di Vito Corposanto*
Pubblichiamo un commento alla relazione che Urška Lampe ha tenuto al convegno Imparare dagli errori. Difficoltà, complicazioni, ripensamenti nella storia orale. Un ricco resoconto dell’intero convegno è stato scritto da Laboratorio Lapsus e pubblicato qui. Vito Corposanto, invece, parte dalla relazione di Urška dal titolo “Fare storia orale al confine italo-sloveno: questioni linguistiche e nazionali” per sviluppare riflessioni che comprendono anche altre letture e toccano alcuni dei nodi che stavano al centro del convegno: la questione delle lingue nazionali e dei dialetti multiformi, i nomi con cui definire alcuni fenomeni storici, la difficoltà e insieme la necessità di “tradurre” la storiografia da un contesto nazionale all’altro ma anche di condurre interviste non padroneggiando quasi mai completamente la lingua delle persone intervistate.
Urška ha scelto di pronunciare il suo intervento in sloveno proiettando su uno schermo la traduzione in italiano. La sua relazione, insieme a quelle di tutti gli altri intervenuti, sarà pubblicata previo referaggio nella rivista “Acta Histriae”, che ospita contributi in sloveno, italiano, inglese (e ha il titolo in latino).
***
L’intervento di Urška Lampe “Fare storia orale al confine italo-sloveno: questioni linguistiche e nazionali” è molto diretto, a tratti appassionato: i frequenti riferimenti alla vita personale attenuano la distanza tra relatrice e ascoltatore e restituiscono l’immagine di una persona reale, che non ha difficoltà a confrontarsi con il suo vissuto e le sue esperienze. A partire dal percorso di formazione: un’infanzia aperta al dialogo con l’altra cultura e, con il tempo, il graduale affiorare degli interrogativi, man mano che lo studio stimolava i dubbi.
Si prende atto, già nelle prime righe, di una puntigliosa precisazione, su un piano solo apparentemente linguistico: ciò che gran parte della storiografia e pubblicistica italiane definisce comunemente “foibe” (e quel “cosiddette” sottintende una netta presa di distanza) diventa, per Urška, “la questione delle esecuzioni extragiudiziali”. Non è un dettaglio di poco conto: si tratta, al contrario, di un cambio di prospettiva, perché la distanza tra il tono emozionale-evocativo della tradizionale definizione italiana e quello molto più tecnico, razionale e “freddo” messo sul tavolo da Urška fa pensare a una meditata presa di posizione.
Sia consentita, a questo proposito, una ulteriore, breve considerazione. L’intervento in sloveno di Urška è stato, evidentemente, il risultato di una scelta precisa, a maggior ragione in considerazione del suo italiano impeccabile. Pare di capire, tuttavia, che alla base di tale scelta non ci sia la manifestazione di un qualche più o meno latente orgoglio etnico. È ragionevole pensare, al contrario, che l’uso, allo stesso tempo deciso e appassionato, della lingua materna, abbia avuto il solo scopo di ricordare le persecuzioni e l’italianizzazione forzata (grottesca, forse prima che violenta) messa in atto nel corso del Ventennio. Forse Urška aveva in mente Julka, la bambina presa di mira da uno sciagurato maestro solo perché – come racconta Boris Pahor – aveva pronunciato una parola in sloveno? Non possiamo saperlo. Resta tuttavia, netta, la sensazione che quell’intervento sia stato pensato come un dovere civile, come testimonianza e rivendicazione: un intervento che ha avuto luogo, per giunta, nella città in cui una celeberrima riva ricorda gli Schiavoni della Serenissima.
Più avanti Urška accenna alle difficoltà incontrate nella narrazione degli avvenimenti che ebbero come teatro il campo di concentramento di Borovnica. A proposito di tale campo esistono almeno due testimonianze dirette: quella di Lionello Rossi Kobau e l’altra di Gianni Barral, rispettivamente bersagliere ed ufficiale degli Alpini, che dopo l’8 settembre si arruolarono nelle file della RSI e, successivamente, furono deportati a Borovnica. A proposito della seconda, secondo l’autorevole commento di Raoul Pupo (che integra il memoriale di Barral) «la testimonianza costituisce la fonte primaria di cui disponiamo per ricostruire il funzionamento del campo di Borovnica e, al tempo stesso, ci offre una narrazione limpida e avvincente […] senza retorica e senza rancori». Pupo cerca di metter ordine tra le fonti e le testimonianze che documentano l’esistenza e l’attività del campo, ma ammette che è difficile stabilire il numero complessivo delle vittime, anche perché i prigionieri appartengono a varie categorie di militari e civili.
