Quando mi sono fatto carico di scrivere questo report sulle giornate veneziane, avevo molti pensieri che mi attraversavano la mente. Riflessioni sparse, note virtuali di conversazioni, ma anche molte energie derivanti dagli stimoli, dagli spunti e dalle indicazioni raccolte nell’arco di tre giorni intensi, densi e fruttuosi. Giornate di studio, inoltre, meno formali di quanto mi aspettassi: il contatto interpersonale è stato importante e, forse, anche uno dei punti di forza di questi incontri così preziosi, che hanno avuto la capacità di instillare nei miei meccanismi di indagine punti fermi quanto domande produttive e spirito critico.
A distanza di qualche giorno, rifletto anche sul perché i temi e i dialoghi di questo evento mi abbiano così affascinato e arricchito. Il seminario metodologico è nato da una collaborazione a più voci tra AISO e l’Ateneo veneziano – sede dei nostri incontri a Palazzo Malcanton Marcorà – manifestandosi come uno degli output provenienti dal Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale “Reframing Italian Film Festivals”, che coinvolge l’ateneo veneziano come unità di ricerca insieme all’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” e l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Il progetto intende esplorare la storia dei festival cinematografici italiani alla luce di una metodologia rinnovata, che si attivi mediante la costruzione di un modello storiografico ad hoc mettendo in dialogo tra loro fonti diverse. Uno degli obiettivi del seminario, infatti, è stato quello di raccogliere delle interviste che avessero la funzione di pietra angolare di un database di memoria festivaliera. Per fare ciò è stato necessario costruire una cassetta degli attrezzi specifica ma versatile, che interseca la storia del cinema e la storia orale.
La mia presenza in questo crogiolo estremamente variegato e fluido è stata quasi casuale: dopo l’incontro con i professori Marco Dalla Gassa e Federico Zecca (quest’ultimo Principal Investigator del PRIN) in occasione di una giornata di studi dedicata alle pratiche e nei festival di cinema, mi sono ritrovato catapultato in questa cornice vivace e quasi inaspettata. Provenendo dall’area di studi sul cinema di famiglia, dove il contatto umano, la testimonianza orale e la storia personale sono il cardine su cui si basa l’attività di ricerca, ho sentito la necessità di associarmi ad AISO e di intraprendere questo percorso.
Il primo incontro, preliminare ma niente affatto superfluo, si è tenuto a distanza, il 20 maggio: un mosaico di volti su uno schermo, ben lontano nella forma da quello che avremmo esperito in loco, ma che ha spiritualmente rappresentato una tavola rotonda in cui abbiamo cominciato a conoscerci, ri-conoscerci, esplorare una materia per molti nuova, o magari iniziare a modellare un approccio più definito a un campo familiare. Ed è per questo che sono rimasto colpito da questa esperienza, fin dal primo tassello: perché nonostante la mia area di provenienza accademica e archivistica, nonostante la fascinazione che esercitano su di me i racconti privati, dal punto di vista personale, accademico e d’archivio, mi sono trovato a far tesoro di ogni passaggio di queste giornate di storia orale.
Fin da subito, le parole di Francesca Socrate e Giulia Zitelli Conti – che ci hanno accompagnato per tutti i tre giorni di seminario – sono state potenti. L’intervista è emersa come pratica viva e attiva: non un tramite per giungere a un obiettivo (un metodo grezzo per ottenere, banalmente, informazioni) ma come, invece, una relazione, un processo che si dà tra due parti e che le influenza reciprocamente, plasmando un ambiente nuovo e localizzato. Mi ha colpito, in particolare – come ho avuto modo di vedere nei momenti successivi – la semplicità paradossale del metodo dell’intervista, la paucità degli strumenti, le indicazioni sparute ma essenziali (volendo rifarsi a Studs Terkel, oggetto di un testo consigliato tra i materiali preparatori del seminario, una trinità composta dalle attività di ascolto, attesa e osservazione). Eppure, prendendo le mosse dai pochi “comandamenti”, il punto cruciale è stato uno: non ci sono “comandamenti”, ma dei principi da rispettare (che poi gravitano sempre attorno al rispetto per l’altro, per la persona che ci sta di fronte, per le memorie che sceglie di condividere con noi). Insomma: per quanto banale possa apparire, un’intervista non è un interrogatorio.
