di Alice Mandracci
Sabato 17 febbraio 2024 si è svolta a Torino la Passeggiata lancista per Borgo San Paolo che ho avuto il piacere di organizzare in collaborazione con l’Associazione Monginevro Cultura, l’Associazione ex-Allievi Fiat e la Fondazione Merz in occasione dell’AnthroDay. Si tratta di una più ampia iniziativa dell’Università di Milano-Bicocca a cui, da qualche anno, prende parte anche l’Ateneo torinese. L’obiettivo è quello di fare un’antropologia pubblica, che esca dall’accademia per entrare in dialogo con territori, comunità e realtà plurali con uno spirito di apertura e collaborazione. Come ho avuto modo di spiegare ai partecipanti prima dell’inizio del tour, per me si è trattato di cogliere una preziosa occasione di restituzione pubblica di un percorso di ricerca che, da qualche anno, mi ha portata ad interfacciarmi con il quartiere e interrogarmi sulla sua storia, sulle trasformazioni che si sono susseguite negli anni e sui processi di formazione della memoria locale.
Il borgo è indissolubilmente legato alla parabola della fabbrica automobilistica Lancia che, fondata da Vincenzo Lancia e Claudio Fogolin nel 1906, vi si è trasferita nel 1911. Sin dall’inizio del secolo scorso, questa presenza si è radicata profondamente nel territorio, espandendosi progressivamente al suo interno e costituendo non solo un’importante risorsa di impiego per i sanpaolini ma anche la matrice socio-culturale di un habitus lancista che trova in San Paolo la sua declinazione territoriale. Lancia è stata acquisita da Fiat nel 1969 e, a partire dagli anni Settanta, la produzione è stata progressivamente smantellata e l’eredità materiale che la fabbrica ha lasciato nel costruito è stata oggetto di diversificati processi di trasformazione tuttora in atto.
Alla ricerca delle tracce fisiche della presenza Lancia abbiamo accompagnato una narrazione aneddotica ed evocativa della storia aziendale a cura del presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, che si è arricchita in dialogo con le memorie e le testimonianze di alcuni dei partecipanti. Questo intreccio tra la natura privata del ricordo personale e la storia pubblica dell’impresa si è rivelata particolarmente illuminante nell’affrontarne una pagina poco nota: l’esperienza della Scuola Aziendale Lancia (SAL). Una realtà poco conosciuta di cui sono rimaste pochissime tracce e testimonianze, ragion per cui ho deciso di coinvolgere l’Associazione ex-Allievi Fiat (in cui è confluita ormai da decenni quella Lancia), di cui avevo conosciuto il presidente in fase di ricerca. Davanti all’ex-sede che attualmente ospita un campus universitario, Roberto Puglisi, ex-allievo Lancia e figlio del direttore, ha ripercorso le varie tappe della storia della scuola, soffermandosi sulla doppia vocazione teorica e pratica della formazione, sulla severa disciplina interna e sul profondo impatto che l’esperienza ha costituito per gli ex-allievi. Il senso di orgoglio e di identificazione in Lancia è stato ribadito a più riprese durante gli interventi e il dialogo che si è instaurato successivamente con altri ex-allievi, da cui è emersa la centralità che l’esperienza in SAL riveste nelle loro diverse biografie.1
La Scuola ha lasciato un marchio profondo in coloro che l’hanno vissuta in prima persona, ma le testimonianze d’archivio che sono riuscita a rintracciare sono purtroppo poche e frammentarie. D’altro canto, la curiosità iniziale trova origine nella mia lunga relazione di carattere personale con Gianni, che ho conosciuto in qualità di maestro di judo nel 2012 e ho poi frequentato sempre più assiduamente anche al di là delle esperienze in ambito sportivo. La ricerca che ne è conseguita molto deve alle interviste e alle testimonianze orali che sono riuscita a raccogliere tra coloro che hanno intrapreso il percorso di formazione in SAL in periodi differenti. Le traiettorie biografiche di queste soggettività hanno poi intrapreso strade difformi, condizionando lo sguardo posto al passato e modulando differentemente il proprio posizionamento nei confronti dell’oggetto di indagine. Ogni testimonianza è stata preziosa nel contribuire al processo conoscitivo e, pur al netto delle peculiarità individuali, nel confronto e nell’analisi sono emersi temi comuni e tradizioni narrative specifiche del racconto formativo in SAL. Tra questi emergono la dura disciplina, l’importanza dell’addestramento in officina, la vicinanza con il contesto aziendale ed il profondo impatto che questa esperienza ha avuto sia nel modulare l’attitudine al lavoro e la propria carriera professionale che nel condizionare alcuni tratti della propria personalità più in generale.
Vorrei dunque proporre la lettura della prima intervista che ho realizzato il 12 marzo 2023 con un ex-allievo che non è formalmente socio dell’Associazione: dopo aver a più riprese discusso del mio abbozzo di ricerca con Gianni, questa è stata la prima occasione di raccogliere la sua testimonianza. Nato a Torino nel 1964, ha lavorato come modellatore in legno nei centri stile Fiat e Bertone per poi passare alla progettazione in qualità di consulente negli ultimi vent’anni. La situazione d’intervista in cui ha preso forma il dialogo tra di noi è anzitutto condizionata dalla relazione personale che ci lega ormai da molti anni e che trova origine nella comune attività judoistica. Un aspetto, peraltro, non ininfluente giacché è proprio nelle conversazioni circa i trascorsi sportivi che Gianni mi ha raccontato per la prima volta della sua esperienza in SAL. Come spesso succede, i vari aneddoti e racconti legati alla formazione scolastica si sono mano a mano palesati in dialoghi e occasioni differenti: durante l’intervista, per la prima volta, Gianni ha sistematicamente ripreso il filo di questi ricordi, proponendomene una narrazione coerente rispetto alla sua storia di vita. Questa conversazione, insomma, sicuramente non esaustiva, è solo uno dei vari tasselli che hanno costituito un lungo scambio dialogico che ha nutrito l’esperienza di ricerca, precedendola e seguendola nel suo dispiegarsi, continuando a costituire un confronto fruttuoso e ricco di potenzialità.
