Di Maria Laura Longo, Caterina Mongardini e Francesca Nardi
a cura di Enrico Ruffino
Questo testo nasce dalla collaborazione e dalla condivisione di idee tra Maria Laura Longo, Caterina Mongardini e Francesca Nardi in merito alla 1a scuola di Storia Orale e Public History nel paesaggio metropolitano di Roma svoltasi nell’ex borgata romana di Tor Marancia tra il 18 e il 20 giugno 2022. La Scuola è nata dalla collaborazione tra AISO, l’Associazione Parco della Torre, il Circolo Gianni Bosio e l’ASP S. Alessio – Margherita di Savoia, con il patrocinio del Municipio VIII. Questo report, curato da Enrico Ruffino, è stato scritto da tre socie AISO con percorsi biografici, formativi e professionali differenti. Laura Longo, campana di nascita e sarda di residenza, è una storica oralista, pratica della disciplina e profonda conoscitrice delle nostre scuole. Si è occupata di ragionare sulla prima giornata. Caterina Mongardini, romana di nascita e residenza, è anch’essa una storica che ha praticato e continua a praticare la storia orale, è socia AISO ma è altresì alla sua prima esperienza all’interno di una scuola AISO. Nel corso della scuola, Caterina si è sentita particolarmente stimolata nella riflessione su alcuni problemi del rapporto tra public history e storia orale. Ha pertanto riflettuto sulle discussioni emerse nel corso della seconda giornata. Francesca Nardi, spoletina, non è una storica ma un’italianista, si occupa infatti di eco-critica ed era anche lei alla sua prima esperienza in una scuola. Sin da subito Francesca ha mostrato un certo interesse e una certa vivacità intellettuale nei confronti dei temi e dei problemi della storia orale. Le conclusioni di questo report sono sue. Enrico Ruffino ha curato il report facendo da trait d’union tra i tre testi, uniformandoli e dandogli continuità tramite i “fuori campo” in corsivo. Un particolare ringraziamento va invece a Roberto Labanti, tesoriere AISO, che nei giorni della scuola è stato una preziosa guida, una memoria storica e un grande consigliere della nostra associazione. Roberto ha contribuito a questo testo non solo revisionandolo ma anche stimolando alcune problematiche emerse nelle nostre riflessioni. Pubblichiamo infine un esergo con una poesia. Qualche giorno dopo la chiusura della scuola Patrizia Cavalli ci ha lasciati. Abbiamo visto come le sue poesie fossero rimesse febbrilmente in circolo nello spazio pubblico. Ci è sembrata una rappresentazione icastica del funzionamento della memoria: quel tapis roulant che ogni tanto, se stimolato dagli eventi, rimette in circolo nel discorso pubblico le memorie per poi farle scomparire dietro i nastri. Ma è anche un doveroso tributo alla poetessa scomparsa.
Questa sfusa felicità che assale
le facce al sole,
i gomiti e le giacche
– quante dolcezze
sparse nel mercato,
come son belli
gli uomini e le donne!
E vado dietro all’uno
e guardo l’altra,
sento il profumo
inseguo la sua traccia,
raggiungo il troppo
ma il troppo non mi abbraccia.
Patrizia Cavalli
***
Nei giorni amari della sua scomparsa, tornano qui i versi di Patrizia Cavalli per dare un sentore di quel che è stata la 1a Scuola di storia orale e Public History (d’ora in poi PH) nel paesaggio metropolitano di Roma, a Tor Marancia. Temevo una incontenibile inondazione di gente e di sole, e invece: sfusa felicità, da Fiumicino a Termini, e poi da Termini nelle strade, per me sconosciute, di Tor Marancia. Dopo un anno di intenso, intensissimo lavoro, desideravo un ritorno immersivo tra le voci delle storie degli altri, e così è stato.
Prima di arrivare avevo provato ad orientarmi tra i materiali ricevuti via mail e Google Maps: siamo a Tor Marancia, nel Municipio VIII di Roma, quartiere XX Ardeatino, confinante con la Garbatella – ho capito che è meglio non confondere le due zone – ed il grande Parco dell’Appia Antica. Questi erano i miei riferimenti da estranea ed esterna, riferimenti che erano necessariamente destinati ad arricchirsi e diversificarsi grazie al contatto concreto con le persone ed i luoghi. E difatti, questo è accaduto sin dal primissimo inizio della Scuola, nella struttura dell’Azienda di Servizi alla Persona disabile visiva Sant’ Alessio – Margherita di Savoia, l’edificio che ha ospitato corsisti ed organizzatori ed è divenuto primo di nuovi riferimenti costruiti raso terra, guardando il quartiere con occhi nuovi, diversi.