Già da questo incontro iniziale è emersa l’eterogeneità di figure che avrebbero preso parte al progetto. Chi era dentro al PRIN di cui sopra, chi con una formazione in storia del cinema ma si occupa in modo tangente di festival, chi sta concludendo un percorso di laurea, o chi si occupa di memoria e suono da una prospettiva più scientifica che umanistica. Ecco, tutto questo è stato un grande preludio, cui si sono accompagnate alcune indicazioni pratiche che hanno definito il ruolo dei lavori. Le tre giornate del seminario, infatti, avrebbero visto, come poi è accaduto, tre momenti distinti ma interrelati: un primo, di indicazioni metodologiche sugli snodi cruciali e le caratteristiche della storia orale, e sulla pratica dell’intervista. Un secondo, di natura più attiva, ossia l’intervista a una personalità specifica dei festival cinematografici italiani, con cui i responsabili del progetto avevano preventivamente concordato un incontro. La terza, infine, ci avrebbe visto dialogare e confrontarci sulle nostre diverse esperienze di intervista svolte durante il seminario, in modo da porre in rilievo i contesti e le situazioni in modo differenziale tra loro, creando l’opportunità di cogliere le salienze dell’atto dell’intervista a partire anche dai diversi casi presentatisi a ciascuno.
Siamo partiti, dunque, a una settimana di distanza, nel primo pomeriggio del 27 maggio, presso la sede di Palazzo Malcanton: a Venezia, fra turisti e gabbiani, ponti e calli, dalla stazione di Santa Lucia è una piacevole passeggiata, frastagliata soltanto da qualche gruppo di visitatori precoci. La vera sfida è stata invece trovare l’aula dell’incontro: gli snodi del dipartimento erano un luogo per me ignoto, dove ho subito sbagliato porta di ingresso e dopo un lungo, tortuoso e dubbioso corridoio ho trovato la stanza giusta con largo anticipo. Troppo anticipo, forse, al pari di alcuni colleghi non dissimilmente spaesati. Di lì a poco, comunque, sono cominciati ad arrivare altri partecipanti e gli organizzatori – un misto di presenze sconosciute, volti conosciuti, persone intraviste.
I primi interventi introduttivi, di natura più istituzionale, sono stati i rapidi saluti di Daniele Baglioni e Giovanni Maria Fara, (direttori, rispettivamente, del Dipartimento di Studi Umanistici e di Filosofia e Beni Culturali), cui hanno fatto eco le introduzioni di Giacomo Manzoli, presidente della Consulta Universitaria del Cinema, seguito da Giulia Zitelli Conti – Vicepresidente AISO. Questi hanno subito lasciato adito al vivo del seminario, in una continuità modulare tra il pomeriggio del 27 e la mattina del 28 maggio la cui unica divisione è stata quella di ordine cronologico, più che tematico. Il primo intervento, di Jessica Matteo, ha immediatamente indirizzato il tema verso l’artigianalità del fare storia orale, quasi a farsi speleologi della memoria a contatto con il vivo tessuto del ricordo. Molto – come è stato ripetuto e anticipato – dipende dal soggetto intervistato: si tratta di un costante adattamento, di una danza quasi, con chi si ha di fronte. Siamo infatti testimoni diretti, in questa situazione, di una soggettività che si rivolge a noi come un flusso, ed è su questo che dobbiamo agire cercando di modellarlo, di condurlo sui temi cui la motivazione di ricerca ci spinge ad andare e approfondire – ma senza, ovviamente, manipolarlo, o stravolgerlo. Da un punto di vista storico, invece, si è parlato delle origini politiche (accanto a quelle sociali e antropologiche) delle fonti orali in senso contemporaneo, come voci provenienti dai margini, voci di chi non avrebbe altrimenti cittadinanza verbale nella comunità, in un contesto forte e impegnato come quello degli anni Cinquanta e Sessanta. Già da questa prima sezione è stato particolare scoprire la natura performativa dell’intervista e della creazione della fonte orale. Non siamo infatti di fronte a un documento già scritto, un testo che ci lascia a disposizione nient’altro che un’interpretazione posteriore di anni rispetto alla sua realizzazione; abbiamo invece a che fare con un continuo riposizionamento di fronte al documento riguardo al quale noi, studiosi, curiosi, interessati, abbiamo ruolo paritario nella sua produzione. Documento che viene creato in tempo reale, che si dà nel rapporto biunivoco tra chi parla e ascolta, ed è la risultante di una continua oscillazione dialogica che ci consente di intervenire e condurre la testimonianza – pur senza mai prevaricare la persona che abbiamo di fronte.
