Il volume uscito per la collana di storia orale di EditPress rappresenta la testimonianza scritta dei numerosi interventi che si sono succeduti durante il convegno del 2021 dell’Associazione Italiana di Storia Orale (AISO), organizzato con il patrocinio dell’Associazione Italiana di Scienze della Voce (AISV). Sembra paradossale, eppure sia l’organizzazione stessa del convegno sia la stessa pubblicazione, in cartaceo o in ebook, paiono essere un segno del cortocircuito che il convegno stesso voleva innescare. Un convegno che si è svolto online sulla piattaforma Zoom, memoria storica dei tempi della pandemia, durato cinque incontri calendarizzati in poco più di un mese, lascia traccia della sua ‘oralità trasmessa’ (che varietà diamesica è un convegno? Uno scritto parlato? E un convegno non in presenza, bensì trasmesso?) in un volume cartaceo, in cui gli interventi orali vengono trascritti e adattati di necessità alla lettura, alla pagina, alla sequenzialità della forma scritta.
E il nodo critico dell’atto del trascrivere è ancor più messo in luce da quanto riportato nella prefazione a cura di Bianca Pastori, ossia la percepita impossibilità di trasmettere attraverso un testo scritto l’intervento di Luisa Passerini, che per sua natura avrebbe necessitato di uno strumento comunicativo crossmediale. Del resto, anche la possibilità di avere ancora accesso ai video delle dirette convegnistiche rimanda a questo stesso rapporto tra scritto, parlato e trascritto tanto che, volendo potremmo esercitarci criticamente nell’osservare in che modo la parola pronunciata, i suoni, i gesti sono stati condensati e linearizzati nella pagina scritta.
Di che cosa si tratta quindi, cosa è l’oggetto ‘libro’ che si ha tra le mani? Il titolo lo dice chiaramente: Scrivere (quasi) la stessa cosa: la trascrizione come atto interpretativo della storia orale. Eppure, il titolo sembra limitare le prospettive che il volume apre, in virtù di quel modificatore ‘della storia orale’ che non rende sufficiente giustizia alla molteplicità di voci che hanno partecipato sia al convegno che alla stesura del libro: ricercatori e ricercatrici provenienti dai mondi della storia orale, ma anche dell’antropologia, della linguistica, della letteratura, del mondo del teatro, dell’interpretazione in lingue ‘multimodali’ (LIS).
È proprio grazie a questa polifonia di voci che il volume riesce a scandagliare tutti i problemi legati a un atto giudicato apparentemente non problematico come la trascrizione, spaziando da riflessioni più squisitamente teoriche, epistemologiche e riflessive a narrazioni di esperienze sul campo, nonché di vere e proprie tecniche per facilitare il processo stesso. La trascrizione viene spesso considerata un mero atto di servizio, utile a fissare nero su bianco la messe di informazioni proveniente, solitamente, da un’intervista. È un atto fondamentale per orientarsi tra quanto è stato detto: alcuni software molto usati per l’analisi qualitativa, come Atlas Ti o Nvivo, attraverso una AI e algoritmi di machine learning permettono di mettere ordine nel trascritto, facendo emergere temi comuni, pattern, connessioni e tematiche ricorrenti.
Per chi si occupa di linguaggio, la trascrizione è fondamentale per osservare in che modo gli interattanti hanno usato gli strumenti linguistici a loro disposizione per compiere tutta una serie di compiti sociali, come veicolare la propria provenienza geografica o segnalare la propria affiliazione a determinate comunità di pratica. Dal momento che questa variazione è di grana fine una trascrizione linguistica è spesso più dettagliata, tanto che a livello fonetico si distingue solitamente tra trascrizione larga (o broad) e trascrizione stretta, o fine (o narrow). La prima è quella che troviamo solitamente nei dizionari, per indicare la pronuncia di una parola, mentre la seconda fa uso di un ampio armamentario di diacritici, utile per rendere conto della variazione a livello subsegmentale, e può essere spesso assistita dall’uso di software che permettono l’osservazione strumentale della realizzazione acustica, come Praat.
