” sfumano, in cui alla ricerca di sé si unisce l’intervento sociale, vissuto come pratica di sperimentazione radicale di un modo diverso di intendere la salute e il corpo. Ed è in particolare sul terreno della salute che emergono, come Bellè ricorda, le contraddizioni più significative del rapporto tra movimenti e istituzioni. Non soltanto le leggi (quella sui consultori e quella sull’aborto), frutto di compromessi tra parti politiche, lasciano spesso l’amaro in bocca quando non provocano radicale delusione, ma la loro stessa applicazione richiede lo strenuo sforzo delle femministe stesse, che pur guardano a quelle leggi con diffidenza. Così, sottolinea l’autrice, l’istituzionalizzazione di istanze femministe produce un perverso meccanismo che costringe il movimento a monitorare e difendere, a far applicare e implementare, leggi promosse “sopra le teste” delle femministe.
Una nota conclusiva, e in parte personale. Penso che il lavoro di Elisa Bellè, come altri emersi recentemente, mostri una tensione significativa delle cosiddette “nuove generazioni” a ricercare nel passato del femminismo, a sviluppare connessioni attraverso distanze apparentemente incolmabili. Questa tensione dovrebbe far riflettere sulla presunta assenza di memoria del passato nelle nuove generazioni di femministe. Il lavoro di Bellè, insieme ad altri, testimonia al contrario di un grande interesse, storico e di memoria, di un modo attivo di riflettere su continuità e discontinuità, di situarsi in un rapporto incarnato nei confronti di un passato che ci riguarda. Si tratta di uno sforzo tanto più apprezzabile per l’onestà con cui si presenta: «contraddittoriamente mosso dalla nostalgia per un passato che non ho vissuto – senz’altro uno dei sentimenti che spinge a scavare nella storia – ma che rifugge con determinazione ogni passatismo imbalsamatorio» (p. 20).
Elisa Bellè, L’altra rivoluzione. Dal Sessantotto al femminismo, Rosenberg&Sellier 2021, Torino, pp. 228, euro 16
Anastasia Barone, nata a Trieste, laureata in Filosofia all’Università di Pisa, ha conseguito la laurea magistrale presso l’Université de Toulouse II Jean Jaurès e ha frequentato il Master in Studi e Politiche di Genere presso l’Università di Roma 3. Attualmente è dottoranda a Firenze presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali della Scuola Normale Superiore e fa parte del Centro di Ricerca sui Movimenti Sociali – Cosmos, dove conduce un progetto di ricerca dedicato alle pratiche di salute nei movimenti femministi in Italia tra passato e presente.