È nell’intervento successivo di Giovanni Contini, alla sua conclusione, che emerge questo assioma di “non prevaricazione”, che intasco avidamente come caposaldo della storia orale. Non perché abbia fatto il contrario, nelle mie sporadiche esperienze di intervista (o almeno spero); ma proprio come memento, per non scordarsi mai del fatto che in queste circostanze si ha a che fare con una persona, e non con un pezzo di carta, di celluloide, di nastro magnetico. Giovanni, inoltre, interviene affrontando principalmente le problematiche e i vantaggi dell’uso della registrazione audiovisiva nella pratica delle interviste (interviste al plurale, sì – enfatizzando anche la strategia del ripeterle con la stessa persona creando un legame più profondo, arrivando a toccare argomenti che in una relazione più asettica e una tantum stentano ad affiorare, specie se di natura traumatica, grazie alla relazione fiduciaria che si instaura). La videocamera può essere considerata un mezzo ingombrante, una presenza che può mettere in soggezione e creare disagio, ma presenta un rovescio della medaglia quasi fondamentale: la possibilità di riprodurre la presenza corporea del soggetto intervistato, i suoi gesti, cenni non verbali, sguardi, attese. Anzi: in tempi odierni, dove ormai anche le generazioni più anziane sono abituate alle “diavolerie” digitali dei nipoti, forse è più temuta un’intervista unicamente sonora. Il video, tuttavia, dovrebbe riprodurre la parità che il registratore audio propone: dove entrambe le voci, infatti, vengono messe sullo stesso piano (domande e risposte, intervistatori e intervistati), anche la videocamera dovrebbe riprendere con un totale entrambi i soggetti all’interno del campo-intervista, riallineando così un equilibrio altrimenti perduto.
Una voce diversa, poi, è stata quella di Anna Marziano, filmmaker, che è intervenuta a più riprese in queste giornate mettendo in evidenza il suo uso non canonico della forma dell’intervista nella produzione filmica. La regista è stata presente sia all’incontro a distanza iniziale che di persona a Venezia, sia è stata negli occhi di tutti dopo che, individualmente, abbiamo visto Al di là dell’uno, il suo film del 2017 che sfrutta una particolare forma di mosaico per raccontare il tema e la nozione di “amore” a partire da storie individuali. La particolarità di questo approccio risiede nella mancanza di una corrispondenza precisa tra immagine e voce: girate su pellicola Super8 e 16mm, che portano con sé un’estetica particolare e una capacità evocativa importante, l’audio non appare mai sincronizzato all’immagine, ma sempre sfasato, fino al parossismo in cui vediamo l’atto dell’intervista, il microfono, il registratore, la stanza… ma le parole che udiamo non corrispondono alle labbra che si muovono, creando una maggiore risonanza tra le due colonne (audio e video) e contrastando l’illusione di conoscere la persona, quando invece è una totale estranea allo spettatore.
Gli interventi di Daniela Treveri Gennari e Damiano Garofalo, invece, hanno affrontato più nel dettaglio la metodologia e gli approcci storiografici nello studio del cinema, dei festival e dell’esperienza di visione nelle sale. Ciò che viene messo in luce, e che inizia a tessere un dialogo di metodo tra la storia del cinema e la storia orale, è innanzitutto l’importanza della “New cinema history”, ovvero la convergenza tra gli studi dei contesti di produzione degli audiovisivi e l’approccio empirico alle esperienze di visione da parte dello spettatore, andando oltre l’analisi del testo. Ciò investe i festival di cinema del ruolo di “luogo temporaneo della memoria”, che proprio per l’eccezionalità dell’evento fungono da catalizzatore e amplificatore mnemonico, sia a livello individuale che nella percezione degli eventi e dei luoghi che questi vanno ad alterare e influenzare con il loro svolgersi. Proprio l’intervista, la raccolta della testimonianza orale, è diventata il mezzo – soprattutto in anni più recenti – per esplorare il ruolo delle audience, nonostante le difficoltà relative alle metodologie arbitrarie con cui le fonti orali sono state impiegate in passato. L’uso interdisciplinare di questo strumento consente di analizzare più nel dettaglio la figura del pubblico, che risulta sempre un pubblico eterogeneo ma anche sovrapposto: è lo stesso pubblico che va al cinema che poi, nel salotto di casa, accende la televisione o legge un libro. La storia orale, in questo senso, serve a storicizzare i modi di ricezione e consumo culturale, a partire dalle esperienze soggettive dei singoli individui – nozione, quella di “individuo”, da allargare dal “semplice” pubblico ai ruoli professionali dei festival e del cinema tout court, in modo da avere, in potenza, uno sguardo interno all’industria culturale.