Non è però solo questione di fedeltà al dato, dato che una trascrizione più fine non è per forza di cose più realistica, né tantomeno può essere la più adeguata allo scopo che ci poniamo. Oltre a essere comunque soggetta a un certo grado di arbitrarietà, una trascrizione stretta è solo uno dei possibili modi per rappresentare quel complesso evento multimodale che è il parlato faccia a faccia. Lo sanno bene tutti gli autori e le autrici dei saggi presenti nel volume, che non possono fare a meno di confrontarsi con il testo fondativo di Valeria Di Piazza e Dina Mugnaini, Io so’ nata a Santa Lucia, in cui vengono applicate delle convenzioni proposte da Luciano Giannelli in grado di rendere conto delle effettive realizzazioni del parlato e permettere al testo di essere linguisticamente coerente.
La pubblicazione e la circolazione anche fra non addetti ai lavori, e il conseguente desiderio di leggibilità necessitano di fatto delle scelte di convenzione che, spesso, pesano di più di quanto ci si possa aspettare. Solo due esempi. L’ampio mondo della letteratura dialettale e dei conseguenti processi di standardizzazione ortografica è spesso terreno di contesa: non solo non vi è accordo su come rendere specifici suoni dei dialetti, ma anche il modo di scrivere in dialetto è determinato da scelte ideologiche che sono il frutto di un processo di filtraggio. I dialetti, non avendo subito processi di standardizzazione, sono infatti caratterizzati da estrema variabilità: la scelta di rendere ortograficamente una variabile piuttosto che un’altra viene spesso vista come un atto che afferma il prestigio di una specifica sottovarietà a discapito di un’altra, e può portare a rivendicazioni identitarie o di purismo dialettale (per una panoramica sull’argomento v. A. Regnicoli, Scrivere il dialetto. Proposte ortografiche per le parlate delle aree maceratese-camerte, ma anche V. Matranga, Trascrivere. La rappresentazione del parlato nell’esperienza dell’atlante linguistico della Sicilia).
Un altro esempio, di ancor più rilevanza per la sua ricaduta nella quotidianità degli individui, viene invece dal mondo giuridico. Sia nell’ambito delle intercettazioni che in contesto di interrogatori la fedeltà di una trascrizione al parlato ha un peso che riesce anche a orientare le stesse sentenze. Ad esempio, esistono alcuni chiarimenti, compiuti dalla corte di cassazione penale, in merito alla necessità o meno di offrire, oltre alla trascrizione delle intercettazioni, eventuali traduzioni. Questo può avvenire in quei casi in cui la trascrizione rispecchia le abitudini locutorie di parlanti dialettofoni: di fronte a delle conversazioni in dialetto, se la difesa giudica il testo incomprensibile, può dichiarare in che modo i passaggi in dialetto possono aver inciso sull’interpretazione dell’insieme probatorio richiedendone la traduzione (Cass. pen., n. 50074/2015).
Sempre a proposito dell’ambito giuridico, Mary Bucholtz ripercorre in un suo saggio la storia di una trascrizione nell’ambito di un interrogatorio, per la quale aveva offerto un parere pro bono. L’analisi di Bucholtz mette in luce come la trascrizione dell’interrogatorio effettuata dagli agenti di polizia mascherava, marcandole come incomprensibili o non pertinenti, parti dell’interrogatorio in cui gli agenti sceglievano strategie retoriche coercitive. La trascrizione rivista offerta da Bucholtz venne accolta dal difensore d’ufficio e allegata al memoriale, ma il procuratore distrettuale preferì giudicare comunque la confessione come resa liberamente, condannando l’imputato. Una scelta di trascrizione arbitraria diventa quindi la possibilità per le forze di polizia di scagionarsi dall’accusa.
