Lorenza Moretti*
Nello scorso anno e mezzo, parallelamente alla mia ricerca dottorale, ho portato avanti uno studio sulle manifestazioni femministe notturne avvenute in Italia fra anni ‘70 e ‘90 contro la violenza di genere. In questo genere di proteste, gruppi di donne organizzano dopo il tramonto dei sit-in o dei cortei che si muovono per le strade delle città, soprattutto nelle zone adiacenti alle stazioni ferroviarie centrali e considerate meno sicure. La prima di queste – ricordata come “Riprendiamoci la notte” – si è svolta il 27 novembre 1976 a Roma e a questa ne sono susseguite altre nei mesi seguenti in varie città d’Italia e poi, si sono riproposte in forme diverse anche nei decenni successivi, ma citando sempre lo slogan di “Riprendiamoci la notte”. Con questo genere di manifestazioni che spesso, ma non sempre, nascono in seguito a un caso di violenza sessuale avvenuto di notte nella città, si tenta di rivendicare lo spazio pubblico e di reagire al senso di paura che può ingenerarsi in una donna al pensiero di muoversi da sola di notte.[1]
La mia decisione di dedicarmi a questa ricerca dipendeva, sì, dalla fascinazione profonda che aveva sempre suscitato in me il leggere di questa grande manifestazione a Roma (la città in cui vivo) nelle varie ricognizioni sui femminismi degli anni ‘70 in Italia, così come il fatto che fosse stata una delle prime manifestazioni di massa del movimento femminista contro la violenza e che fosse quasi sempre ricordata, quasi paradossalmente, come uno scendere in piazza dal carattere festoso e carnevalesco. Ma al desiderio di saperne di più dal punto di vista della ricerca storica, si deve essere accompagnato anche un profondo interesse personale ed esperienziale, per così dire, perché l’indagine che portavo avanti per un saggio che sarebbe dovuto confluire in un volume collettaneo, si è ampliata notevolmente ed è diventata una ricerca a tutto tondo. Quasi subito, anche per la scarsità delle fonti scritte, ho avvertito l’esigenza di estendere la ricerca alle fonti orali e mi sono indirizzata, innanzitutto, verso donne che potevano essere presenti alla manifestazione del 1976: ho contattato Oria Gargano, attiva nel movimento femminista a Roma negli anni ‘70, poi fondatrice e attuale presidente di BeFree, Cooperativa Sociale contro tratta, violenza, discriminazioni, e la scrittrice Maria Rosa Cutrufelli, membro del movimento femminista romano del Pompeo Magno, nonché compagna storica di Bianca Maria Pomeranzi, ricordata spesso come una delle principali organizzatrici della prima manifestazione di “Riprendiamoci la notte” e scomparsa nel luglio 2023, poco prima che avviassi la mia ricerca. Cutrufelli, come spesso avviene nella pratica della storia orale, mi ha messo in contatto con un’altra testimone, Stefania Vulterini, attiva in quegli anni nel collettivo femminista di Piazza Bologna. Mi sono poi rivolta alla mia correlatrice di tesi magistrale, la professoressa Maria Serena Sapegno, che negli anni ‘70 faceva parte del Collettivo femminista comunista di Via Pomponazzi.
Dopo aver dialogato con loro, sentivo tuttavia di volerne sapere di più, anche perché la mia ricerca mirava a estendersi sul territorio nazionale, e ho deciso di intervistare persone che avevano partecipato alle manifestazioni di “Riprendiamoci la notte” a Milano (11 dicembre 1976), Torino (22 gennaio 1977), Mestre (5 febbraio 1977), Padova (28 febbraio 1977) ecc… Dunque, sono riuscita a mettermi in contatto con tre attiviste storiche del femminismo torinese, Patrizia Celotto, Jessica Casale e Marilla Bacassino, con le sorelle Flavia e Sandra Busatta, fondatrici e partecipanti di vari gruppi femministi padovani, fra cui Lotta femminista di Padova, e con una femminista di Mestre, Alessandra De Perini, fondatrice e partecipante di vari gruppi femministi a Mestre, fra cui il Comitato per il salario al lavoro domestico Triveneto. In seguito, ho provato a interloquire con qualche femminista milanese. Ricordo quando, essendo andata alla Libreria delle donne di Milano per fare delle interviste per la mia ricerca dottorale e, essendomi fermata a un pranzo sociale nella libreria, cercavo disperatamente fra le donne presenti – e anche un po’ ingenuamente – qualcuna che avesse preso parte alla manifestazione dell’11 dicembre. Un fallimento su tutta la linea, le donne che frequentavano la Libreria tendevano a non partecipare al femminismo di piazza e per lungo tempo non sono riuscita a mettermi in contatto con nessuna che lo avesse fatto a Milano.