Come Damiano Garofalo ha rilevato nel suo intervento, si comincia a notare come la storia orale, che usa la testimonianza verbale come fonte storica, abbia un’attenzione particolare per la storia privata, il racconto personale, che si inserisce poi nella narrazione della storia come un tassello, un elemento utile per lo storico. Nell’ambito della storia del cinema lo scopo dovrebbe essere quello di ottenere testimonianze che possono essere usate come campione statistico (come la ricerca illustrata da Daniela Treveri Gennari, espansa a livello europeo), o come elemento di raccolta di informazioni su un sistema complesso e stratificato come i festival di cinema, la fruizione dei film e il rapporto con i media (in modo simile a quanto si propone questo progetto di ricerca). Ed è proprio di questo argomento, infatti, che si è parlato in fase di dibattito: come coniugare una figura probabilmente ricoperta da un’aura di istituzionalità per ottenere un racconto più personale? E come usare, poi, quel racconto più incline alla soggettività di una persona per potersi inserire in un resoconto storico dei festival di cinema?
In questa domanda si può scorgere la scintilla di questo laboratorio: tentare di coniugare racconto privato e narrazione storica, dove l’interazione della memoria orale e della documentazione scritta fornisce un grimaldello ineguagliabile per la decostruzione della fonte in modo critico. La tessitura di una contro-storia, o, meglio, di “un’altra storia” – per usare le parole di Marco Dalla Gassa e Francesca Socrate, che hanno tirato le fila della prima sezione del seminario catechizzandoci sulle interviste da svolgere – è ciò che abbiamo contribuito a realizzare in questi giorni, facendoci tramite delle verità soggettive delle persone con cui abbiamo dialogato tenendo a mente, nell’atto dell’intervista, sia un argomento preciso (la storia dei festival di cinema) che il peso del rapporto interpersonale, il fatto che di fronte a noi siede (o sta in piedi, a seconda dei casi) non un libro, un manifesto, un catalogo, ma una persona che si sta confidando, in modo para-terapeutico, proprio con noi.
È stato a questo punto, zaini in spalla e microfoni in tasca, che abbiamo rotto le righe, ognuno diretto verso il proprio testimone. A coppie abbiamo intrapreso strade, orari e percorsi diversi sotto il sole della laguna, continuando a interrogarci nel mentre su cosa chiedere, come condurre l’intervista, teorizzando su cosa ci saremmo dovuti aspettare. Personalmente, assieme al collega Andrea Gelardi, ci dovevamo recare al Lido, al Palazzo del Cinema, per intervistare il direttore artistico della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Un trancio di pizza (più o meno al volo) come pranzo, un caffè per tonificare il pomeriggio, e poi in marcia verso il vaporetto. Non eravamo i soli: anche altri partecipanti avevano la nostra stessa destinazione, e per qualche decina di minuti il tragitto si è trasformato in una piccola gita turistica, sui mezzi di trasporto anfibi di Venezia. E in quell’assolato lasso di tempo, continuavo a pensare. Assieme ad Andrea avevamo tracciato dei punti chiave attorno ai quali sviluppare il dialogo con Alberto Barbera, cercando nuclei tematici piuttosto che domande specifiche.
Andrea Gelardi, più esperto di festival studies, tra i ricercatori dell’unità barese del PRIN, aveva sicuramente più idee su come condurre l’intervista, e il suo apporto è stato fondamentale. Una volta arrivati – con discreto anticipo – al Palazzo del Cinema, un po’ di soggezione si è fatta sentire (mi riferisco, ovviamente, al sottoscritto). Uno dei luoghi antichi della storia del cinema, un contatto con le persone che organizzano questa eredità storica nel contemporaneo, permettendo alle immagini di circolare ancora, di farsi vedere per la prima volta o tornare, ancora una volta, a mostrarsi in grande stile. Questo effetto emotivo si è dissolto varcando la soglia dell’ufficio di Alberto Barbera: tutte le premonizioni sull’eventuale austerità del personaggio pubblico, sull’interesse che potesse avere nel progetto di ricerca, sulla durata del colloquio, sono svanite. La stanza – uno stanzone, di quelli che occupano la facciata del Palazzo – era praticamente vuota, le pareti bianche. Sedie, scrivania, computer; uno schedario, uno schermo televisivo da numerosi pollici, un divano. Dietro la figura del direttore, appese alla parete, le riproduzioni degli ultimi cinque manifesti del festival.
Tutto qui. Uno spazio quasi disadorno, quasi troppo spoglio per essere l’ufficio che pretende di essere, ma ben presto riempito di parole. Presentazioni, scartoffie e burocrazia sono state sbrigate rapidamente; poi, il dialogo. Dalle esperienze personali di cinema a quelle più in relazione con enti ed eventi, ne è uscita una bellissima conversazione di più di un’ora e mezzo, di cui entrambi (io e Andrea; ma forse tutti e tre) siamo stati estremamente felici.