Entrata nell’aula, ho preso posto mentre cominciavano le presentazioni: assieme ad AISO, a guidarci tra le strade e le persone del posto c’erano Giuliano Marotta, Fabiana Marrocco e Giovanni Pietrangeli, dell’associazione Parco della Torre di Tor Marancia, costituitasi in modo spontaneo nel 2018 per respingere movimenti di estrema destra che tentavano di fare del quartiere una propria roccaforte. Dopo questo primo momento di aggregazione ed evidenziati valori in comune, gli attivisti si sono riuniti attorno al luogo fisico e simbolico in cui sorge la torre medievale, l’unica rimasta, il Parco della Torre, da cui l’associazione prende il suo nome. Attorno alla torre cominciano le azioni di cittadinanza attiva che caratterizzano il gruppo che sta dedicando al quartiere, alla sua storia passata ed al suo presente, cure ed eventi per rianimare il quartiere sul piano della consapevolezza storica e del risveglio culturale. Ad ascoltarli, noi, una platea ben assortita, di ragazzi e ragazze dalla formazione diversificata, non tutti romani, non tutti addentro alle vicende del quartiere, non tutti esperti di storia orale o public history, ma uniti dal desiderio di porsi in ascolto.
E ascolto è stato: il pomeriggio in aula ha visto alternarsi Luciano Villani, ricercatore di storia contemporanea all’Università La Sapienza; Giovanni Pietrangeli, archivista, storico e attivista dell’associazione Parco della Torre; Lidia Piccioni, docente di storia contemporanea all’Università La Sapienza. I tre interventi sono centrati sul quartiere in cui ci troviamo e appaiono necessari per ricostruire un quadro di insieme prima di entrare nella sessione di incontro fisico e dialogato con gli spazi e chi li abita, uomini e donne che costruiscono, giorno dopo giorno, le microstorie che fanno la storia.
Apprendiamo, nell’intervento di Villani, che le vicende delle borgate, come quella di Tor Marancia, si intrecciano in maniera stretta col racconto mitico sulle origini, che “veridico o meno, amplifica il significato simbolico di un evento che esalta le autorappresentazioni collettive”, secondo un corsivo che è di Sandro Portelli. Tor Marancia nasce per accogliere i deportati, come si autodefiniscono, del centro di Roma, sfollati dal regime fascista in un’operazione di risanamento della capitale fascista. Assieme alla lotta al baraccamento, il fenomeno dell’immigrazione e della liberalizzazione degli affitti porta ad una ondata di deportazioni nelle periferie non urbanizzate, che si vedono ricoperte di nuove fatiscenti costruzioni. Tor Marancia ne è un esempio: nasce nel 1933, nonostante il fallimento dell’esperimento delle borgate, quando è palese che non siano una soluzione credibile ed attuabile per il problema abitativo, con una serie di casette di più che scadente qualità, lavatoi in comune e densità abitativa impressionante. Si afferma la memoria degli sfrattati dal centro che si rivela essere una costruzione sociale – solo poche famiglie provengono realmente dal centro di Roma, secondo una ricerca storica d’archivio –, una necessità collettiva di definire le origini per radicarsi e rivendicare il diritto alla città.
L’intervento di Pietrangeli pone alla nostra attenzione quanto uno spazio possa definirsi pieno o vuoto secondo una percezione soggettiva più che oggettiva: nel progetto #MappaRoma, Tor Marancia è categorizzata come città campagna, ma questo cosa significa? È uno spazio pieno, di natura, vivibilità, qualità, oppure vuoto, di servizi, infrastrutture, sostenibilità? Sin dagli anni ’80, Tor Marancia ed il Parco dell’Appia Antica sono al centro di battaglie per l’ambiente, portate avanti, in forme diverse, dal sindaco dei Verdi Francesco Rutelli, l’urbanista Italo Insolera e il giornalista ambientalista Antonio Cederna, presidente dell’Azienda Consorziale dell’Appia Antica dal 1993. Quest’ultimo non ha potuto vedere l’inclusione formale, avvenuta nel 2002, della Tenuta di Tor Marancia nel Parco Regionale dell’Appia Antica, soggetto quindi a vincolo per beni architettonici e paesaggistici.