I nostri trascorsi comuni, la conoscenza reciproca e la peculiarità della situazione hanno sicuramente modulato il posizionamento di entrambi, sia nei confronti l’uno dell’altra che rispetto alle dinamiche entro cui si svolgeva il dialogo. L’implicazione emotiva di Gianni nel misurarsi con il proprio trascorso era resa più complessa dalla consapevolezza delle mie precedenti conoscenze in merito a molti degli argomenti e degli aneddoti raccontati. La mia volontà di instaurare un rapporto in tal senso collaborativo doveva, invece, misurarsi con l’intento di lasciargli la giusta libertà nel racconto, tentando di evitare interpolazioni e curvature che sfociassero in forzature. La testimonianza orale non precede la sua raccolta e la sua esistenza dipende dal rapporto intersoggettivo entro cui questa è stata creata: le peculiarità del rapporto tra me e Gianni si sono concretizzate in pudori, silenzi e sottintesi forse difficilmente comprensibili esternamente ma anche in aperture, racconti e confidenze scaturite proprio dall’intimità che ci lega. Un aspetto che risulta peraltro evidente nelle scelte lessicali adottate, le cui peculiarità emergono dall’intreccio di battute e storpiature divertite che si sono sedimentate negli anni. Questo serbatoio semantico di rimandi stratificati costituisce un orizzonte di senso privato a cui spesso entrambi facciamo implicitamente riferimento. Infine, non ho potuto prescindere dalla remora che ho provato nella prospettiva di coinvolgere una conoscenza personale entro un progetto di ricerca: si tratta di una sorta di scrupolo nell’entrare in contatto con questioni private in un contesto diverso e della volontà di mettere a proprio agio l’interlocutore nonché assicurare l’intento etico che sottende le proprie mosse. D’altro canto, è stato proprio Gianni che un mattino ha ribadito la sua disponibilità a farsi intervistare e, con fare piuttosto pragmatico, ha creato la situazione di possibilità affinché io potessi accendere il registratore e porre la prima confusa domanda:
Come sei entrato— anzi, che idea avevi della Lancia e com’è successo che sei entrato in questa scuola, come l’hai… cosa è successo, perché?
Ordunque, stiamo parlando di un periodo della vita di un ragazzo che aveva finito la terza media, quindi non conosceva un granché del mondo che lo circondava. Mi è sempre piaciuto disegnare, ma disegno come… ben sai, disegno a mano libera: fumetti, altri tipi di disegno… della meccanica non ne sapevo proprio assolutamente niente. La maggior parte dei professori, alle medie, mi dava o per il liceo artistico o grafico pubblicitario. Però quelli erano anche i tempi in cui entrare in Fiat — o in Lancia visto che era da poco diventato un gruppo unico2 — era quasi come entrare in un posto statale. Chiaramente non era una mia conoscenza a quell’epoca ma ce l’avevano i miei genitori, per cui sono stato — tra virgolette —, prendendo esempio dal racconto della Monaca di Monza nei Prosposi Messi di Alemanzo Sandroni…3 [ridiamo]
…che, noto scrittore!
Noto scrittore! Sono stato indirizzato dai genitori a questa… chiaramente io avevo per la testa ben altro, appunto: tipo fare il grafico pubblicitario o disegnatore di fumetti — queste cose. Il pezzo forte di convincimento è stato non tanto la garanzia di un lavoro alla fine del triennio, quanto il fatto che durante il triennio, al posto di ginnastica, si facesse judo, che era una cosa… le arti marziali erano una cosa che fin da piccolo mi aveva sempre appassionato. E so che sembra ridicolo, ma è andata proprio così: per convincermi mi avevano detto “vai lì a fare judo”.
…e tu eri tipo “yes, fico!”4
…e infatti, va beh. A quei tempi non è che uno ne capisca tanto del mondo, per cui c’era quello che mi piaceva e ho detto “va beh, facciamolo”. Nel mentre mi hanno portato a fare—perché non è che ti iscrivevi e finita lì: mi hanno portato a fare i test d’ingresso, che erano già abbastanza selettivi, nel senso che dovevi avere qualcuno che ti presentasse, che lavorasse già nel gruppo, e mio padre — lavorando alla Stampa — era già nel gruppo Fiat, già a quei tempi.
Ah!
Eh già, la Stampa era il giornale della Fiat…
Non mi era molto chiara questa cosa…
Eh già! Per cui, il primo scalino era superato, dopodiché abbiamo fatto i test, di cui — sinceramente — non ho un gran ricordo: non ricordo granché di questi test, non mi ricordo se si svolgevano in uno o più giorni e di che tipo di test si trattasse. Comunque, mi ricordo che dovevi andare a fare questi test, aspettare le tue graduatorie per sapere se eri stato ammesso o meno. E…
Curioso, però: rispetto ad entrare in una scuola normale, come l’avevi vissuta? …voglio dire, solitamente se vai ad un liceo o qualsiasi altra scuola, ti iscrivi e vai.
Non mi ero neanche posto il problema… l’unico problema che mi era posto era: e se non passo i test?
Eh, infatti!
Però, il problema non c’è stato: ho passato i test e sono entrato, punto.
E questo era nel… ‘78?
Sì. [silenzio]
E comunque dopo esserti iscritto…
Niente, poi a settembre si era iniziato: questo era avvenuto non mi ricordo se a giugno o luglio, comunque prima de— e a quel punto sono entrato.
E ti ricordi qualcosa dei primi giorni?
Sì, eccome! Mi ricordo soprattutto — sarà il primo, secondo o terzo giorno, adesso non ricordo bene… comunque, non era neanche una settimana che ero lì. Erano da poco usciti— è un aneddoto abbastanza così, però già dava un po’ un’idea: erano appena— da poco usciti quegli orologi digitali. A quei tempi più che quelli… c’erano quelli neri, che quando li accendevi c’erano tutti quei numeri rossi e quello dietro di me — mi sembra fosse P. B., mi sembra — ne aveva uno… cioè, chiaramente non ce n’erano tanti per classe: eravamo due classi da venti, la A e la B. Perché, chiaramente — ho dimenticato di dire prima — prendevano quaranta allievi l’anno e io sono stato uno di quei quaranta. E aveva questo orologio: si giocava a fare accendi e spegni avvicinandosi… cioè, nel minor tempo possibile. Erano comunque orologi che, già a quei tempi, contavano già il centesimo di secondo quando lo mettevi a cronometro. Per cui, si faceva questo giochino: ta—tac! Accendi e spegni, a chi stava nel minor tempo possibile. Quindi, l’ha fatto quello dietro, poi lo passa a me: ci provo anche io… poi, durante questi interscambi, il professore in cattedra ci chiama: “andate pure di là dal preside — dal direttore”. In realtà non avevamo fatto niente di male e il direttore ci aveva fatto un piccolo discorso abbastanza esplicativo di quella che sarebbe poi stata la nostra realtà là: in sintesi, ci aveva detto “ragazzi, qui non stiamo a pettinare le bambole.5 Non vi daremo mai una nota da firmare a casa perché dei vostri genitori non ci frega poi più di tanto perché dovete essere voi ad essere responsabili delle vostre azioni. Adesso siete qua: la prossima volta che sarete qua è per essere mandati via— allontanati dalla scuola.”
…che uno dice “mh, ok”!
