Questo articolo fa parte della rubrica “Interviste sull’intervista” per la quale rimandiamo all’introduzione di Francesca Socrate qui.
Nella notte tra il 5 ed il 6 settembre 2020, a Colleferro, Willy Monteiro Duarte, un ventenne di origine capoverdiana che viveva con la sua famiglia a Paliano e lavorava come sous chef nel ristorante di un hotel di zona, è stato ucciso a calci e pugni da quattro coetanei con i quali non aveva alcuna relazione di conoscenza. Nel giro di poche ore Mario Pincarelli, Francesco Bellegia, Marco e Gabriele Bianchi vengono identificati ed arrestati con l’accusa di omicidio. Come dimostrerà l’iter processuale, la violenza che ha ucciso Willy è durata pochi secondi e i media hanno raccontato questa vicenda concentrandosi proprio su quello spazio di tempo compresso, sottolineando la brutalità dei quattro assassini, soprattutto dei fratelli Bianchi che anche esteticamente ben si prestano a tradurre un certo immaginario di ferocia.
Mala movida, aggressività sotterranea delle marginalità sociali esplosa nel contesto di isolamento pandemico, educazione alla violenza in ambito di discipline marziali: queste le chiavi di lettura crime proposte da televisioni e quotidiani. Ma questa storia poteva essere raccontata diversamente, e lo è stata, attraverso un intenso lavoro di inchiesta di cui si sono resi autori Christian Raimo e Alessandro Coltré. La loro ricerca, durata un paio d’anni, ha portato alla produzione del podcast Willy, una storia di ragazzi1 e dell’omonimo libro edito da Rizzoli2.
L’ascolto del podcast ha colpito diversi soci dell’AISO sia per la scelta dei narratori, una generazione di ragazze e ragazzi che hanno generalmente poco spazio nel dibattito pubblico; sia per la varietà dei temi che emergono e che raccontano il paesaggio sociale della Valle del Sacco; sia per lo strumento in sé, che offre grandi opportunità di divulgazione e, al contempo, valorizza l’oralità delle interviste. Alcune chiavi di lettura proposte dalla ricerca di Raimo e Coltré risultano particolarmente interessanti. Ad esempio, il lavoro giovanile che scandisce il tempo quotidiano dei ragazzi e delle ragazze di questa storia fin dall’adolescenza e determina i loro movimenti sul territorio; movimenti costretti anche dalle carenze del welfare che obbligano molti giovani ad avere un mezzo di trasporto proprio o, se non possono permetterselo, a dipendere da chi è automunito o motomunito. Per spiegare la dinamica che ha portato all’omicidio di Willy Monteiro Duarte, gli autori parlano di “rider della violenza”, una sorta di gig economy dell’intimidazione fisica. Molto significativa anche l’emersione delle questioni legate ai rapporti di genere che innervano le relazioni tra coetanei.
Ho quindi contattato Alessandro Coltré, autore insieme a Chiara Chimisso dell’articolo Le voci di Artena in un quaderno di comunità pubblicato sul sito dell’associazione nel 2022. Ci interessava intervistarlo per questa rubrica anche in virtù del suo rapporto con il territorio, essendo abitante di Artena, uno dei tre paesi coinvolti nella vicenda. Inizialmente abbiamo programmato di registrare l’intervista a margine della presentazione del libro Willy, una storia di ragazzi che si è svolta nell’ex Granaio Borghese il 26 novembre scorso. Quella sera però abbiamo capito entrambi, senza dircelo, che non era il momento giusto, eravamo concentrati sulla presentazione.
Sono dunque tornata ad Artena il 9 dicembre e abbiamo registrato un dialogo di cui propongo qui la trascrizione. Abbiamo parlato di potere delle interviste, di prossimità nella differenza, di restituzione, di co-autorialità, di tempi della raccolta, di come raccontare i luoghi dell’Italia intermedia e, in sottofondo a tutto ciò, delle intersezioni tra storia orale e giornalismo d’inchiesta che interessano coloro che fanno uso di fonti orali da almeno quattro decenni3.
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Sabato 9 dicembre 2023, ore 10:30. Nota di campo
Prima di cominciare l’intervista, decidiamo di camminare un po’. L’aria è di un freddo pungente, ma il cielo è terso e splende un bel sole. Ci incamminiamo verso piazza Galileo Galilei, la piazza del mercato, e Alessandro mi racconta che l’amministrazione comunista, negli anni Sessanta, aveva provato ad intitolare questo spazio a Jurij Gagarin, ma l’attribuzione non fu finalizzata a causa di forti opposizioni politiche. Vista da qui, la parte alta del paese, arroccata sulla collina ed oggi poco abitata, sembra un grazioso adagio di casette di pietra grigia. Dirigiamo lì i nostri passi.