In effetti, la mia prassi per qualche tempo era diventa questa: quando intervistavo qualcuna per la mia ricerca dottorale, al termine del nostro colloquio, provavo sempre a fare qualche domanda rispetto alla manifestazione di “Riprendiamoci la notte”, molte volte senza successo e talvolta, invece, con grande riscontro, come nel caso di Grazia Francescato, una delle fondatrici della rivista femminista “Effe” nel 1973 e femminista attiva nel contesto romano negli anni ‘70.
Oltre a fare domande sulla manifestazione, tuttavia, avevo preso l’abitudine di domandare alle intervistate qualcosa anche sulla loro sensazione di paura nel muoversi da sole la notte e, devo ammettere, che era una parte dell’intervista che mi interessava sempre molto.
A questa domanda ho avuto molteplici risposte, che rivelano una grande apertura, un senso di confidenza che si stabiliva con me. Non avendo potuto trattare di questa parte del racconto che generosamente mi hanno affidato le intervistate nel lavoro su “Riprendiamoci la notte”, ho pensato di parlarne in questo articolo per AISO che non sarà dedicato alla manifestazione ma ai ricordi di un sentimento elementare, quale quello della paura nel muoversi in solitudine al buio, nella memoria di alcune femministe italiane negli anni ‘70.
Una delle prime interviste che ho svolto sul tema di “Riprendiamoci la notte” è stata con Maria Rosa Cutrufelli, come ho detto. Mi sono approcciata al nostro incontro con timore, considerato il profilo di Cutrufelli in quanto scrittrice e voce importante del femminismo italiano, ma anche perché sapevo che sarei andata a toccare un terreno delicato, intervistandola su una manifestazione organizzata dalla sua compagna storica, Bianca Maria Pomeranzi, che era morta pochi mesi prima. Forse proprio per giungere a parlare della manifestazione per gradi, sono partita un po’ “alla larga” e ho avviato il nostro dialogo cominciando proprio dalla domanda sulla paura.
Lorenza: Volevo chiederti prima di tutto… è proprio una domanda “pregressa”, diciamo, rispetto a “Riprendiamoci la notte”. Effettivamente in quegli anni, pensavo, all’inizio degli anni ‘70, voi eravate poco più che ragazze… C’era una percezione di paura nell’uscire la notte da sole o in gruppo? Era messa a tema o no?
Maria Rosa: Sì, sì, indubbiamente insomma. Però eravamo… forse almeno io e quelle che frequentavo eravamo abbastanza più incoscienti. E soprattutto se eravamo in gruppo ci sentivamo in branco e quindi eravamo anche aggressive. Cioè, quindi, non era la paura maggiore, non era quella forse… Però, dato che mi ci fai pensare… In qualche modo essendo state allevate, cresciute nello stare attente, allora forse stavamo più attente, mentre invece forse oggi le ragazze – che giustamente si sentono più libere – forse sono meno attente. Non voglio dire che non avevamo paura, però non era la nostra paura maggiore. Le paure erano altre cioè quelle, appunto, di quello che ci mancava, del futuro dimezzato che ci si prospettava, quindi l’obbligatorietà dell’essere moglie, dell’essere madre, le difficoltà del lavoro, il sentirsi secondo sesso… Certo, la violenza faceva parte di questo, no? Faceva parte di questo… però era una paura – almeno per quanto mi riguarda e per le donne che conoscevo – era una paura alla pari di quelle altre. Non era diventata la paura più grande.