Eh, il concetto era quello: cioè, eri responsabile di ciò che facevi e pagavi sulla tua pelle. È altrettanto vero che era una scuola dove comunque — cosa stranissima — ti pagavano. Poco, ma ti pagano per andare, per frequentarla. Altra cosa stranissima: ti davano tutto. Ti passavano libri, quaderni, biro, tutta la cancelleria possibile… brogliacci per prendere appunti, tutto. Righe…
…brogliacci?
Block notes, di carta riciclata: tra virgolette, nel senso che magari prendevano dagli uffici della Lancia dei fogli inutilizzati, li pinzano assieme e li potevi usare nella parte dietro, non scritta, per prendere appunti. Ti davano tutto: cioè, tu potevi presentarti lì praticamente in mutande… ti davano la tuta per l’officina e tutto. Le uniche due cose che abbiamo dovuto comprarci sono stati il calibro — che ho ancora di là, quello che ogni tanto uso — e la calcolatrice, che è ancora di là e che ho usato finché sono stato in officina. [risatina] L’ho sempre portata con me, usandola parecchio… ricordo che ai tempi c’era — non so se avessero una convenzione o cosa — all’interno… il calibro, chiaramente, l’abbiamo preso tutti lì: offrivano la possibilità di prendere una calcolatrice Texas, di cui, però, non ricordo bene la sigla… ad un prezzo conveniente. Aveva solo un difetto, un difettuccio, secondo il mio punto di vista — per cui io non ho usufruito di questa agevolazione, possiamo chiamarla così — e mi sono andato a comprare la calcolatrice fuori, perché io volevo una Casio FX120.
…quella!
Quella! Proprio quella: uno, aveva dieci cifre, al contrario delle altre che ne avevano otto. Due: tutti quelli che avevano le calcolatrici normali, per sviluppare gli angoli da centesimali a sessagesimali, dovevano fare delle operazioni. La FX120, con un tastino, schiacciavi e te le convertiva automaticamente!
Eh, eh! [risate]
Per cui, da buon pigro… ho subito voluto quella: me la son comprata. Tanto per comprare — magari l’ho anche pagata un po’ di più, però, per i tempi, era un bel pezzo e bom, ho comprato questa. Per il resto, passavano tutto loro. E quindi ci sta che richiedessero un po’ di serietà nei confronti di chi frequentava: non ti interessa la scuola? Non rompere le scatole, vai da un’altra parte. Tutt’ora concordo con questo pensiero. E infatti era richiesto comunque un livello di studio abbastanza costante, nel senso che dovevi dimostrare la sufficienza nell’arco dei trimestri: due trimestri insufficienti e significava che potevi tranquillamente andare in un’altra scuola. Non c’erano, appunto, note o richiami a famiglie, recuperi… no, no: buona la prima. Non per niente, abbiamo iniziato in 40 e abbiamo finito in 28.
…ma era— come dire, il fatto che fosse così selettiva e quindi — ora non so quanti della tua classe fossero bocciati — come veniva…
Ah, due trimestri insufficienti e non eri bocciato: non avevi neanche bisogno di arrivare a fine anno — avevi finito il tuo percorso, semplice.
Ma avevi — passami il termine — paura di essere bocciato oppure no? …cioè, tu nello specifico, dico.
Beh, io non sono mai stato uno di quelli studiosi: in realtà — l’avevano detto fin da subito — era una scuola in cui entravi alle otto e uscivi a mezzogiorno, rientravi alle due ed uscivi alle sei di sera. Non ti davano i compiti a casa, non c’erano assolutamente compiti a casa. Rettifico: di quelle otto ore, quattro erano dedicate allo studio e quattro le passavi in officina a lavorare.
Ed era il mattino o il pomeriggio? …cioè, c’era una suddivisione…
In prima facevi due ore al mattino e due al pomeriggio. In seconda — adesso non vorrei dire una stupidaggine — erano quattro ore: per dire, potrei ipotizzare al mattino o al pomeriggio ed in terza era dall’altra parte. Nel senso che l’officina era una: in prima facevamo solo aggiustaggio, quindi stavamo al banco di lavoro. Mentre invece — era un’officina abbastanza sviluppata: c’era il reparto torni, il reparto frese, il reparto rettifiche, il reparto saldatura, il reparto… come dire, taglio pezzi, c’era pure una brocciatrice: era molto attrezzata, questa officina. Noi, in prima stavamo nel reparto aggiustaggio, mentre alle macchine utensili ci stavano quelli di seconda o terza, dipende dagli orari. Paura… compiti non te ne davano, però paura di essere bocciati c’era: soprattutto in quelli come me che… però, effettivamente avevano ragione: se stavi attento alle lezioni e non facevi il fesso, a casa non avevi bisogno di annegarti in mezzo ai libri. Bastava dare eventualmente una scorciatina veloce e, se eri stato attento, eri a posto. Chiaro, c’erano prove, compiti in classe, interrogazioni: il resto per quanto riguarda la scuola — scuola inteso come materie teoriche — era come una scuola normale… c’erano comunque dei professori di istituti esterni, che venivano assunti: tutta gente di livello non indifferente, anche se ai tempi non si sapeva, chiaramente. Vedi solo ‘sta gente e la giudichi come un ragazzino può giudicare un professore, anche adesso a scuola… una cosa che, per esempio, aveva un po’ colpito, no?! In queste quattro ore — cinque giorni alla settimana perché si faceva dal lunedì al venerdì, orario classico direi di fabbrica, per quei tempi chiaramente — ce l’avevano detto: avremmo dovuto fare in tre anni il programma dei cinque. Perché questo? Perché non era garantito che il ragazzo alla fine del percorso dei tre anni andasse a prendersi il diploma, però non doveva neanche sentirsi impreparato nei confronti di chi il diploma l’aveva preso: okay, non hai il diploma ma sai di cosa si sta parlando. Per cui, in quei tre anni abbiamo svolto il programma di un corso di cinque anni. Il bello è che, in futuro — in futuro, scusami: a posteriori — ho poi scoperto che quel programma, che abbiamo fatto in tre anni a quattro ore al giorno in tutte le materie, era forse anche superiore a quello che gli altri facevano in cinque anni. Questo anche grazie a questi professori, che erano gente che, appunto, sapeva insegnare.
…mi sembra che comunque tu abbia un bel ricordo.
Mmh, ci sono ricordi belli e ricordi brutti: erano tutti abbastanza validi, tutti. Con alcuni ho anche avuto rapporti dopo la scuola. Prendi, ad esempio, M.: ci vado ancora a cena, lo vedo tutt’ora. È stato il mio primo maestro di judo, l’ho conosciuto lì alla Lancia e tutt’ora ci vediamo — siamo in contatto. Anni e anni fa uscivo in compagnia — nel senso che era la fidanzata di un amico — con la figlia del professore di matematica — A. Quando sono entrato a casa sua, ho detto “come ti chiami etc” e lei “A.”: cacchio! “Ma io avevo un professore di matematica che si chiamava A.!” “Guarda che caso, anche mio padre è un professore di matematica!” Boia cane, quando andiamo a casa sua: era lui! [risate]
E lui si ricordava di te?