La salita impiega una ventina di minuti, ci fermiamo alcune volte: una tappa nei pressi di una targa commemorativa per Federico Ciafrei, artenese ucciso dai fascisti nel 1923; una sosta ai piedi dell’imponente palazzo Borghese, già residenza del “principe nero” Junio Valerio. Alessandro si ferma per uno scambio di battute con una donna attorno alla quarantina che sta sistemando la casa della madre per il suo rientro; saluta alcuni giovani operai che stanno allestendo una mostra dei presepi nelle cantine del paese; mi conduce in uno storico bar che si affaccia sulla terrazza dove, infine, ci fermiamo.
Siamo in piazza della Resistenza, uno spazio creato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ci sediamo su un muretto; dal gazebo di fronte a noi, allestito per la mostra dei presepi, rimbalza musica ad alto volume. Ad entrambi sembra il posto giusto dove sedersi: non sarà una situazione intima, ma la storia per la quale sono venuta qui abbisogna di spazio pubblico. Accendo il registratore.
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Giulia: Per iniziare ti volevo chiedere proprio come è nato questo percorso, tenendo insieme il podcast e il libro anche se in realtà poi ho più curiosità sul podcast perché è un modo di lavorare con le fonti orali particolarmente intrigante. Da quel che ho letto, da quello che è emerso parlando un po’ con te e con Christian e ascoltando altre interviste che avete rilasciato, mi pare di capire che ci siano due spinte principali: da un lato sicuramente il fatto che questa vicenda è stata raccontata in una certa maniera e che voi avete sentito in qualche modo l’esigenza professionale…
Alessandro: Sì.
Giulia: … di raccontarla diversamente, di andare a decostruire e a complicare queste narrazioni allo stesso tempo semplici e inadeguate della vicenda; dall’altro anche il fatto che foste lì [in piazza Italia, a Colleferro] o avreste dovuto essere lì quella sera.
Alessandro: Sì, io stavo là. Lo stimolo in realtà è nato da Christian Raimo nel voler raccontare questa storia coi tempi lunghi ed è nato come reportage per “Internazionale”, che è uscito un mese dopo l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, ma una parte non è mai uscita, perché era ancora più lungo di quello che è stato pubblicato, e quindi era rimasta un po’ l’esigenza di completare la narrazione su quello che era avvenuto, aspettando. Però man mano che facevo questa cosa che stiamo facendo adesso, cioè raccogliere le registrazioni, mi sono reso conto che il materiale era tanto e, su sollecitazione di Christian, ci è venuto in mente di usare l’esplosione dei podcast che era arrivata con la pandemia. Io stesso ammetto che [i podcast] li ho scoperti bene con la pandemia, coi i tempi dilatati per cui, anche solo lavando i piatti, ne ascoltavo di più ed effettivamente mi sono reso conto ascoltandoli che poteva essere l’entratura giusta per raccontare quello che era avvenuto, perché c’era la possibilità di mettere insieme delle voci, giovanissime, di persone a me familiari, conosciute oppure no, che erano state protagoniste dei media per pochi secondi oppure protagoniste di deposizioni dai carabinieri oppure in tribunale quindi la loro voce, il loro portato conoscitivo, era stato utilizzato anche per andare avanti con le indagini ma su tutto il resto [no, non erano stati ascoltati]. L’impatto della vicenda e se vogliamo anche la storicizzazione di quello che era accaduto e anche la capacità, come dice Casellato, di farsi storici di sé stessi, quella roba là mi interessava e probabilmente si univa anche alla curiosità che ho sempre avuto per l’oralità e per le memorie, anche durante l’università perché la mia tesi triennale era su tre autori polacchi, uno dei quali aveva scritto un libro, ma più che un libro erano registrazioni fatte con un poeta, Milosz che è questo poeta polacco, premio Nobel, che aveva registrato per un anno intero delle conversazioni con uno scrittore che si chiamava Aleksander Wat, scusa se faccio questa parentesi…
Giulia: Ma no, scherzi vai avanti.
Alessandro: … che mi aveva fatto conoscere il mio professore di letteratura polacca e però questo scrittore dopo deportazioni, gulag, eccetera, aveva una malattia e non poteva scrivere e quindi la sua biografia non diventa più una biografia ma una serie di registrazioni, un’odissea parlata. Effettivamente nella prefazione di questo libro Milosz dice che quella che leggerete non è una biografia, ma l’esito di tante conversazioni e che è venuta così proprio perché era stata frutto di una natura dialogica. E quindi me so’ detto che quella roba là che avevo studiato prima, che avevo ripreso poi con le storie orali qui ad Artena, poteva essere il metodo anche per questa storia di cronaca nera insomma, mettendo assieme delle voci che difficilmente arrivano, anche nello storytelling locale non ci stanno quasi mai, ma che hanno uno storytelling loro: sulle storie Instagram ad esempio. In quei giorni è stato essenziale scoprire i loro social per capire come facevano debunking di quella storia, e poi il passaggio successivo è stato un po’ allontanare quei tentativi di infantilizzazione che c’erano stati su queste voci e ascoltarli proprio come fonte e quindi poi sono aumentate le registrazioni, che facevo anche nei periodi morti, anche con il cellulare, per questo molte delle registrazioni del podcast si sentono male perché non sono fatte con microfoni, ma era proprio l’esito di occasioni che mi capitavano camminando, come abbiamo fatto oggi, ad Artena o a Paliano e poi l’altra questione di metodo era anche farmi indicare da loro quali erano le persone secondo loro importanti da inserire nella vicenda.
