Di Bruno Bonomo
Chi è Renzo e chi sono i suoi compagni che danno il titolo a questo bel libro scritto a quattro mani da Alessandro Casellato e Gilda Zazzara? Renzo è Renzo Donazzon. Nato nel 1946 in una famiglia di mezzadri a Mansuè, nella campagna trevigiana, a quattordici anni entrò come apprendista in una fabbrica del territorio. Abbracciò il comunismo da ragazzino, grazie alla frequentazione di un calzolaio di paese. Licenziato per motivi politici nel 1962, dopo aver lavorato in altre piccole fabbriche venne assunto alla Zoppas di Conegliano, una delle industrie di punta del settore degli elettrodomestici negli anni del boom. Un metalmezzadro, insomma, che diventò leader sindacale sull’onda delle lotte operaie del 1968-69 e percorse le tappe della carriera dirigenziale nella Cgil fino a esserne eletto segretario regionale del Veneto nel 1988, dopo esser stato dal 1981 al 1986 segretario della federazione del Pci di Treviso.
I suoi compagni sono quei sindacalisti della Cgil veneta che, tra gli anni Settanta e Novanta, con Donazzon portarono avanti l’attività sindacale in un contesto produttivo e in un mondo del lavoro in profonda trasformazione, a livello tanto globale quanto locale. Una trasformazione che schematicamente si può sintetizzare richiamando il passaggio dal paradigma fordista ai nuovi modelli della produzione decentrata e flessibile, dell’industrializzazione diffusa che in Veneto aveva salde radici e trovava ora pieno sviluppo. Mentre le scienze sociali elaboravano il modello della Terza Italia, quello che era stato “il Mezzogiorno del Nord” veniva acquisendo una nuova identità: il dinamico e prospero Nord-est. La sfida più impegnativa con cui Renzo e i suoi compagni si misurarono fu quella di dare rappresentanza e tutela ai lavoratori e lavoratrici delle piccole aziende, dei distretti industriali e delle imprese artigiane: mondi operai diversi, più articolati e meno facilmente inquadrabili in schemi consolidati rispetto a quelli delle grandi fabbriche.
Questo percorso sostanzialmente si interruppe nel gennaio del 1992, quando Donazzon, fresco di conferma a segretario regionale con una schiacciante maggioranza nel congresso del settembre 1991, fu indotto a dimettersi con dinamiche a lungo rimaste poco chiare. Questo evento, sul quale fanno perno la ricostruzione e l’interpretazione proposte da Casellato e Zazzara, fornisce la chiave dell’enigma apparentemente indecifrabile di una caduta improvvisa che seguì a distanza ravvicinata quello che era apparso un trionfo. Ci tornerò più avanti. Donazzon sarebbe poi morto prematuramente, dopo un lungo coma, per le conseguenze di un incidente stradale avvenuto nel 1995.
Li vediamo ritratti – Renzo e i suoi compagni – nella bella foto di copertina, che mostra Donazzon, quasi sovrastato da una grande bandiera, ma con uno sguardo proiettato in avanti che comunica determinazione e fiducia, guidare insieme ad altri sindacalisti una manifestazione dei lavoratori della Zoppas.
Il titolo del volume e l’immagine di copertina restituiscono bene l’approccio alla ricerca e il taglio che l’autore e l’autrice hanno inteso dare alla loro ricostruzione. Si tratta di un lavoro alla cui origine vi è una committenza, una domanda di storia espressa dalla Cgil di Treviso e dall’Ires veneto, desiderosi di tributare un omaggio al dirigente scomparso raccontandone appunto la storia. Casellato e Zazzara, però, non ne hanno voluto scrivere una biografia in senso classico. Anzi, nella densa introduzione presentano il libro come «una non biografia» e spiegano, citando Bourdieu, di aver «usato la vita di Renzo Donazzon contro il genere biografico, contro l’illusione che un individuo sia artefice della propria vita e che gli storici possano ricostruirla come “la narrazione coerente di una sequenza significante e orientata di eventi”» (p. XXIV). L’approccio biografico, l’attenzione alla dimensione personale e al vissuto, l’esplorazione dei nessi tra pubblico e privato sono qui funzionali a un’analisi imperniata sullo stretto intreccio tra individuale e collettivo. L’obiettivo è comprendere un mondo attraverso il prisma di una soggettività, ricostruendo la storia di una persona e di una collettività nel quadro dei rapporti sociali e nel fitto reticolo di relazioni in cui erano inserite.