Nell’ultimo intervento del pomeriggio, Lidia Piccioni mette al centro diversi e variegati temi: la partecipazione democratica, la legalità, la semplificazione dell’amministrazione e la ridefinizione degli spazi collettivi, con un’attenzione particolare alla mobilità sostenibile ed al verde pubblico. La piazza, negli anni ’90, diventa luogo iconico per eccellenza a significare l’incontro e la condivisione: così nasce, nel 1995, il progetto “Cento Piazze”, la ristrutturazione di piazze sul territorio a mo’ di manifesto di volontà di cambiamento della nuova amministrazione (Rutelli prima, Veltroni sul finire degli anni ‘90), con un allargamento di prospettiva alle periferie, un termine oggi controverso e, ancora una volta, dal sapore soggettivo piuttosto che definitivo.
Dopo questa prima sessione in aula, seguita da ricchi e nutriti interventi dei corsisti, usciamo in strada, in una geoesplorazione guidata da Giuliano Marotta, a fare la conoscenza del quartiere: colpisce sin da subito la volontà di dare dignità alle microstorie dell’associazione Parco della Torre. Attraverso un progetto semplice e di impatto, sono state elaborate targhe apposte in luoghi simbolo, che raccontano le storie, in modo accessibile e interessante. Si comincia proprio dal Sant’Alessio -Margherita di Savoia, che accoglie e fornisce servizi per non vedenti, in un pannello che racconta le sue origini ma anche il suo presente. Passiamo alle Case Rapide, complessi di edilizia popolare dal passato fatiscente, che oggi guardano ad un quartiere pieno di contraddizioni, vitalità e rivendicazioni, includendo in questo racconto corale anche i comitati per le lotte per la casa, che hanno lasciato tracce tangibili nelle strade da noi percorse, segnando il paesaggio. Il giro continua, in una continua interpretazione dei luoghi, avvenuta e fermata negli scambi tra lo sguardo dei mediatori culturali che si intrecciava con il nostro e, di rimando, con gli uomini e le donne incontrati negli spazi. Questo ha significato un costante dialogo tra iscritti alla Scuola e Giuliano ed altri attivisti del territorio, in una passeggiata a più voci e più dimensioni: a più voci perché spesso c’è stato un intreccio tra abitanti del quartiere, attivisti e corsisti, che ha generato approfondimenti, deviazioni coerenti e ritorni a spirale su temi già ascoltati in aula ma riesplorati con un lessico diverso. A più dimensioni perché la nostra passeggiata si è svolta nei luoghi del presente, definiti in maniera più o meno visibile dal passato e sicuramente protesi, per le speranze e le promesse, al futuro.
Accompagniamo la serata con una socialità che ci sembrava ormai perduta nei meandri della pandemia. Una socialità fatta di discussioni informali sulle storie, le nostre e loro, ma anche sulle ricerche che abbiamo in cantiere. Famo du chiacchere, parliamo del più e del meno, con una pizza e una birra davanti: una tavolata lunga quattro metri in cui si sono creati dei “reparti” di discussione. C’è chi parla di storiografia, chi del territorio, chi della propria vita, alcuni – come me – “interrogano” gli attivisti sulla loro storia. Loro ricambiano: vogliono sapere di più su di noi. Insomma, la co-autorialità è in ogni discussione. Ritorniamo a casa. Stanchi e soddisfatti.