Giulia: Questa cosa devo dire che a me piace molto, il sapore che ha il podcast dove si sente la differenza qualitativa delle registrazioni…
Alessandro: Eh sì, tanto.
Giulia: …nel senso che racconta un po’ il modo in cui uno spesso si trova spesso a fare ricerca anche in situazioni come appunto dicevi tu: c’è un’occasione e la colgo con gli strumenti che ho, oppure lo faccio gratuitamente quindi con i mezzi che ho.
Alessandro: Esatto, il discorso era anche un po’ questo. Gratuitamente e anche dilatato in tantissimo tempo, soprattutto all’inizio quando alcune produzioni di podcast ci hanno detto di sì e poi no però comunque sia io che Christian abbiamo continuato a lavorare, a prescindere dalla condizione contrattualistica. I tempi lunghi ci hanno consentito di avere delle testimonianze che magari all’inizio non erano disponibili per questioni emotive o di fiducia. Le interviste più lunghe, quelle che magari compaiono in più puntate, sono state registrate un anno prima [dell’uscita del podcast] e non due anni fa perché magari sono persone più vicine alla vittima, tipo la sorella che si è un po’ più aperta alla fine, anche se già la conoscevo; lei, per esempio, ha cominciato a lavorare al comune di Colleferro e io sono molto amico del sindaco però ovviamente non mi andava di disturbarla provando a utilizzare questo canale quindi ho atteso e lei ha deciso, dopo quasi due anni, di fare una lunga intervista e proprio l’altro giorno mi ha detto: «Ti ho detto cose che neanche io sapevo di me». Per me questa cosa [che ha detto] vale tanto anche perché poi l’altro ieri, quando abbiamo presentato il libro a casa sua a Paliano, lei ha deciso di intervenire accanto a me autonomamente, non era prevista in scaletta, e questo vale tutto il lavoro perché ha deciso di parlare non solo in quanto “sorella di” ma di parlare per sé stessa: prendere parola nello spazio pubblico, tra l’altro nella sua cittadina con tutto quello che vuol dire, ragazza, giovane mamma, italiana-capoverdiana.
Giulia: Dici che in qualche modo è stato anche un esercizio di presa di parola pubblica.
Alessandro: Presa di parola politica, anche se lei probabilmente non lo definirebbe così, ma ha riconosciuto in me probabilmente non più un giornalista, ma una persona con cui dialogare.
Giulia: Hai detto due cose che mi interessano particolarmente, ti chiedo un approfondimento su entrambe. Intanto questa cosa che hai/avete utilizzato anche i social come fonti, perché c’è un dibattito su questo, analogo in un certo senso a quello che una volta c’era sulle fonti orali, anche se immagino che forse per un giornalista sia più immediato oggi [usare i social] come appiglio di documentazione; e poi questa cosa dei tempi, no? Ci sono interviste che sono arrivate dopo tanto tempo, ci sono alcune interviste che non sono arrivate mai. Questa cosa anche è interessante, ti volevo chiedere qualcosa di più su questo.
Alessandro: Sui tempi lunghi sì, assolutamente, alcune sono arrivate anche solo una settimana prima del finale della registrazione e però sono quelle forse veramente più intense e in quel caso è stata davvero solo l’attesa che le ha fatte arrivare, perché sennò non le avremmo avute e questo la cronaca non te lo permette de fa perché devi consegnare subito qualcosa e invece, come dice spesso Portelli e altri, le aspettative si disintegrano e uno accoglie il movimento degli intervistati, lo attende e in alcuni casi hanno stravolto sia l’agenda ma anche le puntate, il modo di raccontare e anche quello andava raccontato. In alcuni casi sembra ripetitivo, me ne rendo conto, alcune testimonianze dicono probabilmente le stesse cose, però siccome volevamo amplificare un coro, anche se non era proprio la grammatica del podcast l’abbiamo inserito in questo modo; può sembrare un po’ sgrammaticato il nostro podcast, a livello di struttura, di come sono fatti i podcast soprattutto legati agli omicidi.
Giulia: Questa cosa anche mi incuriosiva: non avete seguito una modalità, un format di costruzione dei podcast che comunque esiste, in particolare pensando alla tipologia noir-cronaca nera.
Alessandro: Sì, esatto. Per esempio, sia io che Christian abbiamo ascoltato La città dei vivi di Nicola Lagioia. Io l’ho ascoltato 2-3 volte e all’inizio mi aveva preso tantissimo però poi, mentre stavo in macchina forse, mi sono detto: «Questo è quello che non voglio fare» – lo puoi mettere questo eh [Giulia sorride] – perché era eccessivamente spostato sugli assassini in quel caso, giustamente perché lì c’era da indagare un omicidio inspiegabile legato anche a due personaggi che magari non erano brutali invece nel nostro omicidio, soprattutto i fratelli Bianchi, erano facilmente accostabili alla brutalità. Però, e su questo mi ci ha fatto riflettere Raimo, nel podcast La città dei vivi ci sono pochissime voci legate alla vittima. C’è ampio spazio dato a un giornalista di Rete 4, ma non c’è un coro per Luca Varani, c’è solo il professore delle serali che viene intervistato. E quindi quella cosa là, quella mancanza, c’ha fatto proprio riempire il podcast al contrario: è proprio un coro di persone che magari non conoscevano Willy Monteiro Duarte […] però a me interessava quella parte là, la parte più corale, legata all’aspetto intellettuale di quelle ragazze e di quei ragazzi.