Poco dopo, nel corso del nostro dialogo, Maria Rosa mi ha suggerito di intervistare anche donne che dovevano uscire di notte per motivi lavorativi, ad esempio operaie o infermiere per capire come loro vivessero il tragitto verso o da il luogo di lavoro di notte. A quel punto, infatti, le era tornato in mente il ricordo di un’esperienza di sua madre che ha fatto parte, almeno per un periodo della sua vita, di queste donne che si muovevano di notte per lavorare. Ne comprendeva la paura ma, al tempo stesso, registrava lo scarto fra l’esperienza delle donne come sua madre e il vissuto che portava a rivendicazioni come quelle di “Riprendiamoci la notte”: nate, nel suo ricordo, non tanto dal sentimento di paura o dalla ribellione a una costrizione verso lo stare in casa la sera, ma da un desiderio affermativo di vivere liberamente tutto il tempo a propria disposizione.
Maria Rosa: Mi hai fatto venire in mente ora mia madre che insegnava. Insegnava agli studenti adulti che facevano il doposcuola di notte, per l’appunto. Allora stava a Bologna e a un certo punto smise di andare perché quando tornava a casa la notte e aspettava l’autobus si fermavano tutte le macchine perché vedevano una donna, sola, alla fermata dell’autobus. Non gliene fregava niente agli automobilisti che fosse la fermata dell’autobus, pensavano fosse una prostituta, per cui… E mia madre si impaurì talmente che rifiutò poi di fare questo tipo di lavoro. Per cui è chiaro che allora le donne che facevano lavori per cui tornavano la sera tardi aveva una percezione diversa della paura… Però “Riprendiamoci la notte” non nasceva soltanto da questo, quanto proprio da una voglia più generale di affermare il proprio diritto a vivere tutte le ore, tutte le ore del giorno e della notte. E per questo era gioiosa, no? Perché non era contro una costrizione.[2]
Ho avuto modo di ritrovare questo andamento della memoria che spazia dal presente al passato e si concentra anche su chi veniva prima di sé, quindi in questo caso sulla propria madre, anche in altre interviste, come in quella di Maria Serena Sapegno, attiva nel femminismo romano negli anni ‘70, poi professoressa di Letteratura italiana e di Studi di genere alla Sapienza di Roma e adesso in pensione. Con lei intrattengo un rapporto di confidenza da qualche anno e l’intervista ha subito preso la forma di un lungo racconto della sua attività politica ma anche di una riflessione profonda sulla sua esperienza come giovane donna. In parte già conoscevo la sua storia, ma questa intervista ha rappresentato anche l’occasione per conoscere il suo percorso da un’angolatura diversa, più intima, e perciò le sono molto grata. Ne riporto di seguito un ampio e, dal mio punto di vista, anche emozionante stralcio, in cui Serena comincia parlando del contesto femminista e sociale degli anni ‘70, e poi – riflettendo e ricordando come in un flusso di coscienza che non ho voluto interrompere con domande o osservazioni – si sposta avanti e indietro, dalle sue considerazioni sul presente fino al passato più lontano della sua infanzia.