Il secondo giorno torniamo al Sant’Alessio: ci si prospetta una giornata intensa, fatta di teoria e pratica. Nella prima metà della giornata ci immergiamo nell’esperienza dei formatori e nella passione dei pionieri della storia orale. Bruno Bonomo, uno degli organizzatori della scuola, illustra a chi non si è mai cimentato con un’intervista la metodologia per approcciarvisi, ricordando le “buone pratiche” anche a chi ha già vissuto l’esperienza dell’intervistare. Nonostante il carattere intrinsecamente scientifico che è necessario utilizzare quando si chiede a una persona di partecipare a un’intervista – come mettere il microfono, illustrare il funzionamento del consenso informato, evitare di sovrapporre le voci, cercare un luogo adatto, non interrompere o imboccare l’interlocutore – in questa esperienza immersiva ci è stato anche fatto notare quanto la passione nel lavoro e lo stile proprio di ognuno renda la storia orale una fonte inesauribile di bio-diversità.
Ci tengo ad usare questo termine apparentemente fuori contesto, poiché riesce a connettere la dimensione vitale delle interviste con la polifonia che viene restituita attraverso i suoni delle voci. Non si tratta solamente di ascoltare timbri, vocalità e intonazioni differenti nelle interviste registrate; si tratta anche di entrare in sintonia con chi si ha di fronte. In quel momento le due, tre, quattro persone che dialogano, creano una piccola bio-diversità data necessariamente dalla diversità di ognuno, dalle vite di ognuno, dalle esperienze fortunatamente diverse di ognuno. Come un piccolo ecosistema. Non solo: attraverso le domande dell’intervistatore, riescono a ricostruire fisionomie e contesti apparentemente persi per sempre nello scorrere del tempo, creando l’habitat adatto per lo sviluppo delle interviste. Sandro Portelli (Circolo Gianni Bosio), da questo punto di vista, è stato in Italia uno dei più affermati studiosi che ha sperimentato l’originalità del fare Storia Orale. Attraverso i suoi viaggi e le sue interviste “corsare”, a caccia dell’umanità e della diversità che non veniva accettata nelle linde accademie, Portelli è stato l’esempio più chiaro di quanto ognuno possa sviluppare, in autonomia, una propria inclinazione all’intervista, attraverso le forme che ritiene più opportune, intersecandole con le proprie curiosità e facendone crescere di nuove. Intervistare è come scrivere e poiché ognuno ha il suo stile, non ci sarà mai un’intervista uguale a un’altra. Non c’è da stupirsi che lo storico romano stesso abbia esordito dicendo: “la Storia Orale non è una tecnica ma un modo di stare al mondo”.
Ed è con questo profano battesimo che il pomeriggio andiamo incontro ai nostri interlocutori: chi per scelta, chi per caso.
Torno un attimo alla teoria, poiché la mattinata non era finita con Portelli. Si succedono Omerita Ranalli, che illustra la struttura dell’Archivio del Circolo Gianni Bosio; Costanza Calabretta, membro dei Circolo Gianni Bosio e assegnista all’Istituto Italiano di Studi Germanici, che ci ha mostrato come le interviste possono essere “restituite” al pubblico tramite spettacoli e forme d’intrattenimento di alto livello artistico. Infine, il docente di storia contemporanea Paolo Carusi (Università Roma Tre) e Giulia Zitelli Conti hanno chiuso la sessione mattutina parlando di Public History il primo e delle intersezioni tra quest’ultima e la Storia Orale la seconda.
Ed è qui che l’incanto creatoci da Sandro Portelli sfuma verso una tensione critica. Ascoltiamo gli interventi, sacrificati sulla scia del tempo, di Paolo Carusi e Giulia Zitelli Conti. La mente comincia ad elaborare. Nonostante il tempo sia tiranno – non permettendoci una lunga discussione – qualcosa ci ha fatto riflettere. Fuori dalla torrida aula, tra un panino e tanta acqua, s’inizia a discutere di Public History e Storia orale…
Ciò che è emerso tra la teoria della mattina e la pratica del pomeriggio è una discrepanza latente che separa, a mio parere, le due discipline. Carusi ha giustamente ricordato come la nascita della PH sia da ricondurre ad una nuova ricerca di sbocchi professionali per gli storici statunitensi che, negli anni ’70, non potevano essere assorbiti nel mercato del lavoro. Non stupisce che in questo momento storico sia sbarcata anche in Italia. Ne consegue che la PH è uno strumento professionale, utilizzato dall’alto verso il basso, che cerca di farsi strada nell’ambiente che la circonda; la Storia Orale, invece è una filosofia di ricerca, che cerca di far emergere dal basso le storie minime che compongono l’humus della memoria. In questo senso risulta difficile, benché non impossibile, coniugare due cose così diverse. Questa “Summer School” ci ha provato: la PH, in questo senso, ha fornito un luogo aperto di discussione e interazione pubblica, dove la restituzione delle interviste è centrale rispetto allo studio delle memorie del quartiere che ci ha ospitato. Tale restituzione non dovrà essere verticale – regalo dagli intervistatori agli intervistati – ma orizzontale, in modo tale da riconoscere l’autorialità condivisa del materiale registrato. Molto spesso, però, la PH invece di creare luoghi di condivisione e discussione, crea prodotti destinati al largo consumo di pubblico, tendendo alla semplificazione anziché alla complessità, instaurando un rapporto verticale: come il consumo di massa. Questo approccio risulta completamente mortificante rispetto all’ambiente ricco di bio-diversità creato dalla Storia Orale nel quale abbiamo avuto il piacere di fare formazione.