Giulia: Perché poi alla fine emergono un sacco di temi che, come dicevi adesso, fanno riflettere al di là del caso specifico. Come ti sei mosso, come vi siete mossi? Cioè hai cominciato a intervistare e poi magari si aprivano dei temi e sei andato a approfondirli; quindi, ti sei fatto magari guidare dalle fonti…avevi già delle questioni in testa immagino.
Alessandro: Avevo già delle questioni, legate soprattutto al fatto che sono di qua e a dei temi che ho sempre trattato però anche…i tempi morti…. Valorizzare anche la quotidianità dell’uscita serale e dei miei spazi era un po’ guardare quello che faccio quotidianamente con occhi diversi, con orecchie diverse, incastonandole in una cosa che poteva avere un racconto interessante per chi non è di queste zone e magari ci si può rispecchiare se sta in zone molto simili a queste, periurbane, dell’Italia intermedia insomma. Legate non tanto allo scoppio della violenza, ma a tutto quello che c’è prima: i tragitti sull’autobus, il motorino come moltiplicazione delle possibilità, lo sviluppo di queste zone però fatto da chi vive il presente, dai ragazzi di vent’anni di qua. Cercando anche di sorpassare il dibattitto su chi resta e chi arriva, sulla restanza eccetera, politicizzandolo un po’, togliendo qualsiasi aspetto romantico, facendo vedere le persone che vivono queste zone come spazio di contemporaneità, co’ tutti elementi, tra cui la violenza e il lavoro, visti però con un’ottica contemporanea e non come tratti ancestrali di un’Italia residuale, non so se mi so’ spiegato.
Giulia: Benissimo [sorride].
Alessandro: Poi sì le fonti mi hanno guidato da altre persone cercando, e poi forse questo è l’insegnamento più grande a livello giornalistico, di allontanarmi dalle amicizie, dalla parte anche più vicina a me e più comfort zone, fatta di persone politicizzate del frastagliato mondo progressista, se così vogliamo definirlo, persone che hanno tutto chiaro, voci super-razionali che te la spiegano con tanti anni di accademia, di Erasmus, di lavori fatti sul campo eccetera. Le fonti sono state occasione di allontanarmi da tutto questo ed arrivare da altre persone, che magari non erano nella mia orbita ecco.
Giulia: La storia orale c’ha un po’ questa capacità da un lato di ribaltare i temi e dall’altra anche di portarti su strade e a incontri che non avresti programmato. E il tuo abitare questo paesaggio penso sia stato al tempo stesso un’agevolazione, un’opportunità sicuramente di stare in queste cose anche con un certo, passami il termine, agio, cioè non hai il disagio di venire da fuori a raccontare una storia che non ti appartiene, tu stai qui, fai parte di questo mondo, però immagino possa aver significato, altra faccia della medaglia, delle complicazioni, delle problematiche.
Alessandro: Una sicuramente è proprio questa: che ci sei immerso e quindi non ti accorgi di alcune cose. Sicuramente aver lavorato con più persone, e soprattutto con Christian Raimo, ha aiutato anche un diverso tipo di coinvolgimento degli intervistati quindi diversi gradi di separazione che hanno aiutato. E poi credo poco alla cosa che se sei di un posto allora lo sai raccontare bene, non vuol dire niente. Cioè puoi stare in un posto tutta la vita e farne racconti patinati oppure, tutto al contrario, racconti che fanno sembrare quello che hai sotto casa un’eterna suburra, no? Quindi secondo me non vuol dire niente essere di quel posto.
Giulia: Non è una legittimazione dici.
Alessandro: Non è una legittimazione, questo probabilmente l’ha spiegato bene Zerocalcare nell’ultima serie: devi chiederti se hai la legittimità di raccontare alcune cose. E in alcuni momenti mi sono anche chiesto se andava lasciata come cosa oppure no, poi alla fine i risultati delle conversazioni, ma anche la partecipazione, soprattutto delle ragazze di Paliano, ma anche di Colleferro e di Artena, vedevo in loro la volontà di esprimersi e vedevano nello strumento del podcast e poi nel libro la possibilità di farlo e allora ho detto: «Si può fare». E la conferma arriva proprio magari con le presentazioni del podcast e del libro dove, in molti casi, la co-autorialità diventa anche possibilità di esprimersi in questi contesti e questa per me è la parte positiva della restituzione, a prescindere da chi magari ha già un ruolo nell’associazionismo o nella politica eccetera, gli intervistati in questo caso vengono in un modo abbastanza agile alle presentazioni e quindi fa capire che la comunità che racconti è anche presentabile a questo tipo di eventi ed è una cosa che, lo vedo, molto spesso non accade, no? Tanti ricercatori e ricercatrici accademici, anche con buone intenzioni, alla fine estraggono [delle voci da un contesto] e difficilmente poi [agli eventi pubblici] nel tavolo dei relatori e delle relatrici ci sono anche i testimoni.