Serena: Nei primi anni ‘70, interessantemente, non è mai venuta fuori questa problematica della violenza sulle donne. E questo è molto significativo perché in realtà l’attenzione principale era sui rapporti tra donne e su come tutto il resto della vita influenzasse i rapporti tra donne. Quindi questo aspetto era abbastanza trascurato, diciamo, proprio non compariva… Comunque questo è un fatto. Quindi, quando cominciò questa faccenda del “Riprendiamoci la notte”, io in realtà avevo già sperimentato, invece, personalmente e ripetutamente degli episodi molto inquietanti, molto inquietanti, che comunque mi avevano messo in uno stato di gravissima ansia, di gravissima ansia. Cioè, facevo proprio… Non avevo tutti i torti perché era stato molto pesante. Non aveva avuto conseguenze vere e proprie, però io mi ero sentita veramente in pericolo, minacciata: e avevo ragione, lo ero! Quindi, insomma, questo era un problema. E quindi io ce l’avevo molto presente questo problema tanto che non tornavo a casa da sola, mi facevo accompagnare… Insomma, ero in ansia già all’inizio della serata su come sarei tornata a casa. Insomma, era veramente un problema molto serio che condividevo con altre come chiacchiera interessante però. No, non era un tema politico. In quel momento forse lo davamo proprio per scontato che questo fosse un dato di realtà, no? E quindi non diventava… Cioè gli uomini violenti esistono, si sa. E poi, appunto, anche molte delle nostre frequentazioni in quel periodo erano soprattutto tra donne, la nostra vita era soprattutto tra donne, molto spesso anche come rapporti sentimentali che in un certo senso coinvolgevano in modi diversi, a livelli diverse, un po’ tutte. […] Quindi questa è un’esperienza molto importante però, naturalmente, tutto questo scopriva moltissimi nervi, no? Questo è evidente. Era un periodo che per certi versi ti faceva sentire molto più forte, e di qui anche la spavalderia con cui io giravo da sola, ecco, che mi ha tra l’altro fatto incontrare, appunto, queste prime esperienze traumatiche. Perché io ero… mi sentivo potentissima, mi sentivo fortissima. Certo, non ero l’unica, no, era proprio… Quindi quando a questa sensazione di spavalderia, appunto, si è mescolata la paura, ne è venuto anche un senso un po’ di vergogna, no? Perché invece la cosa importante in quel momento era la scoperta della forza, non di questa fragilità, di questo improvvisamente sentirsi prede. Era proprio il contrario di quello che noi stavamo cercando. E però, appunto, come io poi dico spesso quando parlo di queste faccende così complicate, perché veramente il problema del rapporto tra la propria libertà e il pericolo è delicatissimo, perché è facilissimo perdere l’equilibrio… Questa cosa si capisce, insomma, no? Cioè se prevale la sensazione del pericolo tu diventi una preda e non sei più in grado, non c’è più nessuna libertà. E soprattutto, come io, appunto, dico sempre quando ne parliamo, le prede attirano i predatori, cioè è un messaggio che il corpo manda. Noi sottovalutiamo sempre questo elemento animalesco della comunicazione che invece è potentissimo, animalesco, inconscio… Mettiamola come ci pare però – insomma, le cose sono più complesse di così – però se tu ti senti preda il predatore lo sente. Quindi, da una parte c’è questo, dall’altra c’è l’incoscienza. E quindi fare finta che non ci sia il problema è da scemi, no? Quindi quando io vedo per esempio tutte queste ragazzine che girano di notte, no? Letteralmente mi terrorizzano, perché è vero che cercano di essere sempre 2 o 3, cioè raramente ne vedi una da sola. Quindi qui c’è un’attenzione e questo mi tranquillizza. Però, secondo me, c’è a quell’età anche una sottovalutazione. Cioè finché non ti capita la botta che appunto a me è capitata a 22 anni… Eppure, ero tornata a casa da sola mille volte, no? Però mi è capitata molto avanti… Quindi c’è questo problema e questo problema però è interessante, io ne parlo molto, per di più adesso con le giovani donne. Più di quanto mai me ne sia stato parlato a me… Questo problema per me non c’era… Cioè, c’era mia madre, insomma, era un’altra cosa, io ormai ero fuori… Quindi anche mia madre peraltro non è che dicesse granché. Eppure, l’esperienza della violenza di vario genere mi era sempre stata chiarissima – anche questa è una cosa interessante – ma da bambina. Da bambina. Perché io giravo da sola moltissimo… erano altri tempi. Noi andavamo in giro da sole e io avevo incontrato esibizionisti. Quando ero una ragazzina proprio piccola, di sette anni, otto anni, avevo incontrato gente che ti metteva le mani addosso in autobus, al cinema, ovunque… Quindi là il messaggio era potente. Però questa ubriacatura positiva, no? Della propria forza, della propria… Mi aveva fatto sbandare nella direzione dell’onnipotenza diciamo, che poi è quello, insomma, il problema della mancanza del senso del limite, che è veramente una cosa complicata.[3]
Su questa testimonianza si potrebbe dire moltissimo, ma un elemento che spicca fra gli altri è l’aspetto dell’ambivalenza: da un lato la sicurezza in se stesse è retrospettivamente intesa come la chiave d’accesso alla liberazione dal timore, alla conquista dell’agibilità; dall’altro, un’eccessiva sicurezza in se stesse, la spavalderia, la sensazione di onnipotenza è indicata come un elemento di rischio, che in un qualche modo “spiega” le aggressioni o le forme di molestia in cui si è incorse. Non si tratta ovviamente di giustificare, ma di trovare una qualche forma di decifrazione. È il caso anche del racconto che viene da Oria Gargano, fondatrice e attuale presidente di BeFree. All’epoca di “Riprendiamoci la notte” aveva solo 19 anni e nell’intervista racconta senza giri di parole le situazioni pericolose in cui ci si poteva trovare in quel periodo in quanto giovani donne che attraversavano lo spazio pubblico da sole. Come avviene spesso, si definisce “fortunata” nel non aver subito quelle che potevano essere considerate le “naturali conseguenze” della sua ribellione giovanile.