Certo, anche perché A. era uno di quei personaggi un po’… una persona sempre molto pacata, molto eh, però aveva una particolarità. Una peculiarità che — devo essere sincero — odiavo e ho odiato: non potevi andare in quella scuola a fare l’hippy, dovevi comunque mantenere un contegno, capelli abbastanza corti e tutto. Quando tal professore si accorgeva che avevi i capelli un po’ troppo lunghi, non è che stava a dirti “vatti a tagliare i capelli”. Ti chiamava alla cattedra, apriva l’astuccio, prendeva un paio di forbicine, ti prendeva un ciuffo di capelli e te lo tagliava, te lo ridava [rido] e tu il giorno dopo andavi a tagliarti i capelli. [ridiamo]
Anche perché immagino fosse proprio qua davanti..! [risate]
Però, nonostante tutto l’ho trovato istruttivo. C’era questo di bello: erano problemi tuoi. I genitori non erano assolutamente coinvolti, se non per firmare eventualmente il pagellino che ti davano ogni tanto, periodicamente. In questo triennio abbiamo fatto — appunto — molte cose che gli altri nei cinque anni non avevano fatto… abbiamo letto anche — per dire una cazzata — tutti i “Promessi Sposi”. C’era questa professoressa di italiano che riusciva in una maniera fantastica a farti fare in contemporanea storia, geografia e letteratura — in un colpo solo. Nel senso che, partendo da una zona geografica, si studiava l’evoluzione di una società in quella zona e a quel punto, analizzando una società e tutto, hai una letteratura, di quella zona. A seconda di— veniva una visione globale di quell’epoca, che era una cosa decisamente più interessante che non imparare semplicemente dei dati a memoria, cosa che… lì quello che insegnavano era più a ragionare, piuttosto che imparare a memoria dei nudi dati o delle parole che — insensate, se le impari solo a memoria. E sì, effettivamente un po’ di paura ce l’avevo. Tutti ce l’avevamo, a meno che uno non fosse particolarmente… poi, a quell’età — detta sinceramente — ma chi cavolo aveva voglia di studiare? Suvvia! …per cui, eri sempre a rischio ed io ero il solito che riusciva a galleggiare intorno al cinque e mezzo, sei e sei e mezzo: eri lì, non è che avessi l’otto e allora sei sicuro e “vaffambagno!” Sei sempre lì e dici “mh, rasc rasc rasc” con le unghie.
Ma nelle valutazioni — nei voti — c’era la parte di officina?
Certo, perbacco!
…mh, io— cioè sono proprio ignorante sulle cose di officina, quindi…
Certo! Mah, allora prima ti insegnavano, facevi delle prove e poi avevi dei pezzi da fare, che erano il compito — diciamo. Partivi da pezzi chiaramente semplici, a finire con pezzi più complessi — a finire con degli assemblati. Per cui iniziavi, magari, a fare un piano con la lima e ti insegnavano come si tira di lima, come controllare il piano, come avere il riscontro e tutto e in base a come eseguivi il lavoro avevi la tua valutazione: se lo facevi bene, se lo facevi male, se lo facevi pt—pt! Da lì poi magari passavi alla squadretta, al pezzo a L, per cui dovevi fare i due pezzi ben fatti, perfettamente a 90 gradi. A finire a fare un esagono che si incastrava perfettamente in un foro esagonale… erano sempre cose più complesse, fino ad arrivare poi a — in seconda, in terza, appunto — fare… avevamo costruito delle morse per delle frese, per delle fresatrici, eseguite tutte a regola d’arte, proprio. Avevamo fatto morsetti… cioè, quelle morse che avevamo fatto le avevano poi montate sulle frese per lavorare.
Wow! Beh, un filo di soddisfazione penso che…
E certo! Di là — poi, se vuoi, posso farti fare delle foto — c’è un morsettino che avevamo costruito in acciaio — oserei dire — con vite micrometrica per spostare su e giù ed erano pezzi che— eseguiti probabilmente con una precisione fin esagerata, però per noi erano esercitazioni, per cui… ci hanno insegnato ad usare tutte quelle macchine, tutte. E davano i voti in base…
A come veniva eseguito il lavoro?
…a come veniva eseguito il lavoro, sì.
E il primo impatto come è stato? Perché giustamente mi dicevi che, dipendendo la selezione dal fatto di essere figli di qualcuno del gruppo, suppongo che molti fossero figli di persone che lavoravano in Fiat o in Lancia o…
Certo… eh, che te devo dì! Già la prima cosa strana è stata quando ci hanno dato la tuta: quindi, vai a cambiarti e ti metti la tuta blu con la scritta “Scuola Aziendale Lancia” qui sul taschino. Entri in questi spazi enormi, ti portano al tuo banchetto, ti fanno il discorso e tutto… e tu sei lì, hai tutte queste cose ignote davanti: dalla morse, al piano di riscontro, le lime, i raschietti, cose di cui non sai assolutamente niente. Dici “cosa sono queste cose?” Hai quattordici anni! Cioè, non… hai queste piccole macchine — piccole, relativamente — che puoi iniziare ad usare: il trapano a colonna… è tutta una novità. Le difficoltà: cavoli, con ‘sta lima che va su e giù e non sta dritta, ‘sta fetente! Quando si cercava di essere più furbi degli altri, no?! …degli istruttori. Per cui riempivi di blu di Prussia6 il piano di riscontro in modo che, quando arrivavi con il pezzo, praticamente lo annegavi dentro e poi dicevi “è tutto blu, è tutto blu! È in piano, è in piano!” Passava di lì l’istruttore e incominciava a prendere uno straccio e puliva tutto: c’era proprio solo un’ombra di questo blu di Prussia — che indicava poi i punti più alti del pezzo. E tu dicevi “ma così neanche si macchia…”: “è così che si guarda se è in piano!” E tu vedevi che c’erano due puntini in cui toccava e tutto il resto era bianco e “sì, okay, ricominciamo…” Eh, cercavamo anche noi escamotages per— si doveva poi tirare di lima: i calli che ti venivano, boia panettiera! …però, erano cose abbastanza divertenti. Ogni tanto volavano martelli, ma va beh — questo ci stava! [ride]
…scusa? [ridiamo]
È stata un’esperienza che ho trovato decisamente positiva. Poi, magari mi sbaglio, però io l’ho trovata positiva e continuo ad essere contento di averla fatta. […] Quella era una scuola di vita, non solo una scuola di…
Però, hai citato la palestra: vorrei farmi raccontare— perché adesso per me il judo, okay, è cosa nota, però è curiosissimo…
Ai tempi, il… la scuola era adiacente al Gruppo Sportivo: era proprio divisa da — divisa dal Gruppo Sportivo Lancia, chiaramente — un cancello. Ci era data l’opportunità, ad un prezzo veramente ridicolo, di iscriversi al Gruppo Sportivo Lancia e io mi ero iscritto a… sicuramente a ping-pong e judo. E avevi libero accesso, per svolgere quelle attività. Il prezzo mensile era proprio una cosa ridicola e ti veniva trattenuto mensilmente dalla paghetta che ti davano. E quando c’erano le due ore di judo in alternativa all’educazione fisica che si faceva nelle altre scuole, l’intera classe partiva, attraversava — passava dagli interni, attraversava questi cancelli e andava direttamente al centro lì in piazza Robilant. Teoricamente, quando uscivi alle sei, dovevi fare il giro da fuori e quindi passare — fare il giro dalla strada pubblica.