Giulia: Il tema della co-autorialità viene spesso sbandierato per…mettersi un bel vestito, non so come dire. È chiaro che, almeno io la penso così mi dirai come la pensi tu, dell’intervista sono più autori loro, i nostri intervistati che noi, come ci insegna anche Portelli, però c’è poi la fase dell’interpretazione in cui il potere passa a noi, è una parola fastidiosa con cui però bisogna fare i conti.
Alessandro: È vero.
Giulia: E poi però si può tornare ad una dimensione più orizzontalmente co-autoriale…
Alessandro: Nei momenti pubblici.
Giulia: … nei momenti in cui si discute e si restituisce.
Alessandro: Sì, certo. È ovvio, come hai giustamente detto tu, che il potere passa a chi fa il lavoro di messa a sistema del materiale ed è giusto così. Ed è lì che ovviamente si vede la postura che volevi avere, e alcune questioni che abbiamo trattato nel podcast, ad esempio, per i ragazzi e le ragazze sono magari minoritarie, tra cui quelle legata alla parte più storica o alle questioni più di classe, una lettura se vuoi marxista di alcuni fenomeni che probabilmente loro non farebbero. E però appunto il contrappeso arriva nei momenti pubblici in cui invece loro possono anche smentirci o comunque indirizzare il momento pubblico verso quello che per loro è importante insomma.
Giulia: Certo. E la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze che hai/che avete intervistato, hanno intorno ai vent’anni, no?
Alessandro: Sì.
Giulia: Tu, penso che sia mio coetaneo quindi attorno ai trenta.
Alessandro: Trenta, sì.
Giulia: Uno scarto non grandissimo, però significativo; quindi, rimanendo diciamo nell’ottica della prossimità nella differenza che cosa ha significato questo scarto per te?
Alessandro: È stato utile. Peraltro, queste interviste sono arrivate nel momento in cui facevo una supplenza in un centro di formazione professionale a Roma per cui anche lì, per caso, il lavoro è stato utile perché avevo già una vicinanza con studentesse e studenti più o meno di quella età. Gli intervistati erano un po’ più grandi però è stato utile [avere questa esperienza] per mettere al centro la categoria della generazione e anche le tematiche del lavoro, del reddito e della città dello spazio sociale, che ho scoperto un po’ da AISO e da Gabriella Gribaudi, cioè come si muovono queste persone all’interno dello spazio, non la città della pietra, che molto spesso è la cifra con cui si racconta l’Italia intermedia perché caratteristica, tipica eccetera, ma i movimenti delle ragazze e dei ragazzi, i tragitti e le storie di vita che ti insegnano, ti fanno capire, come si muovono in questi spazi con tutto un portato di desideri e di trasformazioni che so’ diverse dalle mie e magari cambieranno anche per loro. Per esempio, è stato interessante capire se loro vogliono restare oppure no, che la questione lavorativa è centrale perché molte delle persone intervistate lavorano da quando avevano 14-15 anni e popolano il mondo della ristorazione o lavorano nelle ditte locali dell’edilizia. E sono persone che difficilmente vengono raccontate e, se vengono raccontate, o vengono estetizzate e romanticizzate o sono [dentro] racconti di periferia legati ai blocchi, alle grandi case popolari che qua difficilmente ci sono; insomma, se ci sono, o ci arrivano per cronaca nera o per un racconto romantico di chi ce la fa con la sua idea innovativa di start up o, in questo per esempio Artena è emblematica, i tantissimi racconti di Francesco Bucci che insieme al padre ha deciso di continuare il lavoro del mulattiere, ma nessuno parla delle condizioni materiali della loro vita, quindi magari c’è un racconto appunto estetico di questo e poco racconto degli spazi sociali e della sottrazione dei servizi. O anche solo alle modalità di aggregazione che in alcuni casi sono una vita sociale legati ai pub, occasioni serali.
Giulia: Queste sono tra le chiavi di lettura che avete offerto – il lavoro, l’assenza di welfare e le pratiche di svago e divertimento possibili in questi luoghi – più interessanti, insieme alla questione di genere.