Lorenza: Durante la manifestazione del novembre ‘76, quindi, quanti anni aveva?
Oria: 19.
Lorenza: Dunque, 19. C’era effettivamente una percezione di paura nell’uscire da sole la notte? Era un tema? Ne parlavate?
Oria: Le aggressioni, i tentativi di stupro per strada nello spazio pubblico erano normali… Era normale il catcalling, che non era neanche definito così, e a noi ragazze ci accompagnavano la sera oppure c’era il fidanzato. È vero, io ero pure abbastanza ribelle, anche un po’ scocciata, infatti a casa mia erano preoccupati. Andavo in giro ma ne ho rischiate tante. Sarò stata anche fortunata, ci sono stati degli episodi in cui davvero, insomma, non lo so chi è intervenuto per darmi una mano… No, no, erano assolutamente all’ordine del giorno.[4]
La descrizione della violenza nello spazio pubblico come un dato di fatto, rispetto a cui però si può riuscire a scampare è, in effetti, un elemento ricorrente nelle memorie delle intervistate. Anche dal ricordo di Alessandra De Perini, detta “Sandra”, – il cui racconto è stato fondamentale in quanto una delle prime voci del femminismo storico di Mestre – torna questo aspetto del “sentirsi preda” e dello scatto mentale che ti permette di non provare più paura e, in qualche modo, fa cessare le molestie. Come si ripropone anche l’idea, già emersa nell’intervista con Serena Sapegno, secondo cui la violenza non sarebbe stato un tema centrale di discussione all’interno dei gruppi femministi almeno fino allo spartiacque rappresentato dal massacro del Circeo. Alessandra De Perini, in particolare, attribuisce la messa a fuoco di questo tema alle femministe vicine ai partiti della sinistra o della sinistra extraparlamentare che – dal suo punto di vista – avevano trovato soprattutto nel femminismo romano una sponda per portare avanti la battaglia contro la violenza “carnale”.
Sandra: “Riprendiamoci la notte” vuol dire tante cose e sembra ovvio oggi. Però era vero che c’era paura a uscire di notte. Non è un… Non è un momento… Non è adatto per una donna uscire, soprattutto da sola, di notte. Ecco, però, anche se si è in gruppo può succedere che c’è il gruppo di maschi violenti che ti prende in giro e ti insegue in macchina… Però è anche vero che nel momento in cui è finita la paura a me non è più successo. Quindi vuol dire anche che dipende molto da come sei tu. Ecco.
Lorenza: E senti, poi volevo chiederti… Dalle altre interviste che ho fatto mi pare che fino a metà degli anni ‘70 il tema della violenza sessuale, della violenza contro le donne in generale, non era molto messo a tema nel movimento me lo confermi? C’è stato un passaggio?
Sandra: Hai ragione.
Lorenza: Il passaggio è stato il massacro del Circeo?