Ma quindi da via San Paolo, per…
Come? …sì, mi pare fosse via San Paolo, quella.
Cioè, tu uscivi da piazza — eri in piazza Robilant e poi dovevi…
No, io ero in largo San Paolo, uscivo e facevo il giro per arrivare in piazza Robilant. La scuola era proprio in faccia allo stabilimento Lancia San Paolo. Per cui, il problema qual era? Noi finivamo scuola alle sei: dovevi timbrare il cartellino, perché dovevi timbrare il cartellino alle otto, alle dodici, alle due e alle sei. Timbravi il cartellino, solo che alle sei iniziava anche il corso di judo in piazza Robilant, con il maestro L.
Ma era un corso, però, quello…
A parte!
A parte, okay… perché infatti non capivo.
Quello con maestro M. in prima e con il maestro C. in seconda e terza, faceva parte della ginnastica della scuola aziendale e avveniva sui tatami del Centro Sportivo del Gruppo Sportivo Lancia, ma non durante, ovviamente, la presenza di chi era iscritto al Gruppo Sportivo: le lezioni per quelli del Gruppo Sportivo erano dalle sei alle otto o sette e mezza… ora non ricordo bene l’orario di fine, ricordo quello di ingresso perché coincideva perfettamente. Allora, alle volte, cercavi di passare anche tu dall’interno: se non ti vedeva nessuno, se no erano cazziatoni a gogò! [ridacchia] Però… non erano una cosa comunque che ti avrebbero fustigato o cosa: ti beccavi la sgridata, “non farlo più” e punto. E poi, appunto, uscivo da lì alle sei, giravo dietro e andavo a farmi un’altra ora e mezza di judo o due… cosa che continuo a fare ancora oggi, quindi… non di fare—
…di fare il giro: ora sei molto più lontano! [ridiamo]
Adesso vado in altri posti, un po’ più…
E quindi in realtà, però: quello della sera suppongo fosse con persone varie perché era aperto — cioè, aperto a quelli del Gruppo Sportivo, però aperto [annuisce]. Però, invece, quelli della giornata, a fare le due ore di educazione fisica eravate…?
Eravamo solo noi.
Tutta la classe?
Sì.
Solo la tua sezione o tutte e due?
Mi sembra che lo facessimo una sezione alle volta, però non ci scommetterei il sangue… stiamo comunque parlando di quarant’anni fa, anche qualcosina in più!
Eh, lo so, però…
…anche qualcosina in più: quarantacinque anni fa! Mi sembra una classe alla volta, però — torno a ripetere — non ci scommetto su questo.
A te piaceva, inutile che io te lo chieda, però agli altri? …perché è strano, comunque: un conto è fare pallavolo o queste cose qua, che sono abbastanza classiche, un conto è fare judo — cioè, è più particolare.
Sì, è più particolare, però, effettivamente con la consapevolezza di adesso riconosco la completezza di questo sport, che ormai pratico da… da quarantacinque e più anni e ne riconosco i pregi e i difetti. Però… no, non piaceva a tutti. Esattamente come non piace a tutti oggi…
Beh, certo!
E quindi… poi, a quei tempi — erano fine anni ‘70 — per cui c’era il culto di Bruce Leo,7 i film sulle arti marziali dove vedevi eh… di conseguenza, se eri un deviato mentale [ride] da questi film, chiaramente volevi imparare queste cose: salti i grattacieli e tutto… cosa che non mi è mai riuscita, eh! …sinceramente. [ridiamo] Questa è un’altra storia… però, devo essere sincero, è stata la materia che mi tirava su tutto perché non sono mai stato troppo sotto il dieci [ridiamo].
Studioso… [silenzio]
Cosa pensi ti sia rimasto della scuola — come formazione, che magari non avresti avuto in una scuola classica?
Ho avuto l’esperienza…
Ovvio che lo puoi dire fino a un certo punto, però così come…
Ho avuto l’esperienza della scuola classica, volgarmente detta: quando ho fatto i due anni per prendere il diploma.
Scusa se ti interrompo, ma quella è stata una tua decisione o…?
Sì, sì. Devo essere sincero, cosa mi è rimasto? Io quei due anni ho vissuto di rendita: con tutto quello che mi avevano insegnato lì, quando sono arrivato in quarta e quinta a vedere cosa facevano e come lo facevano — erano robe che noi facevamo tranquillamente in prima e seconda, va. Proprio vissuto veramente di rendita: la preparazione che ci avevano dato, ho dovuto riconoscere che era ottima. Poi, in realtà, non sono bastati due anni per finire…8
Sì, beh, più che altro non dipendeva dalle tue conoscenze.
Non dipendeva dalle mie conoscenze — diciamo dalle mie conoscenze scolastiche.
Sì, sì… dicevo proprio di programma, ecco.
Era una cosa… dovevi entrare, comunque, nel mondo reale. Lì la meritocrazia — alla Scuola Aziendale Lancia — c’era, la meritocrazia. Parlo della scuola, eh. Poi, in fabbrica, non lo so — lì non metto verbo ma lì c’era ed è una cosa che non ho poi più trovato nel resto della vita.
Neanche poi quando hai lavorato in fabbrica?
[riso mesto] Soprattutto… però, ci sta.
Mi dicevi che dal punto di vista delle aspettative — soprattutto dal punto di vista dei tuoi genitori — c’era poi la prospettiva di andare a lavorare in Fiat.
Sì.