Alessandro: Si, la questione patriarcale esce fuori proprio dalle fonti e dalle ragazze intervistate, legata soprattutto allo scoppio della violenza [di quella sera] e per questo abbiamo voluto intervistare Mattia Faraoni, che è un pugile e uno youtuber che secondo me, in una parte dell’intervista, sintetizza un sacco de trattati storici sulla violenza. Dice: «La violenza ha un significato» e secondo me, ascoltandolo in un podcast che arriva ai ventenni, ha molto più significato di tantissime conferenze con professoroni perché quello è un lottatore di MMA, di kick boxing, in un podcast in cui due degli accusati fanno MMA e smonta alcune retoriche che secondo me erano inservibili sull’omicidio di Willy Monteiro Duarte e lui lì fa una cosa molto importante cioè raccontare il sé nell’altro, come direbbero quelli bravi, perché fa tutto un ragionamento di ansie, di insufficienze, che il combattente sente nel momento in cui sale nello spazio del ring e l’estraneità alla violenza, invece, quando stai fuori [dal ring e dalla palestra], che non ti va di fare a botte insomma. Per questo c’ho tenuto a farlo tornare ad Artena, durante la pandemia, in un incontro per parlare in generale delle forme della violenza, senza citare il caso specifico; per me, far tornare una delle voci del podcast nello spazio pubblico di Artena era un modo per continuare la ricerca. Poi certo, la questione di genere e patriarcale era minoritaria nelle interviste, ma era giusto e importante farla emergere, e mi rendo conto anche parlando con la sorella di Willy, che magari non lo esplicita, che quella sia una parte che le interessa. Anche quel giorno, la sera dell’omicidio di Willy, c’è stato un episodio di catcalling da parte di uno degli accusati, no? Staccato dalla violenza di quella sera, però era un po’ l’innesco se vogliamo. E quindi metterla all’interno della narrazione era utile, anche se non è stato molto capito tutt’ora, anche da persone a me vicine, persone politicizzate, cioè l’elemento patriarcale in quella storia c’è, però non tutti lo vedono centrale. E invece effettivamente è un po’ la banalità del patriarcato, più che la banalità del male: è un momento di un gallismo che arriva che è comunissimo, che difficilmente in questo caso possiamo legare ad un fattore generazionale, è una questione che si lega se vogliamo anche ai nostri nonni. La difesa delle donne, cercare la persona che ha ingiuriato la tua ragazza eccetera eccetera, in quel caso secondo me era importante metterla nella narrazione perché comunque è stato un elemento di quella sera. Parte tutto da un: «Ah, bella!» che è una cosa che boh, come dicevo l’altra volta ad Artena, ci avvicina molto più agli accusati che alla vittima. Per me è stato anche un modo di far vedere, visto che sono dello stesso paese degli accusati, di far capire che ci può essere anche una vicinanza con le persone accusate dell’omicidio, non solo una vicinanza con la vittima, in cui uno può benissimo rispecchiarsi per le questioni lavorative, tanti ragazzi possono riconoscersi nella storia di Willy, però se la mettiamo su quel piano di lettura, negli accusati possiamo riconoscere tanti comportamenti vicini a noi, noi maschi.
Giulia: Per questo, perché avvicina, forse più problematico da digerire.
Alessandro: Ovvio che non tutti i catcalling finisco con un omicidio e non tutti fanno catcalling però quella cosa là, se la metti lontano da te, effettivamente ti rassicura, dici: «Non sono un coglione tanto quanto Mario Pincarelli, non sono un coglione quanto Francesco Bellegia» però è troppo facile distaccartici così tanto.
Giulia: Lo vediamo anche in questi giorni, tutti ‘sti appelli: «Non tutti gli uomini sono così» eccetera eccetera.
Alessandro: In questa generazione di intervistati, l’ho visto seguendo [sui social] le ragazze e i ragazzi che ho intervistato, i discorsi di Elena Cecchetin eccetera, questi discorsi qua sono le cose più sedimentate, di più rispetto alla questione lavorativa: cioè alzano di più le antenne.
Giulia: Senti, ma tu come hai lavorato proprio? Cioè, la scelta degli intervistati me l’hai raccontata più o meno: sei partito dalle cerchie di conoscenza per andare poi ben oltre. Poi, che facevi? Le interviste le facevi da solo o con Christian?
Alessandro: Alcune da solo, per una questione di vicinanza, alcune con Christian. Nella scelta delle persone da intervistare c’è stata una fiducia da parte di Christian: avevamo un’agenda e gli dicevo chi era disponibile quel giorno, lui veniva da Roma e andavamo ad intervistare. Li abbiamo incontrati o in posti pubblici oppure abbiamo usato come base lo Scaffale ambientalista che era la sede della mia associazione, l’Unione giovani indipendenti, un’associazione ambientalista, ed era uno spazio abbastanza silenzioso, vicino a piazza Italia dove era avvenuto l’omicidio però, chiusa la porta, c’era anche la possibilità di stare tranquilli ed esprimersi di più.
Giulia: Uno spazio protetto diciamo.
Alessandro: Protetto, sì. E ha anche una biblioteca autocostruita però appunto erano gli anni pandemici quindi mascherina, magari non c’era l’utenza, c’eravamo solo noi e allora avevamo la possibilità di chiudere il portone e stare tranquilli per ore.
Giulia: E chi lo sceglieva il posto, tendenzialmente? Cioè se stare lì [allo Scaffale ambientalista] o da un’altra parte.