Sono proprio questi aspetti spesso inaspettati della trascrizione al centro del volume. Nel corso dei dieci saggi la trascrizione viene vista non solo come un passaggio fondamentale necessario a chi fa ricerca, ma come il frutto di scelte epistemologiche e di posizionamenti. Un atto sempre riflessivo, necessario nel momento in cui si sceglie di rendere in forma scritta un qualcosa nato per l’oralità. Il primo saggio, a nome di Patrick Urru, pone le basi e offre una guida storica alla lettura del volume. In Leggere come un discorso parlato. La riflessione sulla trascrizione nella storia orale anglosassone e italiana, Urru ripercorre infatti gli snodi salienti che hanno interessato il rapporto tra storia orale e pratica trascrittoria in due specifici contesti geografici, ossia il contesto italiano e il contesto angloamericano. Colpisce oggi notare come concetti apparentemente non dibattibili fossero in verità oggetto di discussione: per molti oralisti americani, pionieri della disciplina, la conservazione della fonte orale era spesso considerato un gesto superfluo e oltremodo costoso, soprattutto nei casi in cui si poteva avere a disposizione il testo trascritto e opportunamente emendato. Nel contributo Urru ricorda come invece la scuola inglese e italiana fossero più consapevoli della necessità di conservare la fonte, forti sia di un supporto istituzionale (la presenza di un archivio sonoro nazionale e le potenzialità della radiodiffusione pubblica per il Regno Unito) sia di una forte vocazione politica di stampo gramsciano; grazie alle riflessioni di Portelli, Bosio, Baum la trascrizione diventa uno dei possibili prodotti del lavoro dello storico, non tanto riproduzione fedele né gesto neutro, quanto riflesso della soggettività del ricercatore.
Sempre a nome di Patrick Urru è anche il saggio di chiusura, ossia una prova tecnica di trascrizione che rende conto dei reali processi e problemi che chi si occupa di trascrizione deve affrontare. Significativamente, Urru prova a usare alcuni degli strumenti presentati durante il convegno e esemplificati nel volume grazie al saggio di Stefania Scagliola e Silvia Calamai, L’infrastruttura CLARIN e il servizio di trascrizione multilingue T-Chain.
Le due autrici, entrambe appartenenti all’infrastruttura europea CLARIN, espongono con chiarezza in che modo è possibile rendere più veloce il processo di trascrizione attraverso una piattaforma che sfrutta servizi già esistenti, come quelli sviluppati dal Bavarian Archive of Speech. Seguendo la transcription chain – o T-chain –, è possibile caricare degli spezzoni di intervista, selezionare la lingua e affidarsi a dei sistemi di ASR – automatic speech recognition; successivamente è poi possibile correggere manualmente la trascrizione generata automaticamente.
La T-chain permette di considerare la trascrizione nella sua modularità: difatti essa genera non solo la trascrizione ortografica dell’intervista, ma permette anche l’allineamento di audio e testo, l’eventuale segmentazione e trascrizione fonetica. Può essere quindi un modo per riflettere su quanto riteniamo rilevante ai fini dei nostri scopi scientifici e quanto invece possiamo emendare nel momento in cui vogliamo rendere il nostro documento leggibile da un pubblico più vasto. Per quanto la T-chain sia ancora imperfetta (al momento è possibile processare solo file di dimensioni ridotte, pertanto è necessario preliminarmente porzionare il file originario in singoli file .wav di breve durata, indicativamente sotto i 5 minuti) essa è un invito alla collaborazione multidisciplinare non solo per migliorare i programmi esistenti in modo che possano servire agli scopi di ricercatori e ricercatrici, ma anche per approfondire problemi etici e pericoli insiti nella gestione dei dati, soprattutto in un settore in cui lo sviluppo tecnologico può portare profitti alle industrie.
La premessa storica di Urru contenuta nel suo primo saggio, in merito alla necessità o meno di conservare la fonte è quantomai attuale: non è infatti banale, ancora oggi, chiedersi se sia veramente necessario recuperare ore e ore di registrazioni, soprattutto a fronte di recuperi che sono atti spesso ben più costosi della conservazione stessa, richiedendo la messa in gioco di competenze diverse ed estremamente professionalizzate. Ma è non solo la necessità di tornare a interrogare le fonti, né un eccesso di zelo archivistico che rende necessaria la conservazione, bensì è soprattutto un bisogno educativo che rimetta al centro il primato dell’ascolto, piuttosto che limitarsi a confinare il tutto al predominio del campo visivo.