…cosa che poi però non è stata così automatica…
Era un periodo particolare: chiaramente non potevi saperlo tre anni prima, che ci sarebbe stato quel periodo… che era il primo periodo delle casse integrazioni. Per cui, quando… perché abbiamo finito la scuola che era l’81: quando abbiamo finito la scuola, la Fiat — o la Lancia, chiamala come vuoi perché ormai erano la stessa cosa — non ha potuto mantenere le aspettative che ci aveva garantito, per ovvi motivi sindacali e tutto. Non potevano lasciare a casa migliaia di persone e prendere noi ragazzotti appena usciti dalla scuola. A quei tempi il Sindacato non era quello di adesso e c’erano già abbastanza casini così. Cioè, era anche il periodo delle Brigate Rosse, quindi gli anni di piombo… verso la fine degli anni di piombo.9 Per cui, per un annetto/un annetto e mezzo non ci avevano potuto assumere. Però, cosa facevano questi personaggi, questi dirigenti? Dal primo anno che ci siamo iscritti a scuola, ci hanno fatto iscrivere all’Ufficio di collocamento e noi tutti i mesi — o a date periodiche, comunque — dovevamo prendere, andare all’Ufficio Collocamento e farci vidimare il libretto. Risultato: quando abbiamo finito il triennio — per quelli che l’hanno finito — purtroppo ci hanno detto “non possiamo assumervi subito, dobbiamo aspettare dei momenti più propizi”. [Certo] Però, quando ci siamo presentati all’Ufficio di Collocamento, avevamo l’imbarazzo della scelta, perché noi avevamo una numerazione vecchia tre anni, per cui avevamo…
Immagino facessero delle sorta di graduatorie…?
C’erano delle sorta di graduatorie e chi aveva il punteggio più basso — cioè, cosa succedeva a quei tempi: andavi all’Ufficio di Collocamento e dicevano “c’è x posti da”… che ne so, da tornitore, da becchino — ecco, quello da becchino mi è spiaciuto non averlo preso, comunque!
C’è sempre lavoro!
Eh, sempre lavoro… per cui arrivavi lì e dicevano “servono tre fresatori qua”. Al che, c’era la chiamata: tutti alzavano la mano e davano il proprio numero… quindi c’erano quelli che “1628”, “1315”, “1200!”, arrivavano a noi e “123” — bam, il gelo! [ridiamo]
…anche perché poi eravate ragazzini voi, proprio!
Infatti, infatti! Avevamo sedici anni, diciassette… diciassette. E quindi noi, in realtà, il posto l’avevamo trovato subito: io ero entrato alle Rubinetterie Industriali Piemontesi, acronimo RIP.
…che è tutto un programma come nome, scusami…
E sì: faceva rubinetteria industriale. Poi, a livello di punto vendita, c’era anche rubinetteria domestica e tutto, ma noi — a livello di officina — facevamo rubinetti industriali, quindi per oleodotti, queste cose qua…
Grandi!
Grandi, in effetti, sì! E lì c’era poi anche — quando entri nel mondo del lavoro vero: perché quella, comunque, per quanto fosse un mondo del lavoro in cui imparavi e tutto, era sempre una scuola. Quando entri nel mondo del lavoro, le cose cambiano. Soprattutto quando entri in ditte piccole. Quella non era un’azienda come la Fiat: era un posto in cui eravamo venti/trenta persone. E lì ti ricalibri: lì ti ricalibri perché, chiaramente, a diciassette anni sei convinto di spaccare i monti… di aprire le acque come Mosè e poi ti ritrovi decisamente… un po’ meno, un po’ meno. Un po’ meno sicuro, là! Infatti, il primo giorno: tu arrivi lì per fare il tornitore e ti aspetti che ti diano un tornio, un disegno e via. Primo giorno: qua c’è lo straccio, comincia a pulire tutti gli scaffali. Ci sta, ci sta… problema è stato, mentre pulivo gli scaffali, volevo spostare delle valvole che erano posizionate sotto: al che mi metto, arrivo lì tutto “ah, ah”. Incomincio a prendere una valvola, cerco di tirarla fuori e non si muove neanche piangendo. Punti i piedi sullo scaffale, lo prendi a due mani e ‘sta valvola non si sposta. Passa di lì uno, la guarda, allunga una mano sotto e la tira via. E lì ti ricalibri un secondo: dici “cos’è che non ho capito?” [ride] […] Quando poi nell’Ottanta… boh, sarà stato fine ‘82 / inizio ‘83, la Fiat si è fatta viva. E io sono andato: ho accettato l’offerta e sono andato.
Ma nel senso che vi ha… ripescati?
Ci ha contattati e ci ha chiesto se eravamo ancora interessati: ci ha chiesto se eravamo ancora interessati a lavorare con il gruppo. E che gli dici, no?! Certo. Magari, se avessi avuto un altro tipo di lavoro, più interessante e tutto, magari avrei potuto continuare lì. Ma, dato che era già qualche mese che stavo facendo quel tipo di vita, ho preso la palla non al balzo, di più e mi sono precipitato. Mi sono licenziato e sono andato a lavorare in Fiat. In realtà, non ci ha assunto direttamente la Fiat, ma, nel nostro caso — nel mio caso — ci aveva assunto la Comau, perché non era di Torino e, a quei tempi, si poteva prendere delle persone nominativamente — però non dovevano essere aziende di Torino — a tempo determinato, mi sembra per sei mesi… Abbiamo accettato in diversi e, inizialmente, appunto, eravamo assunti in Comau, ma la Comau l’abbiamo vista una volta — forse due. Ci hanno mandato all’Isvor Fiat di corso Dante, che era una scuola di specializzazione per operai.
Mh, come hai detto che si chiama, scusa?
Isvor! …in corso Dante, a Torino. In sei mesi lì abbiamo fatto tutta una serie di corsi: dal disegno di carrozzeria, alla programmazione a controllo numerico, pff! Un mare: lì erano proprio solo corsi a livello tecnico. Allo scadere di questi sei mesi, il nostro contratto è stato ceduto alla Fiat — chi ha voluto andare, ovviamente. Ed io ero entrato alla Porta 7, mi sembra che era alle Esperienze assemblaggio motori.
Mmh, cosa vuol dire “esperienze”?
Che non lavoravi in produzione.
Ah! E cosa si faceva?
E si facevano le prove per eventuali… diciamo che si studiavano i fissaggi, tutti i modi per poter…
Più tipo progettuale, insomma?
Infatti! Era una parte di pseudoprogettazione: una progettazione pratica, mettiamola così. Pochi mesi dopo — io, nel frattempo, avevo fatto domanda in polizia: avevo fatto tutto il percorso che dovevo fare, perché non è che facessi domanda e ti prendevano, anzi! Fatto tutti gli accertamenti e tutto e mi è arrivata la cartolina per partire e andare a Trieste. A quel punto, ho portato la cartolina al Personale — all’Ufficio del Personale. E lì mi hanno… come dire, dato l’aspettativa per fare l’anno di militare. Sono andato a Trieste per tre giorni e poi, in realtà, è andata male e questa anche è un’altra storia che non c’entra con questo. È andata male e sono tornato indietro: sono tornato indietro e sono andato all’Ufficio Personale e non sono potuto essere riammesso finché non mi hanno… non ho avuto determinati documenti, che mi ha poi rilasciato il Comune. Perché ufficialmente io sarei potuto essere un disertore, secondo loro. Non potevano sapere: gli serviva la prova che avevo chiuso il mio ciclo — anche se in tre giorni — e potevo essere riassunto. Fatto quello… pochi giorni, chiaramente. Torno all’Ufficio Personale convinto di tornare al mio posto, dov’ero prima. E, invece, vedo arrivare uno abbastanza distinto… cioè, diverso da— pensavo che fosse un impiegato lì per conto suo. Io ero seduto lì fuori e arriva questo: maglioncino, non aveva tuta… vestito normale. E fa “sei tu Gianni E.?” E già lì dici “e questo chi è?” [rido] “Sì”
…cosa vuole?