Sono molto interessanti, a questo proposito, le sue conclusioni: «Riuscire a raccapezzarsi tra le fluttuazioni di tale massa di detenuti è estremamente arduo, e l’incrociarsi caotico dei flussi di prigionieri […] è una delle ragioni che hanno finora frustrato i tentativi di quantificare con precisione il numero degli italiani scomparsi dalla Venezia Giulia nel maggio del 1945 e che correntemente, per quanto in maniera imprecisa, vengono definiti “infoibati”». In maniera imprecisa: la valutazione di Pupo pare dunque coincidere perfettamente con “le cosiddette foibe” di Urška.
Proseguendo nel suo intervento, Urška si confronta con un nodo cruciale, almeno per quanto riguarda la storia orale: l’uso dei vari registri linguistici e/o dialettali. Le sue considerazioni in proposito fanno riflettere, perché messe sul tavolo da una persona la quale, pur padroneggiando, come si è detto, molto bene sia l’italiano che (addirittura) il dialetto triestino, non esita a dichiarare che «la profondità di ciò che viene detto si perde in una certa misura in interviste di questo tipo». Urška ammette dunque l’esistenza di un inevitabile lost in translation, per citare il titolo di un noto film. Ancora più interessante è il successivo argomento, cioè «la presenza di tensioni e conflitti storici internazionali e di narrazioni contraddittorie». La relatrice, riferendosi alle interviste da lei fatte tra gli abitanti di Borovnica, non ha difficoltà a riconoscere che «in quanto ricercatrice giovane e poco preparata, non ero consapevole della complessità del problema [e] ho subito tirato fuori l’argomento del campo, senza alcun preambolo», provocando una sorta di blocco tra gli intervistati. (Se è consentito un breve ricordo personale, nella stessa situazione si trovò il sottoscritto quando, giovane studente nel lontano 1968, in occasione di un soggiorno a Monaco si recò a Dachau e chiese informazioni a proposito del campo ad una signora del posto. Che reagì come se non ne avesse mai sentito parlare).
Un resoconto più dettagliato della ricerca condotta da Urška a Borovnica è apparso (in sloveno) in un numero della rivista “Acta Histriae”. Grazie all’abstract (in inglese) si viene a conoscenza del clima di paura che si era instaurato tra gli abitanti di Borovnica fin dalla fondazione del campo: clima rimasto immutato nel corso degli anni, nonostante i radicali sconvolgimenti socio-politici del 1991, in seguito ai quali sarebbe stata possibile una più obiettiva narrazione dei fatti (non legata, quindi, alla versione “ufficiale”, cioè alla guerra partigiana). Il contributo cerca di dimostrare, in sostanza, che «la rottura di un’amnesia collettiva non è un processo unilaterale», ma che, al contrario, sia necessario che «il desiderio ed il bisogno di rompere il silenzio» emergano all’interno della collettività stessa. Tali considerazioni spiegano, almeno in parte, le difficoltà incontrate da Urška nel corso della ricerca e gli errori da lei ammessi, ossia il rivolgersi alla gente del luogo e fare interviste come se tutto il passato fosse stato elaborato. Ma dagli errori (è questo il tema del convegno, dopotutto) si può imparare.
Una attenta disamina delle diverse declinazioni della memoria in una zona di confine è alla base di un contributo e di un volume a cura di Alessandro Cattunar. Lo studioso goriziano si propone di superare “alcuni paradigmi prestabiliti” (a proposito degli studi relativi al confine tra Italia e Jugoslavia/Slovenia) ricorrendo alle “possibilità offerte dalla storia orale”: non a caso, il volume di cui sopra ha per titolo Il confine delle memorie, un plurale che parla chiaro. Cattunar propone, prima di tutto, una distinzione tra i concetti di “confine” e “frontiera”: quest’ultima, a differenza del primo, sarebbe da intendersi come “luogo di transizione”, quindi «area d’incontro, connessione e contaminazione». Molto interessante, a questo proposito, la testimonianza di Franco Giraldi (figlio di un matrimonio “misto” e cresciuto in prossimità del confine), il quale afferma, senza esitazione, che «nascere sulla frontiera è un privilegio», perché «uno si ritrova […] con più culture a disposizione […] un patrimonio che dovrebbe assicurare grande apertura al dialogo, tolleranza». Sono considerazioni, come si vede, molto vicine a quella fatta da Urška nell’apertura del suo intervento: «Ho sempre vissuto la consapevolezza dell’esistenza dell’“altro” come qualcosa di positivo».
Altra testimonianza significativa è quella di Emilio M., goriziano di famiglia mista (padre italiano e madre slovena): «Mio padre […] parlava tre lingue. Mia madre, qualche volta, gli chiedeva qualche vocabolo in slavo perché lei non si ricordava». Cattunar, addetto ai lavori e goriziano di nascita, sembra non fare una piega; ma il lettore medio, cresciuto nella tranquilla routine di un contesto monolingue, ha difficoltà a trattenere un soprassalto, perché costretto a confrontarsi con un paradosso: una madre slava (senza virgolette) che si fa suggerire parole slave da un padre italiano. Il plurilinguismo, che caratterizza molte aree di confine, pare, almeno nel contesto preso in esame, travalicare la sua accezione corrente e diventare un chiaro indicatore di complessità: si tratta di un contesto, infatti, in cui «le famiglie erano quasi sempre miste e l’uso della lingua estremamente variabile e differenziato». Un contesto in cui, secondo Cattunar, «alcune macro-categorie – come “mondo latino” e “mondo slavo” – […] si rivelano inadeguate e non vengono fatte proprie dalla popolazione dell’area».