Alessandro: Chiedevo: «Dove ci vogliamo vedere?» oppure magari proponevo direttamente, alcune le ho fatte anche a casa mia: quel periodo abitavo a Colleferro con la mia ragazza e, con chi voleva, ci vedevamo a casa mia. Per esempio, Federico Zurma, che è il ragazzo per cui Willy interviene, che non è mai stato intervistato da nessuno, insieme con Leonardo Mosetti, che è uno degli intervistati e testimoni dell’omicidio, sono venuti tutti e due a casa mia. Devo dire che quella è stata un’intervista difficile, perché è stata molto intensa; lui si è bloccato tantissime volte e in quel caso effettivamente per me tenere fisso la modalità della storia orale e tutto quello che ho letto su AISO è stato utilissimo per concludere l’intervista, insomma, perché è stata complicata, difficile per lui, io mi sentivo in difficoltà…non era un’intervista giornalistica insomma.
Giulia4: […] Ti volevo chiedere secondo te che rapporto c’è tra storia orale e giornalismo, quali pratiche hanno in comune, quali invece sono gli aspetti che le differenziano a partire dall’ovvia considerazione che condividono la tipologia di fonte, l’intervista.
Alessandro: Sì, ovviamente storia orale e giornalismo condividono lo strumento dell’intervista e molti strumenti, in generale, per fare indagine su persone, territori, questioni. […] In un’indagine di storia orale conta anche il come, non soltanto il cosa, ti dicono le persone, i protagonisti e le protagoniste della ricerca; mentre nel giornalismo sono importanti i fatti. E poi c’è anche un altro discorso che riguarda il giornalismo soprattutto quando deve cercare di indagare personalità, soggetti, enti che hanno ruoli di potere, ruoli ben specifici, e la storia orale di solito fa altro: amplifica un coro, molti dei lavori che ho letto sono proprio lavori di voci che sono state disarcionate dal racconto pubblico, no? La storia orale, almeno quello che ho imparato leggendo le cose di Portelli e di altri autori, amplifica le voci delle classi non egemoni, e credo che la storia orale su questo possa dare una grande mano al giornalismo. Le storie di vita entrano nel giornalismo e a volte il giornalismo le utilizza e ci entra a gamba tesa, mentre magari poi entra in punta di piedi nei palazzi del potere. La storia orale permette ai giornalisti di avere una postura utile e rispettosa delle persone che incroci, che ti danno il loro tempo e le loro storie, a volte dolorose [sia quando si tratta] di cronaca nera o anche quando si tratta di eventi tragici, di disastri, terremoti e così via. La storia orale può aiutare il giornalismo con una postura sicuramente etica, che non sia predatoria [nei confronti] delle persone che incontri durante un’inchiesta.
Giulia: E ogni volta poi le trascrivevi [le interviste] oppure no?
Alessandro: Sì, trascrivevo tutto per scegliere poi delle parti, così poi da formare la puntata, considerando che il podcast non permette… cioè sì permette diverse volte l’inserimento di una stessa voce però per come è fatto il podcast devi per forza tagliare l’intervista, perché devi inserire, per una questione di attenzione, la voce di chi fa lo storytelling, nel nostro caso Claudio Morici o me e Christian che facciamo più da commento; quindi abbiamo selezionato veramente un terzo delle interviste, per questo il libro è stato utile perché magari parti che non abbiamo inserito lì, che ne so alcuni audio Whatsapp, il libro ha permesso di metterli per intero. Ecco, per esempio alcuni intervistati hanno voluto aggiungere delle cose e semplicemente avevo gli audio su Whatsapp e chiedevo se potevamo utilizzarli. Quasi tutti gli intervistati hanno avuto la loro puntata prima.
Giulia: Ok, un lavorone questo.
Alessandro: La puntata o comunque la loro parte selezionata, soprattutto Milena. Devo dire che la disponibilità più grande ce l’ho avuta da Michela Timperi e Caterina Montesanti, che sono due amiche di Willy Monteiro Duarte, che sono venute a presentare il podcast e il libro tante volte, e loro sono state utili perché praticamente ogni volta che avevo un premontato delle puntate glielo inviavo in un gruppo Whatsapp che si chiamava “Gruppo podcast” che avevo con loro e sono state le prime a dare dei feedback.
Giulia: E hai mai dovuto cambiare, non dico aggiustare piccole cose, ma cambiare sostanzialmente dopo averlo mandato alle persone in anteprima?
Alessandro: Ehm, no, devo dire no. È andata abbastanza bene. Piccoli aggiustamenti, non stravolgimenti.
Giulia: Le interviste immagino, pensando a quello che mi hai detto prima5, che non siano archiviate, cioè le avete solo voi?
Alessandro: Sì, le originali sì.
Giulia: E avreste intenzione di archiviarle?
Alessandro: Sarebbe molto bello avere un archivio sonoro delle interviste perché altrimenti c’è solo il podcast. Sì, assolutamente, però al momento non ci sono le condizioni. So che a Colleferro ci sarà la rivalutazione di un archivio di documentazione che c’è, magari si potranno mettere lì, o qua ad Artena oppure caricarle online in qualche modo.