È questo il messaggio ultimo dell’intervento di Donatella Orecchia, Indicizzazione o trascrizione? Indicizzare per tutelare l’ascolto, in cui l’autrice ripercorre alcune scelte metodologiche alla base della collezione Patrimonio orale, che raccoglie le interviste del progetto ORMETE (ORalità MEmoria TEatro). Riprendendo le parole presenti sul sito stesso, ORMETE “accoglie, custodisce, studia e condivide i racconti e le memorie dei protagonisti del teatro del Novecento”. La catalogazione dei documenti segue un solido schema di metadati che rende conto in forma granulare e modulare dell’unitarietà del documento; il campo descrizione funge inoltre come guida, e grazie all’aiuto di parole chiave permette una tematizzazione e indicizzazione del contenuto, una sorta di guida all’intervista che non si sostituisce però all’ascolto e alla consultazione della fonte primaria, dato che il progetto non prevede la trascrizione integrale dei materiali documentari.
L’invito di Orecchia è di fondamentale importanza per ricordare il valore pedagogico della fonte orale, e rimanda a una vera e propria oralità secondaria che, muovendo dalla fonte scritta, torna al documento orale, il quale non può essere sostituito dalla trascrizione o da una semplice sinossi (Cfr. W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1982).
Vi è un dialogo non esplicitato tra il lavoro di ORMETE e l’intervento a cura di Luca Des Dorides, Nelle mani giuste: trascrivere e sottotitolare una fonte orale in lingua dei segni, dedicato a raccontare una serie di progetti di storia orale in lingua italiana dei segni (LIS). Il saggio di Des Dorides sembra quasi far corona a un importante traguardo recente riguardante proprio la LIS, ossia l’approvazione del 19 maggio 2021, da parte del Parlamento italiano, dell’articolo con il quale “la Repubblica riconosce, promuove e tutela la Lingua dei Segni Italiana (LIS) e la Lingua dei Segni Italiana Tattile (LIST)”. Un riconoscimento importante, seppure in ritardo rispetto ad altri paesi europei, che ci obbliga a ricordare come la LIS non solo abbia piena dignità di lingua, ma come sia necessario garantire alle persone con disabilità il totale accesso alla formazione e alla comunicazione.
I due progetti raccontati da Des Dorides fanno i conti con la possibilità e l’eventuale necessità di trascrivere contenuti in una lingua segnata: se, difatti, la traduzione in italiano di contenuti segnati potrebbe sembrare un ennesimo atto asimmetrico e un far parlare ‘con la voce di un altro’ la comunità sorda, d’altro canto la scarsa dimestichezza da parte della massa parlante con la LIS avrebbe reso queste testimonianze scarsamente accessibili. In questo caso si rende particolarmente evidente l’atto politico della scelta del trascrivere, giacché esso porta con sé, di necessità, adattamenti che possono portare all’invisibilizzazione di chi quella fonte ha prodotto. Nei progetti raccontati la scelta fatta diventa però non una semplice trascrizione in italiano standard, bensì si opta per una sottotitolazione, in modo da obbligarci alla consultazione della fonte primaria, senza far scomparire la LIS a favore della lingua dominante di prestigio. Solo grazie a una strategia di questo tipo è inoltre possibile non scartare la multimodalità connaturata alla produzione linguistica: il parlato sì, ma anche i gesti, lo sguardo, la postura, sono un qualcosa che la trascrizione ‘tradotta’ non può riportare, ma che può essere restituito, seppur parzialmente, solo con il confronto con una fonte audiovisiva.