A tale complessità (“confini mobili e identità fluide”, secondo la definizione dell’autore) Cattunar contrappone le narrazioni “manichee” e i “paradigmi prestabiliti”: da una parte la storiografia italiana che, nel secondo dopoguerra, focalizza l’attenzione sulla questione degli esuli, delle deportazioni e delle foibe; dall’altra quella slovena, impegnata nella «costruzione della memoria pubblica funzionale alla nuova Slovenia socialista». Come esempio della frequente divergenza tra narrazioni pubbliche e percezioni soggettive di uno stesso concetto o evento Cattunar propone il binomio patria-nazione: che appare di rado nelle testimonianze degli intervistati, non essendo, probabilmente, percepito come determinante, mentre si impone come questione cruciale ai fini della costruzione/invenzione di una comunità da parte di stampa e politica. E proprio in considerazione di tale divergenza, si può affermare, secondo l’autore, che «ogni testimonianza va assunta come documento da analizzare a più livelli e da comprendere ermeneuticamente», perché «la verità fattuale di ciò che il soggetto dichiara può essere meno rilevante della sua verità emotiva»: secondo tale interpretazione, dunque, le emozioni non solo non vanno considerate come un ostacolo sulla via verso la “verità”, ma, al contrario, assurgono a vero e proprio strumento di lavoro. Un passaggio, questo, determinante: l’approccio usato dalla storia orale si discosta da quello storiografico “tradizionale”, ma, allo stesso tempo, integra ed arricchisce i risultati raggiunti da quest’ultimo.
Molto vicina a tale approccio – sul versante, in questo caso, della storia tout court – è Marta Verginella nel suo Il confine degli altri. Gli altri (ancora un plurale, come “le” memorie di Cattunar) sono gli sloveni, il cui punto di vista l’autrice adotta come strumento operativo. Il pregio principale del libro, tuttavia, sta nella decostruzione di “stereotipi prodottisi nel tempo”, perché nelle vite delle singole persone «ci sono complicazioni, ambiguità, contraddizioni, e abbiamo spesso a che fare con identità che mutano». Si tratta di un libro che, come osserva lo storico Guido Crainz nella prefazione, «costringe a uno sguardo più largo»: si apprende, per esempio, che un noto irredentista sloveno, attivo nel Ventennio, si chiamava Boris Furlan (!), aveva frequentato il ginnasio tedesco a Trieste e aveva poi proseguito i suoi studi a Parigi e Vienna. E che molti sloveni residenti in Italia, costretti a trasferirsi a Lubiana, vivono in un clima di ostilità, stranieri nella propria Slovenia. Contraddizioni, appunto, che minano alle fondamenta inveterati luoghi comuni e costituiscono un potente stimolo alla ricerca della complessità.
In ambito letterario, l’opera a mio avviso più vicina all’approccio e alle tematiche finora prese in considerazione è probabilmente La miglior vita di Fulvio Tomizza: un continuo intreccio di epocali vicende e storie personali di un sagrestano e di una comunità parrocchiale («eravamo in guerra per l’eterna questione dell’essere italiani e dell’essere slavi, quando in realtà non eravamo che bastardi».) Una visione distante dal celeberrimo Il mito absburgico di Claudio Magris (Cattunar, non a caso, nell’apertura del suo libro cita Stefan Zweig, per prenderne poi, gradualmente, le distanze) e – perché non ricordarlo – da L’Austria era un paese ordinato di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, il “mito absburgico visto alla rovescia”.
Riferimenti bibliografici
Gianni Barral, Borovnica ’45. Memorie di un ufficiale italiano, Paoline, Milano 2007
Alessandro Cattunar, Il confine delle memorie, Le Monnier, Firenze 2014
Alessandro Cattunar, Le fonti orali sulla frontiera italo-slovena, in “Acta Histriae”, 20, 2012, 1-2
Marta Verginella, Il confine degli altri, Donzelli, Roma 2008
* Vito Corposanto (Bari, 1951) si è laureato in Lingue e letterature straniere a Ca’ Foscari negli anni Settanta e negli stessi anni ha militato nella sezione veneziana della Quarta Internazionale e nel movimento studentesco cittadino. Ha lavorato presso l’Autorità portuale di Venezia e attualmente è iscritto al corso di laurea triennale in Storia a Ca’ Foscari.