Giulia e Bruno ci radunano al giardino del Sant’Alessio. Ci rammentano le “buone pratiche”, ci regalano alcuni preziosi suggerimenti sulla conduzione delle nostre interviste mentre a Riccardo Preda sono affidati i consigli tecnici di registrazione. Giulia ci presenta i profili delle persone che hanno accettato, per mediazione di Giuliano e Fabiana, di essere intervistati. L’idea, ci dicono, è di restituire alla comunità queste interviste sotto forma podcast. Ma se ne parlerà meglio domani. Quel che importa adesso è concentrarsi sulla pratica. Quel grande “io” che si era creato in due giorni si sparpaglia tra gli “io” della comunità. Le interviste sono registrate sia dai singoli che da gruppi di due studenti. Ma entrambi intervistano una singola persona. Vengono intervistate le memorie storiche, personalità del mondo dello sport, commercianti, artisti e un occupante peruviano del quartiere. C’è chi accetta di farsi intervistare al giardino del Sant’Alessio, chi, invece, ci invita a casa, chi invece, non potendo lasciare la propria attività lavorativa, si fa intervistare nel proprio luogo di lavoro. Dopo le interviste, ritorniamo alla condivisione. L’appuntamento è al bar da Vittorio. Ci troviamo, anche oggi, attorno ad un lungo tavolo dove si discute, questa volta, delle interviste. Scambiamo opinioni, facciamo un primo briefing sul materiale raccolto, beviamo birra, discutiamo con gli attivisti curiosi di sapere cosa gli intervistati hanno detto e soprattutto cosa non hanno detto. Torniamo a casa carichi di pensieri ed interrogativi sulla giornata. E pesiamo cosa dire durante la discussione comune in programma per domani.
La mattinata conclusiva della scuola era interamente dedicata al confronto e alla discussione: tirare le somme sulla tre-giorni che si stava per concludere ma, soprattutto, raccontarsi a vicenda quel che era emerso dalle varie interviste e cosa farne. Se la restituzione – come più volte era stato ribadito negli interventi dei giorni precedenti – è il culmine, il momento finale del processo della PH e anche uno dei nodi di contatto tra questa e la Storia Orale, andava pensato tutte e tutti insieme come restituire a Tor Marancia quello che, grazie ai suoi e alle sue abitanti, avevamo raccolto.
Questo era quanto previsto da programma. Nella pratica, però, le cose sono andate un po’ diversamente. Il tempo stringeva, il caldo aumentava, il caffè sembrava poterci dare quella carica necessaria per fare il punto della situazione, così la mattinata si è aperta con una colazione da Vittorio, su viale di Tor Marancia ed è poi continuata nel cortile del lotto delle case popolari, “quelle dei graffiti” o “lotto numero uno”, secondo la geografia locale. Sotto al gazebo, chi seduto ai tavoli, chi in cerca di ombra sotto qualche albero, chi in equilibrio precario su cassette della frutta, abbiamo iniziato un giro di feedback per riassumere e mettere a sistema i temi toccati nelle varie interviste.