Giulia: Tutto questo lavoro ha cambiato la relazione…anzi, scusa ti faccio una doppia domanda: in che modo, nel tempo, si è trasformata la relazione che hai avuto con gli intervistati…
Alessandro: È cambiata, sì, in alcuni casi è diventata amicizia o quasi. Faccio un esempio: l’altro giorno abbiamo presentato il libro a Paliano e dopo siamo rimasti a pranzo con la sorella di Willy e con gli amici che hanno partecipato, che hanno dieci anni meno di me, ed è stato un momento bellissimo perché capisci non solo la fiducia, ma abbiamo parlato di un sacco di argomenti….la possibilità di stare qua, a prescindere dal lavoro giornalistico, dal se pubblichi un articolo o no, e avere rapporti con le persone che sono protagonisti di una storia assurda e atroce per loro… però ecco quella è la parte più bella per me: avere persone con cui confrontarsi che non erano amici miei prima. Oppure per esempio Leonardo Mosetti: con lui, ogni volta che nella cronaca c’è qualcosa che riguarda l’omicidio di Willy, un’udienza o una cosa, ci scriviamo per avere un confronto.
Giulia: E anche il tuo rapporto con questo territorio è cambiato?
Alessandro: Sì, sì. È cambiato sicuramente, poi uno cresce pure eh, però è …. Non so come dire… non è disillusione, però è la consapevolezza che la patina è ancora più squarciata, non so come dire, cioè da parte mia forse è essere ancorati ancora di più alla realtà e… non lo so, mi ha fatto capire che oltre alle questioni ambientali [di cui già mi occupavo] c’è la possibilità di raccontare tantissime dinamiche che riguardano l’Italia contemporanea. […] cioè che comunque se uno resta qua oppure no, a prescindere dal fatto che io sia di qua, c’è la possibilità di raccontare delle dinamiche, dei movimenti che accadono che sono secondo me sono interessanti per molte altre parti d’Italia: dal familismo amorale che magari riconosci più in zone più piccole, fino a nuovi investimenti su modifiche del territorio legate a questioni finanziarie eccetera, a questioni politiche che non sono sintomatiche di una zona, anche se può sembrare, ma riguardano tante parti d’Italia e che magari qua capisci di più rispetto a grandi centri perché hai la possibilità di sbattere la testa e le orecchie con delle realtà che in ambienti più grandi sono più distanti e quindi più difficili da raggiungere. E questo lo vedo tanto anche nei momenti pubblici, politici e culturali perché – così mi inimico un po’ de roba romana – se vado a un’iniziativa che riguarda la cultura e la politica, alla fine ho la sensazione di trovarmi di fronte a tantissime monadi che parlano ad un pubblico identico; invece, se fai ‘na cosa qua a Colleferro, sbatti testa, orecchie e corpi con persone molto differenti [interruzione per saluti e scambi di battute].
Giulia: Questa cosa pure è interessante, anche se scomoda per la mia provenienza [sorride], però questa attenzione al contesto, a raccontare il contesto, tutta la cura rispetto alla restituzione del lavoro che fate… […]
Alessandro: Questo sì, come dicevo […] quello che sta succedendo adesso è che le due città, la città della pietra e dello spazio sociale, si sono modificate, no? L’altro giorno a Paliano è stata inaugurata una statua per Willy, ci so’ i murales, lo spazio pubblico è proprio cambiato: la piazza dove è avvenuto l’omicidio ora è una piazza bianca e quello spazio si è modificato per quel fatto e poi c’è la città dello spazio sociale che è data dalle persone che si muovono, che hanno consegnato memorie: la parte immateriale che resterà.
Giulia: E l’una non si spiega, non si racconta…
Giulia e Alessandro: …senza l’altra.
Giulia: Senti, io ti ringrazio moltissimo e mi prenderò la libertà semmai di fare come te e i tuoi intervistati e mandarti
Alessandro: Qualche audio whatsapp, va bene, va benissimo [sorride].
NOTE
1 Willy, una storia di ragazzi, un podcast di Christian Raimo, Teho Teardo, Claudio Morici, Alessandro Coltré e Alberto Nerazzini; musica e drammaturgia sonora Teho Teardo; registrazione e editing voci Francesco Fazzi; produzione Dersu e Storielibere.fm
2 Christian Raimo con Alessandro Coltré, Willy. Una storia di ragazzi. Il delitto di Colleferro: inchiesta su un massacro, Milano, Rizzoli, 2023.
3 Mi riferisco in particolare al convegno L’intervista come strumento di documentazione: giornalismo, antropologia, storia orale che si è svolto presso l’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi nel maggio del 1986.
4 Questa domanda, e la successiva risposta, sono state registrate “in differita” attraverso Whatsapp. L’audio di Alessandro è del 14 dicembre 2023 e la sua trascrizione è stata inserita in questo passaggio per affinità tematica.
5 Mentre camminavamo abbiamo parlato del suo precedente lavoro legato al “Quaderno di comunità di Artena” e mi ha raccontato che, al momento, le interviste sono conservate presso di lui poiché non ha trovato un archivio adatto al deposito.