Sandra: Lo confermo, perché prima il femminismo era anche la gioia di incontrarsi, di parlare in positivo, di ehm… Non so, non poteva essere solo parlare del come siamo infelici e sfruttate. Certo, siamo partite da lì, ma dopo siamo passate a dirci il meglio di noi, no? L’attenzione sulla violenza è stata portata soprattutto da parte delle donne che appartenevano ai partiti della sinistra o ancora legate alla sinistra extraparlamentare. C’è stata a Roma un’alleanza tra il femminismo romano e l’UDI e hanno insieme raccolto le firme per portare avanti la legge contro la violenza che allora non si chiamava sessuale, si chiamava carnale. Pensa te! Sì, sì, sì, detta proprio brutalmente: la violenza carnale. Ehm, certo, c’era ancora la paura, no? Di uscire la notte, c’era ancora. Ce l’avevano insegnato le nostre nonne, le nostre mamme, ad essere furbe, a stare attente ai segni. […] Allora c’era molta attenzione a questo, ecco.[5]
La memoria di Sandra e di molte altre intervistate registra questi avvertimenti parentali rispetto al “girare sole di notte”, avvertimenti che, come è evidente, si trasmettono di generazione in generazione e suscitano una responsabilizzazione, più o meno proporzionata, delle giovani donne. Tale questione compare nettamente, ad esempio, anche nell’intervista con Patrizia Celotto, femminista torinese facente parte di un collettivo studentesco universitario femminista. Avevo conosciuto Patrizia mentre facevo ricerca all’Archivio nella Casa delle donne di Torino a inizio gennaio. Le avevo parlato di questa ricerca che stavo portando avanti e lei si era gentilmente proposta come fonte orale. Dovendo partire di lì a pochissimo per trascorrere un periodo fuori dall’Italia, l’intervista si è purtroppo svolta online (come tutte quelle realizzate da lì fino ad aprile), ma abbiamo comunque avuto un lungo dialogo, durante il quale Patrizia si è raccontata con molta generosità, seppur a distanza.
Lorenza: A livello di percezione personale tua che ti ricordi? Ma anche rispetto alle tue amiche, alle persone che conoscevi… C’era effettivamente una forma di paura nell’uscire di sole, o anche in gruppo, di notte?
Patrizia: Io personalmente avevo molta paura e credo che tutte avessimo paura, però erano le nostre prove di coraggio. Era la nostra forma di affermazione che stavamo cercando una nostra libertà, la libertà delle donne, ecco. Quindi anche sfidare… Per dire, in quegli anni giravamo in autostop, anche in due o tre per l’Europa, no? Certo, io ho viaggiato un po’ in Germania, in Francia… Cioè viaggi un po’ anche lunghi, di qualche migliaio di chilometri ed eravamo in due ed avevi però questa paura, perché, appunto, ti capitava di trovarti anche in situazioni in cui dovevi… Noi avevamo un po’ un decalogo di protezione, no? Quindi anche sul vestirsi per esempio. In certi casi magari c’era una sfida, ma di notte cercavo di camuffarmi perché ho avuto paura, ho avuto anche momenti tornando… Perché, appunto, non volevi essere succube della paura, no? Ricordo che una volta tornando a casa, intorno a mezzanotte passata – noi non giravamo molto oltre l’una di notte – quindi era già un’ora molto tarda… Ricordo di essere stata in una via del centro di Torino, dove io abitavo. Vuota. Una via vuota. Non c’era nessuno. Mi hanno affiancato con una macchina da dove veniva una musica che forse era già dei primi anni ‘80… Sì, io ero già più grande. E comunque sopra questa macchina c’erano quattro ragazzi, quattro giovani uomini. Io mi sono sentita persa perché hanno accostato contro il muro. Poi non so cosa gli è preso… Io camminavo velocemente, cercando di andare in un posto vicino, chessò un albergo, qualcosa, in cui ci fosse qualcuno almeno, no? E poi ci hanno ripensato, stavano per dire: «Adesso vieni con noi»… Cioè, io sono abbastanza grossa da sola, forse, ma con quattro… E poi hanno deciso che se ne andavano… Ma è stata una cosa proprio… Sono poi corsa a casa perché non ero molto distante da casa per dirti…. Ma poi le molestie, no? Ovviamente gli esibizionisti. Noi del collettivo avevamo il famoso esibizionista… Siccome abitavamo alcune vicine nel quartiere, c’era un tipo in moto che si esibiva, ti costeggiava, borbottava. E noi meditavamo strategie per dissuaderlo, magari puntandogli contro una grossa pila, per illuminarlo e spaventarlo. Qualche volta pensavamo anche a una reazione un po’ più violenta, di dargli una manata di botte mettendoci insieme… Perché comunque era una costante, capito? Una