Il cortocircuito innescato dal confronto con la fonte è invece al centro del saggio di Graziella Bonansea, Scritture, parole, voci e figure. Interviste di artisti migranti a confronto. Nell’esperienza di Bonansea l’importanza della trascrizione della forma-intervista non è solo importante come testimonianza del lavoro degli artisti, ma lo è soprattutto in funzione del suo potere creativo. Le trascrizioni sono state difatti messe a disposizione di studenti e studentesse di due istituti superiori, innescando così la creazione e l’elaborazione di altre fonti e altri materiali. Forzando un po’ la definizione data da Henry Jenkins, si può così intendere la trascrizione come un qualcosa dal carattere transmediale: essa è difatti uno dei possibili modi di raccontare una storia, adattata specificamente al medium che la trasmette (la forma scritta, la sottotitolazione, l’indicizzazione ecc.), e contribuisce alla nostra comprensione del mondo narrato; essa è solo una parte del tutto, non è l’insieme, ma è in dialogo con l’evento intervista, con i partecipanti, con gli oggetti in scena (per alcune considerazioni sull’intervista come forma di trascrizione v. il testo di Mario Spiganti disponibile su questo sito).
E proprio il potere generatore della trascrizione rimanda al testo, associato anche alla performance disponibile online, di Marco Cavalcoli, che vede al centro gli esperimenti di eterodirezione a partire dai documenti relativi al manicomio di Maggiano curati da Giovanni Contini e Marco Natalizi. Nel caso dell’eterodirezione, ossia una performance che prevede la ripetizione in simultanea di un testo trasmesso al\la performer tramite auricolari, in modo da non lasciare il tempo di processare le informazioni a livello cosciente, è possibile così non solo osservare la capacità dei documenti di generare altri documenti, ma soprattutto di riflettere sul livello performativo dell’intervista e su una oralità di secondo livello. Nel caso raccontato da Cavalcoli l’intervista ascoltata in eterodirezione è, anzi, performance di secondo livello: il testo trasmesso via auricolare permette infatti di arrivare a una comprensione maggiore, ricostruendo le informazioni poco udibili e giungendo a una trascrizione di trascrizione che potrebbe, a sua volta, generare altre trascrizioni a partire dalla performance stessa. In un certo senso l’ascolto e la trascrizione diventano così atto incorporato, possibile solo grazie alla compartecipazione di performer, trascrittori e trascrittrici, intervistati, intervistatori.
La possibilità di una oralità di secondo livello ritorna nei due saggi dedicati invece a una specifica forma di trascrizione, ossia la descrizione del parlato e la mimesi di questo presente nella letteratura. Nel capitolo Il parlato narrativo tra oralità e scrittura: caratteristiche lessico-sintattiche Bramati ripercorre tutto quell’armamentario di lessico tecnico ben noto a chi si occupa di linguistica e storia della lingua, ma utile a tutte le figure coinvolte con l’analisi dell’oralità.
Ripercorrendo un importante saggio di Giovanni Nencioni del 1976 ricorda inoltre la difficoltà di porre un discrimine netto per ciò che sono le variabili di tipo diamesico: non tutte le produzioni orali condividono infatti le stesse caratteristiche, giacché molte di esse sono più prossime allo scritto di altre. A quanto elencato da Bramati sarebbero inoltre da aggiungere gli scenari della contemporaneità, in cui la simultaneità e la multimodalità dei mezzi di comunicazione hanno contribuito a rendere più complesse queste distinzioni (un audio di WhatsApp ha più caratteristiche in comune con una telefonata o con un messaggio inviato tramite lo stesso mezzo?). Gli strumenti tecnici elencati nel saggio di Bramati permettono di osservare in che modo la letteratura è in grado di imitare il reale grazie a una serie di esempi provenienti proprio da traduzioni di testi letterari francesi; suddetti strumenti fungono inoltre da guida alla lettura del saggio successivo di Gianni Turchetta, dedicato a osservare la mimesi del parlato in due testi letterari italiani, ossia La ciociara di Moravia e Il calzolaio di Vigevano di Mastronardi.
Si può veramente parlare di oralità di secondo livello perché, soprattutto nel caso della letteratura, la mimesi del parlato in forma scritta è una sorta di condensato di tutto ciò che viene percepito come tipico dell’oralità, in cui la performatività quotidiana del parlato diventa performatività letteraria. Purtuttavia, a volte l’effetto rimanda a uno straniamento e a una rappresentazione olografica, attraverso una fissazione indessicale per cui solo determinati personaggi, associati a specifiche classi sociali, dispiegano tutto il bagaglio tipico dell’oralità: eppure, la presenza di elementi colloquiali e di strategie tipiche dell’oralità (ripetizioni, anacoluti, temi sospesi, ma anche tratti più informali) non è prerogativa esclusiva delle classi basse.