Due sono i riferimenti essenziali, sotto il profilo del metodo: la microstoria e la storia orale (ai rapporti tra le quali Casellato ha dedicato alcuni anni fa un articolo pubblicato nel fascicolo 275 di «Italia contemporanea»). L’osservazione ravvicinata, la valorizzazione in chiave analitica dei contesti e delle reti di relazioni, i “giochi di scala” basati sull’alternanza e la combinazione tra micro e macro sono gli strumenti adottati «per dar conto di fenomeni – come le relazioni sociali dentro un’organizzazione politica o in un ambiente di lavoro – che osservati da vicino svelano meccanismi minuti e cogenti, ma solo se visti dall’alto e messi in prospettiva acquistano un significato più ampio» (p. X).
Nel quadro di una ricerca che fa affidamento su una molteplicità di fonti (soprattutto carte d’archivio e materiali a stampa, ma anche qualche documento audiovisivo), quelle orali hanno un ruolo cruciale. Se Donazzon non ha lasciato scritture di sé, Casellato e Zazzara se lo sono fatto raccontare da chi lo ha conosciuto da vicino: tanto nella sfera familiare (molto belle le interviste con la sorella Silvana, la moglie Edi, la figlia Lara), quanto nell’attività politica e sindacale (a partire da coloro che furono suoi compagni nella Cgil veneta). Non solo le interviste vere e proprie, ma anche fonti orali meno formalizzate, come conversazioni non registrate o commenti raccolti nelle occasioni in cui sono stati presentati e discussi gli esiti della ricerca in corso, hanno aiutato a ricostruire quella dimensione dei rapporti personali, degli scambi, delle negoziazioni e degli accordi in cui l’oralità gioca un ruolo cruciale: una dimensione anch’essa informale, e proprio per questo spesso sfuggente, poiché tende a non lasciare tracce nella documentazione ufficiale; ma che risulta essenziale se si vogliono comprendere a fondo il funzionamento, le dinamiche e le procedure decisionali di un’organizzazione complessa come un partito o appunto un sindacato.
A venirne fuori è una storia sociale che va al di là di un oggetto classico come i lavoratori per investire appunto le organizzazioni del movimento operaio. Tra i molteplici elementi di interesse che emergono da un libro assai originale e stimolante, ne segnalo alcuni che hanno colpito in maniera particolare un lettore come me, non specialista di storia del sindacato né del Veneto.
Il primo riguarda un tema di fondo del volume, ovvero l’esistenza di una «linea di classe dentro il sindacato» (p. XXXIV), e più in generale nelle organizzazioni del movimento operaio. Una linea che separa una figura emblematica come Donazzon dagli studenti attratti dalle fabbriche e dalle lotte operaie nel lungo Sessantotto; dai membri della segreteria trevigiana del Pci degli anni Ottanta appartenenti ai ceti medi urbani; nonché da colui che viene individuato come il responsabile politico della sua rimozione nel 1992, l’allora segretario generale della Cgil Bruno Trentin. Donazzon e Trentin, dirigenti profondamente diversi tra loro a livello antropologico, incarnano due tipologie sociali sostanzialmente opposte. Il primo è un uomo di umili origini, con un basso livello di istruzione e una limitata capacità di espressione orale e scritta, che si impegna duramente a migliorare sul campo; per lui, l’attività sindacale e politica costituisce anche un fondamentale canale di ascesa e promozione sociale. Il secondo discende, invece, da una famiglia di proprietari terrieri veneti, può fare affidamento su un ben più consistente capitale culturale, coniuga raffinatezza intellettuale, sicurezza di sé e carisma. La scena madre del libro – quella della rimozione di Donazzon – si presta dunque a essere letta, con una consapevole provocazione, in chiave di rapporti di classe: «nella sala Giuseppe Di Vittorio della Cgil, il figlio del proprietario terriero di San Donà di Piave aveva dato l’escomio al figlio del mezzadro di San Polo di Piave» (p. 219).
Guardando alla dimensione fisica e performativa dell’agire sindacale, Casellato e Zazzara colgono la diversità tra i due dirigenti anche nella loro differente corporeità ed evidenziano come il portamento, lo sguardo, l’eloquio e la gestualità siano espressione di un’irriducibile dualità in termini di habitus di classe. Trentin incarna l’anima cosmopolita delle élites politiche e sindacali; Donazzon è visto come portatore di quella che, traendo ispirazione dalla femminista afroamericana bell hooks, Casellato e Zazzara definiscono una «tradizione sindacale “vernacolare”» (p. XXXV), fortemente radicata nel locale e capace di realizzare una sintesi originale tra le istanze sociali provenienti dal basso e i linguaggi e le parole d’ordine dell’organizzazione. La rimozione di Donazzon, così, diventa l’emblema di una divaricazione tra queste due tradizioni: divaricazione che non per caso si compie quando, con gli eventi del 1989-1991, si stava chiudendo una fase storica durante la quale figure come Donazzon stesso avevano potuto svolgere una funzione di mediazione, di traduzione tra il mondo dei lavoratori e quello delle organizzazioni politiche e sindacali, e il movimento operaio sembrava mantenere la promessa che i lavoratori sarebbero diventati classe dirigente.