costante! Una, tra virgolette, “tragica normalità”… In tram che venivi toccata. Sì, certe volte c’erano piccole strategie, specie perché noi giravamo la sera da sole. Ecco, magari con altre ragazze cercavamo di solidarizzare… Però questa roba era forte. Questa della componente di essere preda è stata una roba pesante anche perché poi a seconda delle biografie personali di ciascuna… Io mi sono dovuta difendere sempre da ragazzi o nell’ambito familiare largo, cioè da parenti lontanissimi, magari non grandi ma comunque più grandi, giovani più grandi di me… Che ero ragazzina, avrò avuto ancora 12, 13 anni, ecco, questa roba qua… Quindi già sapevi che tu ti dovevi difendere… La tua mamma ti diceva: «Vedi? se non uscivi da sola, se non uscivi da sola».[6]
La sensazione di andare a rompere consuetudini ben radicate, in famiglia e in società, nel momento in cui si rivendica la propria libertà di movimento di notte in quanto donne è assolutamente chiara nei ricordi di Patrizia Celotto, come in quelli di diverse altre testimoni. Mentre intervistavo Grazia Francescato per la mia ricerca dottorale sui femminismi ecologisti in Italia fra anni ‘70 e ‘90, ho colto l’occasione per farle qualche domanda anche rispetto a “Riprendiamoci la notte” e sul suo senso di sicurezza nel muoversi di notte, e ho trovato una conferma della consapevolezza di questo “sconfinamento” in qualche modo.
Lorenza: E siccome io sto facendo anche un’altra ricerca, invece, più breve per un saggio per un volume sull’autodifesa femminista rispetto alla violenza, e includo anche “Riprendiamoci la notte”. Volevo chiederti se ci sei stata? La manifestazione era del ‘76.
Grazia: Sì, ma io ho fatto tutte le manifestazioni.
Lorenza: Te la ricordi?
Grazia: “Riprendiamoci la notte” rientrava sempre in questa cosa del noi, perché era un riappropriarsi di spazi che però non erano visti come spazio singolo… C’era sempre questa dimensione, questo respiro collettivo che non c’è più. E allora era veramente rivoluzionario. Adesso può sembrare una cavolata qualunque ma fare queste cose allora nel ‘76 era dura, difficile…
Lorenza: E cosa significava per te, per voi, negli anni ‘70 muovervi insieme di notte?
Grazia: Beh, la notte era ovviamente il territorio che ci era stato proibito a lungo, cioè la ragazza che usciva di notte se non era accompagnata eccetera, era una poco di buono. Quindi uscire insieme di notte rispondeva al famoso, forse uno degli slogan femministi più famosi, del «Né puttana, né Madonna, finalmente solo donna». Quindi tu uscivi in maniera deliberata non da sola, sempre con le altre, da questi schemi che erano schemi millenari. […] All’epoca c’era una forza rivoluzionaria, un’influenza, una convinzione di essere nel giusto – ed eravamo nel giusto – che non temeva nulla e quindi neanche il buio, neanche la notte. Ed era anche molto divertente, diciamo la verità, questo riappropriarsi della notte. Io mi ricordo che con Lina Mangiacapre[7] facevamo dei piccoli gruppi, giravamo a Roma fino alle quattro di notte e prendevamo anche in giro i maschi che cercavano di fare delle avances. E poi, ecco, c’era anche l’avvicinarsi, per esempio alle donne della notte; quindi, a quelle che facevano le prostitute o che magari giravano, e non erano prostitute, ma comunque giravano sperando di trovare qualche amore o chissà cosa… E quindi questa capacità anche di avvicinarsi alle donne altre, con cui magari tu non avevi in genere commerci diurni in quell’epoca e poi si creavano dei normalissimi rapporti. […] Ma, comunque, questa cosa della notte è stata fortissimamente simbolica in un periodo in cui c’era già anche una controreazione rispetto al movimento delle donne che venivano catalogate come puttane o comunque pseudo rivoluzionarie, oppure tutta ‘sta stronzata che noi buttavamo i reggiseni. Mai buttato reggiseni in vita nostra! Una cavolata! Quindi era veramente… allora era veramente rivoluzionario uscire di notte in quel modo e con quella spavalderia, quella sicurezza di essere nel cuore della battaglia che adesso non ci sono più.[8]
La volontà di reazione al senso di pericolo rispetto al muoversi da sole di notte passa per l’organizzazione dei cortei, per le passeggiate o avventure notturne di cui parla Francescato ma anche per la progettazione di una qualche forma di autodifesa, come ad esempio emerge dai ricordi di Patrizia Celotto ma anche di Stefania Vulterini, che negli anni ‘70 faceva parte del collettivo femminista di Piazza Bologna.