La scelta di rendere fedelmente (trascrivere un’ipotetica oralità di un personaggio fittizio) il massimo livello di oralità delle sole classi subalterne diventa così una scelta marcata che può contribuire a rafforzare stereotipi negativi, come ricorda Fabio Dei nel saggio che fa da cornice epistemologica al volume, Trascrivere e interpretare. Tradire per restare fedeli? Le riflessioni di Dei muovono proprio dalla non neutralità dell’atto del trascrivere e dal rischio che una mimesi del parlato porta con sé. Non solo il dare voce si configura di per sé come atto asimmetrico, ma anche la scelta di fedeltà può suscitare scontento nel momento in cui i nostri informatori e informatrici si vedono rappresentati sulla carta in un modo che sembra essere lontano da quello proprio della pagina scritta. Nel saggio viene ricordato sia lo scontento di Quinto Semboloni nel momento in cui ha visto trascritta la propria storia di vita nel volume di Valeria di Piazza, sia le perplessità di parenti e familiari che hanno visto trascritte le testimonianze dei propri cari nel volume Io me lo ricordo come ora.
L’intervento di Dei può essere inteso come un condensato di tutti gli snodi problematici che una trascrizione pone. Il suo porre l’attenzione sul rischio dell’autenticità a tutti i costi ci rimanda con la mente alle parole di Portelli in merito alle Slave Narratives, in cui la scelta di separare la narrazione dello schiavo dalle parole dell’intervistatore, seppur fatta con lo scopo di “rafforzare l’effetto di autenticità fattuale delle narrazioni nere o native, minimizzando l’interferenza del curatore […] sopprime anche quel contatto tra alterità, quella (diseguale) collaborazione interrazziale da cui il testo ha avuto origine” (A. Portelli, Storie orali: racconto, immaginazione, dialogo, Roma, Donzelli, 2018).
Mary Bucholtz, nel saggio sopra citato, ricorda la dicotomia esistente tra una trascrizione naturalizzata e una trascrizione denaturalizzata: nel primo caso il processo di trascrizione viene oscurato attraverso una patina letteraria e un adattamento al mezzo scritto, non permettendo così la considerazione per la forma linguistica realmente prodotta e distogliendo l’attenzione dal canale orale. Nel caso della trascrizione denaturalizzata, la (presunta) fedeltà all’orale viene spesso vista acriticamente, e non si pone sufficiente attenzione al paradosso dell’usare una lingua scritta per rappresentare un qualcosa che nasce orale: la necessità di convenzioni per rappresentare l’orale contribuisce anzi a rendere il testo alieno, non più familiare neanche per chi quello stesso testo ha prodotto.
Ovviamente non vi sono soluzioni, né scelte automaticamente giuste, se non una necessità di considerare chi trascrive non una macchina – anche nei casi in cui utilizza software e programmi che rendono il processo automatico – bensì un interprete del testo. Crediamo che i contributi di questo volume possano essere un utile strumento per sviluppare, anche in chi è alle prime armi, quella forma di autocoscienza vigile necessaria nel momento in cui abbiamo a che fare con storie di vita, e per ricordarci anche di mantenere quell’equilibrio, auspicato da Pietro Clemente, tra valore politico-sociale e riflessione critica sulle fonti storiche (cfr. P. Clemente, Italia: La “storia orale”. Una panoramica sull’ultimo quarto di secolo, L’Uomo: Società Tradizione Sviluppo, 8(2), 2019).
Francesca Di Meo, Roberta Garruccio, Francesca Socrate (a cura di), Scrivere (quasi) la stessa cosa. La trascrizione come atto interpretativo nella pratica della storia orale, editpress, Firenze 2022, pp. 204, euro 19.