Un giro “rapido” si era detto, per poter poi parlare della restituzione, appunto. Ma come si fa a riassumere, a sintetizzare per titoli una voce e la sua storia? Chi più chi meno, avevamo comunque interviste molto diverse l’una dall’altra, che andavano componendo un mosaico stratificato e contraddittorio del quartiere. Alcune delle persone intervistate si sono lasciate andare più di altre (e ne abbiamo ricavato interviste ricchissime!), alcune sono state più telegrafiche e altre ancora hanno sfruttato l’occasione per soffermarsi sulla loro attività lavorativa, con orgoglio e uno spirito di imprenditorialità.
Inizia dunque il racconto delle interviste e subito penso… – io che non avevo mai partecipato ad una scuola di Storia Orale, io che sono nuova in AISO e che non sono una storica di professione –, a come le nostre prospettive su Tor Marancia, mediate dall’esperienza dell’intervista del giorno prima, stiano iniziando ad intrecciarsi, tessendo una sorta di narrazione di secondo grado. E inizio, ascoltando le parole degli altri e delle altre, a metterle a confronto con quanto avevo appreso dalla mia esperienza di intervista. Cosa torna e cosa si discosta? Versioni diverse di uno stesso fatto o anche elementi che non tornano affatto. Temi o aneddoti del tutto nuovi, da appuntare, per poi tenere tutto insieme.
Lì con noi ci sono anche Giuliano, Fabiana e Giovanni, attivi in vario modo nel quartiere, membri dell’associazione Parco della Torre e proprio su di loro, inconsapevolmente, finisce per cadere il mio sguardo, mentre si passa da un racconto all’altro. Loro che sono stati antenne e fonti dirette per il nostro avvicinamento a Tor Marancia, la sua storia passata e la situazione attuale, con attenzione registrano, commentano – con borbottii, segni di assenso, dissenso, un angolo della bocca tirato all’insu o altri gesti inconsulti – le impressioni, gli scorci e gli spaccati che continuiamo a sommare. Andando avanti la tela si infittisce: c’è chi, durante il racconto di un’altra intervista, interrompe per prendere parola e ricollegarsi a quanto appena detto per arricchire e fornire altri dettagli al riassunto fatto poco prima. Le nostre voci si annodano, tentano di ricostruire l’inafferrabilità e la molteplicità di un insieme di “memorie collettive e non condivise” – per riprendere le parole di Sandro Portelli. Il tempo passa e noi continuiamo ad essere immerse e immersi nella bellezza del racconto, nell’oralità e nel suo fluire, ribadendo implicitamente l’impossibilità di una narrazione unica di quel territorio e la cura necessaria nel farsi portavoce delle persone intervistate.
Cosa raccontare, come, cosa è utile, cosa è importante, cosa è significativo, anzi, cosa non lo è? Cosa tralasciare, come decidere cosa tenere e cosa scartare momentaneamente? E anche, come organizzare, riassumendo, nella linearità del discorso, quel filo ingarbugliato, annodato, tagliato e ripreso, che è l’intervista? Continuavo a pensare agli appunti presi durante l’intervento di Sandro Portelli. INTER-VISTA: scambio di sguardi, un dialogo – camminare attraverso una differenza – attorno alla linea tra chi intervista e chi è intervistato.
Poi, ancora – mentre avveniva quanto detto sopra –, mi chiedevo quale eco riverberasse la nostra presenza in quel luogo: noi non eravamo corpi neutri, né lo erano le nostre parole. Tuttavia, il segnale era forte. Una certa volontà e apertura che mi appariva come una prima possibile restituzione. E infatti abbiamo scambiato qualche parola anche con alcuni degli abitanti che passavano in cortile, spesso con cane al seguito (o al seguito del cane). Un ragazzo si è fermato ed è rimasto ad ascoltare la discussione fino alla fine e poi non sono mancati i turisti muniti di macchina fotografica per immortalare i murales che tanto dividono la comunità del quartiere: per alcuni abitanti è solo una scocciatura che ha tolto privacy alle palazzine del lotto, per altre persone rappresenta un potenziale per il quartiere tutto. Potrebbe sembrare un fatto minimo e invece, mentre eravamo lì, siamo stati testimoni di quel che ci era stato raccontato in molte delle interviste e mi è sembrato un elemento prezioso, da trattenere, osservandolo direttamente come parte del contesto in cui e di cui stavamo ragionando.