L’indomani, nuovo incontro in università – terzo e ultimo atto. Dopo la preparazione metodologica e le applicazioni della storia orale in ambito storico-cinematografico, il momento pratico dell’intervista, finalmente l’ultima mattinata è stata dedicata, in una sorta di tavola rotonda allargata, al confronto delle varie esperienze di intervista che ogni gruppo aveva sostenuto. È stato, nella mia percezione, il momento più vivo del seminario. Non perché gli altri fossero meno utili, o interessanti, no. Ma questo, conclusivo, non ha avuto il sapore di un raccoglimento terminale per “chiudere i lavori”; si è trattato piuttosto di un momento di maturazione e condivisione, dopo che i partecipanti, noi, avevano imparato, ancorché in modo accelerato, il valore, i modi di produzione e gli usi della storia orale e delle sue fonti. Una discussione così aperta, al termine di un percorso comunque intenso, ha potuto contare sull’apporto anche emotivo dei partecipanti, che si sono non solo fatti mezzo di trasporto della testimonianza, ma – come avevamo già visto in principio – partecipi della sua concretizzazione. Il coinvolgimento derivante dal rapporto diretto con una persona, dove (nella maggior parte dei casi) si fondevano le aree del pubblico e del privato, del racconto evenemenziale e dell’abitazione personale, è stato capace di produrre un’esperienza potente. E nella loro diversità, questa moltitudine di esperienze ha permesso di riflettere ancora più in profondità sul valore, le caratteristiche i dubbi sulle pratiche di raccolta di memoria orale.
Sono emersi spontaneamente – ma sempre sottolineati dall’acume di Francesca Socrate, e dagli interventi di Alessandro Casellato – l’importanza della gestualità e del linguaggio non verbale, che nella maggioranza dei casi non sono stati catturati per mancanza di registrazione video; ma anche, per esempio, il rapporto che si instaura tra le figure della persona intervistata e di quelle intervistatrici, che oscilla nello spettro dell’esercizio di potere. In alcuni casi, infatti, si è riscontrata una “gerarchia differenziale di potere” evidente, che ha penalizzato i partecipanti al laboratorio; in altri casi è emersa, nell’interlocutore, una figura professorale, ora più cattedratica, ora più accogliente, che ha influenzato il modo con cui il “materiale emotivo” che queste persone ci hanno concesso è stato raccolto.
Personalmente, ho trovato in due questioni particolarmente vivaci la scintilla che mi ha invogliato a intervenire, discutere e annotare. Una è la quantità di variabili, quasi inclassificabili, che intervengono al momento dell’intervista: linguaggio non verbale, come detto, ma anche l’atteggiamento, l’uso dei pronomi, il trasparire di una passione intima, l’atmosfera del luogo dove si svolge l’intervista e i suoi elementi fisici (un tavolo, frapposto tra chi domanda e chi risponde, può fungere da elemento divaricatore, distanziando le parti). Si tratta di una serie di dettagli che, nel loro complesso, raccontano una storia parallela – quella dell’intervista medesima – che può funzionare da griglia interpretativa per il contenuto del racconto. Il fatto, per esempio, che con Alberto Barbera ci si desse del tu, in modo meno formale rispetto alle aspettative, o che si rivolgesse ai suoi interlocutori posando lo sguardo su entrambi invece di concentrarsi su uno soltanto, sono stati indici di un ambiente disteso e pacato, che ha sicuramente contribuito al buon esito dell’intervista.
L’altro punto presenta un sottile legame con quanto appena detto, e riguarda il profitto dell’intervista: vale sempre la pena farla?, è stata la domanda posta durante la tavola rotonda. Ci sono delle condizioni per cui non dovremmo intervistare una persona? Giovanni Contini ha tracciato una linea sull’eventuale condizione di infermità: se il dialogo causa disagio, e finanche dolore, chiaramente non è una strada da intraprendere. Ma per qualunque altro motivo – di fronte a una palese ostilità della figura individuata, o ad altri problemi di natura relazionale – vale sempre la pena intervistare. Si tratta sempre di un momento di confronto da cui imparare, e se la conoscenza non proviene dalla sterilità del racconto, allora può essere dalla gerarchia di potere, dall’atteggiamento, dal modo di esprimersi, da quel corollario sterminato di cui sopra. Ma la parola va sempre accettata, e ascoltata. E, come lezione finale di questi tre giorni (più uno), ho imparato che la parola detta vale almeno quanto la parola scritta.