Un altro elemento di interesse è relativo alla dimensione spaziale e territoriale, la cui importanza è ben nota a chi pratica la storia orale: avendo a che fare con persone specifiche e volendo dare rilievo alle soggettività, difficilmente si può prescindere dal prendere in considerazione gli spazi, fisici e sociali, in cui quelle persone vivono e operano. Per Casellato e Zazzara, «andare sui luoghi» per «interroga[re] il paesaggio» (p. XXX) è uno strumento essenziale di conoscenza. Partendo dal paese che diede i natali a Donazzon, attraverso le pagine del libro si esplorano dunque campagne e città di un Veneto periferico e provinciale, un Veneto profondo che, dal secondo dopoguerra alla fine del Novecento, visse altrettanto profonde trasformazioni economiche, sociali e appunto territoriali. L’industrializzazione diffusa, in particolare, si accompagnò a rilevanti mutamenti nella geografia insediativa e nelle forme dell’abitare, con l’affermarsi di modelli e culture abitative che, nel quadro di un sensibile miglioramento delle condizioni di vita e dei livelli di comfort domestico delle classi popolari, coniugavano elementi urbani e rurali nella tipologia edilizia prevalente della villetta uni- o bifamiliare, sempre più spesso di proprietà. Come gli urbanisti rilevavano nei tardi anni Ottanta, con l’arrivo anche di centri commerciali, aree per i servizi, poli sportivi e parchi divertimento, la «ex campagna […] diventa un’unica area metropolitana, periferia senza centro e senza identità urbana, ma con una “forsennata mobilità” al proprio interno» (p. 180). Tra i luoghi chiave per la storia sindacale e politica di Renzo e dei suoi compagni, oltre naturalmente alle fabbriche, si segnalano le osterie, dove si andava a mangiare insieme dopo le riunioni e dove si cementava, attraverso la socialità conviviale, un’identità di gruppo.
Infine, la storia raccontata in questo libro aiuta a comprendere le origini di un fenomeno politico come il leghismo e le dinamiche secondo le quali una parte rilevante dei voti operai, anche di quelli sindacalizzati con la Cgil, si è spostata a destra. Da questo punto di vista, colpiscono la lucidità analitica e la capacità di sintesi – accompagnate, si può immaginare, da una profonda amarezza – mostrate da Donazzon nel riflettere sugli esiti delle elezioni politiche del 1994, vinte dalla coalizione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi. Gli appunti da lui presi durante un incontro con Ilvo Diamanti, invitato a Mestre dai sindacati per discutere dei risultati elettorali, si concludono con queste considerazioni: «Il modello di classe oggi è di destra. Sinistra dei diritti civili. Destra dei diritti sociali. Il processo di identificazione della sinistra e di conseguente risposta sociale non sarà di breve durata. Dare senso alle preferenze sociali. Dimostrare che l’organizzazione dei servizi può essere fatta all’interno della solidarietà. Sindacato: porsi il problema degli interessi rappresentati dal lavoro dipendente» (p. 241).
In conclusione, Renzo e i suoi compagni rappresenta, a mio avviso, un contributo significativo non solo per la storia sindacale del Veneto, ma più in generale per la storia dell’Italia repubblicana. Ne affronta questioni e snodi cruciali, proponendo una ricostruzione a tutto tondo nella quale le dimensioni del sociale e del politico sono strettamente intrecciate. Casellato e Zazzara ci portano a esplorare una realtà articolata come quella dei mondi operai veneti e ci mostrano quanto abbiano contato le soggettività e i profili, le dinamiche e le relazioni sociali nella vita delle organizzazioni sindacali, come anche dei partiti. Ai miei occhi, questo libro conferma quanto sia importante prestare attenzione agli attori, ai contesti e alle dinamiche sociali, se non si vogliono confinare la storia sindacale o quella politica nel perimetro un po’ angusto dei leader e dei gruppi dirigenti, dei programmi e delle linee, degli interventi in sedi ufficiali e dei dibattiti formalizzati.
Per tutte queste ragioni, Renzo e i suoi compagni non costituisce solo una lettura di grande interesse che dà conto del percorso e degli esiti di una bella ricerca, ma può essere anche considerato una lezione di metodo che invita a tenere sempre una postura riflessiva nel praticare il mestiere di storica/o.
A. Casellato, G. Zazzara, Renzo e i suoi compagni. Una microstoria sindacale del Veneto, Donzelli, Roma, 2022, pp. XL + 256, euro 30,00.