In che forma restituire tutte queste interviste? Cosa sarebbero diventate? In realtà già dal primo giorno era stata anticipata la possibilità di farne un podcast. Forse non convinceva tutti ma alla fine si è propeso per questa opzione. A dire il vero era l’unica opzione sul tavolo; da qui, due domande che, proprio come tutte le altre, sono sorte in me mentre ne discutevamo: sarebbe servito forse più tempo per poter proporre e articolare un’alternativa, avendo la possibilità di ascoltare le interviste fatte da tutti e tutte le partecipanti della Scuola per avere un’idea di insieme del materiale raccolto?
La seconda dipende forse dal mio sguardo esterno e ancora inesperto in fatto di PH e Storia Orale: sentendo la potenzialità restitutiva dell’assemblea che stavamo componendo e la possibilità, rimasta inesplorata, di dialogo con gli abitanti non direttamente coinvolti nelle interviste (che, pure, immaginavo dietro le persiane con l’orecchio teso), visto che di loro, di fatto, si stava parlando? Ero lì e pensavo se fosse davvero necessario produrre un podcast – la produzione del podcast è stata affidata a Riccardo Preda -, arrivare ad un prodotto finale per incanalare e portare a compimento il processo innescato. Per una serie di ragioni so che, razionalmente, la risposta è sì (lo si fa per imbastire e iniziare a lavorare ad un archivio, prima di tutto), d’altra parte, però, rimane l’irripetibilità dello scambio umano nel momento – nelle ore a dire il vero – dell’intervista. E mi chiedo se non sia quello, più di ogni altra cosa, a contare e a rendere “imprendibile” la voce incorporata della persona intervistata, quella vita, quella storia che ci è stata raccontata. In qualche modo, forse, la mia domanda si arrovella attorno al dove porre la soglia tra informalità e formalità della Storia Orale fatta da storie orali, quando e come spostarla e negoziarla.
Infine, un dilemma è sorto negli ultimi minuti in cui, prima di lasciarci e riprendere ognuna e ognuno la propria via di casa, abbiamo cercato di fissare indicazioni e istruzioni per i prossimi passi in vista dell’evento di restituzione previsto in autunno. Trascrivere o non trascrivere le interviste? Pensando il risultato della Scuola come seme per un archivio di voci di Tor Marancia, è innegabile l’utilità della trascrizione. Un lavoro – ho imparato – tecnico e creativo allo stesso tempo, che poggia su basi teoriche ma lascia anche molto spazio all’intuizione individuale e che, soprattutto per chi non si occupa di questo nella vita, può richiedere molto tempo. “Cinque ore di trascrizione per ogni ora di intervista”, un commento veloce tra le voci che si accavallavano, quello di Lidia Piccioni, che si è impresso nella mia memoria dove, pure, trova tutt’ora spazio la curiosità di cimentarsi in qualcosa di nuovo, per me, con l’entusiasmo che ancora conservo nel risuonare delle parole di Sandro Portelli che cita il lavoro di Dennis Tedlock, Learning to Listen: Oral History as Poetry. Mentre registro questi luminosi esempi di sapere e saper fare, penso che sia giusto tenere questa compresenza di spinte contrastanti e interrogativi senza risposta e, attraverso essi, quella che abbiamo immortalato nella foto, prima di dissolversi momentaneamente per poi riprendere nuovamente forma tra qualche mese, sembra rispecchiare quello che immaginavo sentendo Giulia Zitelli Conti parlare della storia come “una piazza partecipata”.
E mentre scrivo a distanza di qualche settimana, dopo aver riascoltato l’intervista fatta alla presidente dell’associazione Parco della Torre, Eleonora Coderoni, mi sorprendo nell’indugiare nei suoi silenzi, nelle accelerazioni e nelle inclinazioni della voce, immaginando come restituirle trascrivendo le sue parole. Sarà possibile? Non lo so. Eppure, sento necessario continuare ad interrogarsi su questo punto limite, stare in questa soglia generativa con una consapevolezza nuova che riassumo nelle parole di Bruno Bonomo che, con intelligenza gentile, ha posto l’accento sull’importanza di ciò che viene detto ma anche, e soprattutto, di ciò che non viene detto, del valore delle invenzioni, delle esagerazioni e delle omissioni, ricordando che l’oblio è anch’esso una dimensione possibile della memoria.
Foto di copertina di Laura Rossi