“Eh, vieni con me.” “Come? …ma io ero…” “Sì, sì, non ti preoccupare: vieni con me”. Al che, andiamo fuori e vedo che ‘sto qua sale su una Regata. Mi apre la porta. A quei tempi la Regata— non era un’ammiraglia, era già una macchina medio… abituato alle 127 e alle otto e cinquanta, la Regata era già un macchinino là! Diciamo… Per cui, salgo su ‘sta macchina e cominciamo ad andare: “mah, io lavoro lì…” “No no, adesso vieni da un’altra parte.” “Ah!” Al che, mi porta in un villino chiuso, con muri: era uno dei pochi posti con i muri, perché la maggior parte della Fiat aveva le griglie. Questo qua, invece, aveva proprio i muri. Dici “va beh!” Era sempre lì nel gruppo ma un po’ staccato: era via La Manta. Cancellone di quelli di ferro, tutti chiusi: non con le barre ma con i pannelli, che si apre e si chiude. Entriamo lì, giardino. Dici “beh, dove sono?” [rido] Poi passiamo un altro cancello, posteggia la macchina, mi porta dentro. Arrivano due persone: uno con un camice, uno in giacca e cravatta, entrambi non molto alti… ma tanto non lo ero neanche io, quindi non c’era problema. Si presentano e cominciamo a parlare… di lavoro, per cui uno mi fa “hai mai lavorato il legno?” Al che, tu ci pensi un attimo e dici “mah, io ero convinto di essere in una fabbrica di macchine […cosa non ho capito?], con il legno si fanno i tavoli, le porte… nella macchina il legno dove lo metti?: no, mai!” “Perfetto” — e mi hanno preso: quello era il Centro Stile Fiat. Chiaramente, l’ho scoperto dopo. E lì era proprio un reparto d’èlite: si era in un centinaio, forse duecento al massimo, ma… era uno dei reparti d’èlite della Fiat, dove si studiavano — da buon centro stile — i design delle macchine, che sarebbero dovute uscire in futuro. Ed è stata una bella esperienza — molto formativa anche quella. Ho avuto, tra l’altro, la fortuna di conoscere un personaggio — come dire — particolare: perché comunque vedevo che tutti gli altri… i lavori che facevano erano un po’ di legno, un po’ di resina: proprio… non erano belli. E c’era, invece, questo qua che era al banco di fianco al mio e — boia panettiera! — tutte le volte che faceva un pezzo era un’opera d’arte: bello! Tutto legno, non aveva una punta di resina: tutto pulito, lo guardavi da tutte le parti ed era sempre perfetto ‘sto legno bianco, non c’era un nodo in mezzo — o se il nodo c’era era in un punto dove ci stava pure bene! E per cui, cioè… vedevi la differenza con i pezzi che faceva questo e quelli che facevano tutti gli altri e cristo, la differenza ti saltava al volo! …addosso, proprio. È stato un personaggio proprio… mi ha chiesto: vedeva che io ero lì che guardavo cosa faceva, come lo faceva. Ad un certo punto ho parlato con lui, poi con il capo reparto, che ha accettato la cosa e mi ha affiancato a lui — che mi insegnasse a lavorare. Cosa che è poi successa e devo dire che, assieme alla Scuola Lancia, è stato il mio… maestro di vita. Perché non è che ho imparato solo a lavorare ma, chiaramente, stando a contatto così stretto tutto il giorno, tutti i giorni, si crea poi una forma— un rapporto di amicizia, di rispetto. Per quanto poi abbiamo avuto anche i nostri problemi, le nostre discussioni, però mi ha insegnato a lavorare. Cosa che poi, quando mi sono licenziato dalla Fiat e sono andato poi in posti di lavoro esterni, mi permetto di avere la presunzione di dire che la differenza si vedeva e si è sempre vista.
Ma lui dov’è che aveva imparato a lavorare?
Lui aveva lavorato inizialmente in boìte — le boìte, erano aziende con pochissime dipendenti: uno, due… e poi, alla chiusura dell’azienda— perché mi sembra, non mi ricordo più se il titolare era andato in pensione o era morto, comunque l’azienda aveva chiuso. Era poi stato assunto — mi sembra — in Texid, dove lui… lui non faceva modelli di stile, lui faceva modelli di fonderia. Per cui, stiamo parlando dell’élite dell’élite: cioè, già il modellatore di per sé era un’élite, il modellatore di fonderia era l’élite dell’élite. Anzi, in realtà, i modellatori veri di una volta erano considerati solo quelli di fonderia, quelli di stile li chiamavano scocchisti o cose del genere. Poi, purtroppo… infatti lui era di una categoria superiore — era un quinto super, inizialmente. Poi, grazie ai sindacati, la sua categoria è stata smantellata proprio e assorbita, per cui, tu che sapevi fare quel lavoro — che ben pochi riuscivano a fare — eri assimilato a quello che stringeva un bullone tutto il giorno. Però, giustamente, c’era una persona che sapeva fare quel lavoro e diecimila che avvitavano i bulloni: per esigenze politiche sacrificano il singolo. Così, gli hanno tolto la categoria super: gli hanno lasciato il quinto — livello che ho poi raggiunto anche io, dopo qualche tempo. Anzi, dopo qualche tempo: probabilmente sarà stata una carriera lampo lì dentro [ride], però… […]
E come… come era stato entrare lì [in Bertone]: come eri stato accolto?
Mah, a memoria potrei dire benino… non— nessuno mi ha picchiato, nessuno… Poi, è sempre un po’ anche come ti poni te: cioè, se vai lì a fare lo sbruffone, poi ne paghi le conseguenze. Se arrivi lì tranquillo e non dai fastidio a nessuno… era un tipo di lavoro che — sinceramente — non… ignoravo tutto. Nel senso che alla Scuola Lancia, sì, ci hanno insegnato tante cose, ma non poteva insegnarci tutto, cioè siamo anche solo umani. Per cui, ci hanno insegnato i motori come funzionavano, tante belle cose ma non… come si monta su una vettura— anche perché ogni vettura ha la sua storia.
Quando poi sei saturo possiamo smettere e…
Come vuoi, anche perché— cioè, giunti a questo punto siamo già arrivati a parlare di Bertone, che non so quanto possa interessare il discorso Lancia.
Mah, interessa non tanto il discorso Lancia a livello di scuola, ma interessa a livello di — come dire — poi il mondo lavorativo in generale. Poi tanto ritorneremo sulla questione Lancia perché volevo farti delle domande e farti vedere delle cose, ma anche in un altro momento.
Certo!
[dopo una parentesi sulla sua attuale situazione lavorativa, il discorso si è spostato sulle prospettive future]
No, nel senso che, comunque, il fatto di andare in pensione è un passaggio importante come…
Potrei cominciare a vivermi la mia vita.
Nel senso che comunque il lavoro lo vedi come un —
Il lavoro comunque mi impegna la maggior parte della giornata.
…questo sì, ovviamente!
E impegnandomi nel lavoro, devi fare delle scelte, con quello che ti rimane della giornata: non avendo più il lavoro, quelle giornate le potrei impegnare con delle altre cose, che mi piacciono di più che non lavorare. Per quanto il lavoro sia bello, interessante, tutto quello che vuoi… io preferirei andare a prendere lezioni di chitarra e provare a suonare che non stare a progettare una scatola sterzo! [ride] Non so se mi spiego…
Una prospettiva più rosea! [ridiamo]
Tanto più che — dici — in più di quarant’anni, qualcosina ho fatto, eh!… nella vita. Potrei dedicarmi di più alla palestre — che già non è che gli dedico poco tempo.
Sì, però anche con una tranquillità diversa, probabilmente…
Chiaro! Potrei ricominciare a disegnare, cosa che ho smesso tanti tanti anni fa perché, comunque, la giornata è di ventiquattro ore: togli quello che devi riposare, quello che lavori, gli spostamenti e hai la possibilità di fare ben poco. Quel ben poco, ho fatto una scelta — ai tempi — che mi ha portato, comunque, a dei livelli abbastanza decenti: cioè, a seguire la palestra. Attualmente, sono diventato un maestro di judo…
E qui si ritorna a— colpa di M.!
Si ritorna alla scuola Lancia, si ritorna alla scuola Lancia! E tante cose della mia… mentalità?! sono state forgiate proprio in quell’ambiente. Cioè, l’essere responsabili delle proprie azione: me l’hanno insegnato lì, alla scuola. Il dare il meglio quando è ora, non quando sei poi con l’acqua alla gola. Ti insegnavano a programmarti le cose, cosa che poi è tornata anche utile nel mondo lavorativo. C’era tutto un insieme, appunto, di cose che hanno forgiato…
In che senso programmare le cose?
Quando non hai tanto tempo, devi programmartele le cose — bene. Non puoi dire “mah, faccio così, cosà: come capita”. […] È un’abilità— cioè, imparare a gestire questo genere di cose è molto difficile…
Eh, appunto!
Anche perché poi ogni volta la situazione è diversa e devi riuscire a— Però, devi riuscire a farti una pianificazione in mente delle prime cose che servono per poter non fermare la catena, perché se fermi la catena è finita: hai tutti tempi morti. Quando questa cosa si ripercuote in un ambiente lavorativo significa che magari hai interi reparti fermi [Certo] perché hai sbagliato tu a programmare ed hai fatto fare prima una cosa che non serviva e la cosa che serviva rimane poi dopo e dopo devono correre tutti… [Mh] La chiamavano “organizzazione aziendale”: erano anche materie— cioè, ti ho detto, che insegnavano la matematica, la storia…
Era una materia, proprio?
Certo! Non è che ti facessero— ti spiegavano, per esempio, a fare i cicli di lavoro, tante cose: non è che ti potessero fare “adesso organizzami una linea di produzione”. Però ti davano già delle basi, su cui — se non eri proprio un Forrest Gump — potevi ragionarci e continuare la cosa, a crescere — farla crescere.
Okay, grazie…
Dieci euro!10 [ridiamo]
NOTE
1 Il titolo riprende una paradigmatica marcetta insegnata agli allievi.
2 La Lancia è stata prima rilevata da Fiat nel 1969 e successivamente nel 1977 ha perso lo statuto di azienda autonoma, divenendo un marchio del Gruppo. Gianni è entrato in Lancia nel 1978.
3 La storpiatura di un nome famoso è un’operazione che facciamo spesso e che qui figura quale strategia discorsiva volta a riportare il dialogo sul piano della colloquialità.
4 La risposta divertita — oltre ad un evidente tentativo di riportare il colloquio ad un livello più confidenziale — è determinata sia dal fatto che la mia conoscenza con Gianni è stata determinata proprio dalla comune attività judoistica che dal fatto che questa disciplina continua tuttora ad essere parte importante della sua vita.
5 L’espressione impiegata è da interpretare entro il contesto di enunciazione della stessa: la relazione di intimità ed i numerosi trascorsi hanno difatti concorso a questa scelta verbale per la sua pregnante carica simbolica. Spesso impiegata per smorzare i toni in un contesto di rigida disciplina o per raccontare scherzosamente di una situazione di particolare tensione, “pettinare le bambole” acquista così una valenza peculiare. Nondimeno, Gianni ci tiene a sottolineare che, chiaramente, non sono state queste le esatte parole impiegate dal Direttore in quelle circostanze.
6 Il “blu di Prussia” è un pigmento impiegato nella creazione della pasta per riscontro di cui prende il nome e utilizzata per verificare la regolarità di una superficie: una procedura nota come “azzurramento”. Anche chiamata “blu degli ingegneri”, questa polvere viene mescolata con materiali oleosi e successivamente applicata sulle superfici di riscontro dei componenti meccanici. In seguito allo strofinamento, qualora rimangano tracce di colore visibili, queste indicheranno i punti a quota più elevata che sarà necessario rilavorare.
7 La storpiatura è volta a minare la mitizzazione del personaggio.
8 Il riferimento di Gianni è al suo travagliato percorso successivo, svolto nelle scuole serali.
9 La presenza delle Brigate Rosse, per quanto abbia coinvolto direttamente la realtà aziendale, non è direttamente collegata alla non assunzione degli allievi Lancia, determinata invece da questioni interne di ordine sindacale, contestualmente alle prime massicce casse integrazioni. Tuttavia, il riferimento è sintomatico sia del più ampio immaginario sia della tendenza a contestualizzare il vissuto soggettivo entro la complessità della situazione torinese dell’epoca che ho riscontrato in molte testimonianze.
10 Al netto della natura collaborativa entro cui si inserisce l’intervista, la battuta di Gianni fa riferimento alla paradossale risposta che spesso, nel ringraziare per un favore o una cortesia, ci scambiamo per ridimensionare l’atto entro l’implicita reciprocità che intercorre tra di noi.