Stefania: Io mi ricordo che nei nostri collettivi parlavamo moltissimo anche di come organizzare un’autodifesa. Era una cosa che ci prendeva moltissimo perché sentivamo che questa violenza… che molte di noi pur non essendo state stuprate, però erano sfuggite a occasioni, no? Magari di stupro, magari in viaggio, cioè di quello molte ne parlavano […] Io ho l’impressione che era diventato un qualche cosa che ci comunicavamo a vicenda, cioè nel senso… Quando dicono «ma il patriarcato non esisteva», io dico che solo noi possiamo sapere come era per noi camminare per la strada. Da sempre è un’azione che viene fatta – soprattutto di notte ma non solo – sempre con quel stare sul chi vive, controllare chi c’è dietro di sé… Senti, quindi il patriarcato è anche questo: è anche un luogo non sicuro per le donne, un luogo dove possiamo essere aggredite senza nessuna… Però, sai, all’epoca – come ancora – ci piaceva poco pensarci come vittime e quindi anche allora… C’era Marina Toschi,[9] che ti nominavo, che era molto battagliera anche lei su questo. Cioè eravamo donne libere che volevamo essere assolutamente libere, volevamo difenderci. Quindi delle volte ci lasciavamo andare anche a dei racconti truculenti di cosa avremmo fatto, no? Prendendo maschi che volevano compiere o compievano atti di violenza sulle donne. Però questo fatto di potersi difendere era una cosa molto forte. Solo più tardi, poi, sono nati nel femminismo di luoghi dove si faceva autodifesa, però l’idea c’era.[10]
Come già raccontato da Sapegno, anche dai ricordi di Stefania Vulterini spicca il rifiuto di pensarsi come vittime, di soccombere alla paura. Mi ha colpito molto, quindi, il punto di vita delle sorelle Flavia e Sandra Busatta, fondatrici e partecipanti di vari gruppi femministi padovani, fra cui Lotta femminista di Padova, che incarnano e rivendicano un femminismo molto radicale e combattivo, ma che – sul tema dell’agibilità notturna delle città per le donne – hanno dei distinguo interessanti da fare. Con loro ho condotto un’intervista online, purtroppo, ma molto lunga, in cui hanno ripercorso tutta la loro vita sul filo dell’attivismo politico. Mi è parso sin da subito chiaro che fossero abituate a raccontare la loro storia: parlava soprattutto Flavia, la più giovane delle due, ma anche Sandra, seduta accanto alla sorella, interveniva e faceva precisazioni. Talvolta si alzavano per farmi vedere attraverso lo schermo delle fotografie di loro stesse negli anni ‘70, fotografie scattate durante le manifestazioni: le hanno incorniciate e le tengono in casa. Parlando della manifestazione del novembre 1976 di “Riprendiamoci la notte” raccontano di essere state ospitate da alcuni compagni dell’autonomia operaia di Via dei Volsci e di essere rimaste colpite dal loro atteggiamento al rientro dal corteo, di notte, appunto.
Flavia: Noi andammo alla manifestazione di “Riprendiamoci la notte” di Roma, perché noi come gruppo di Padova avevamo poi messo su questo spettacolo teatrale che si chiamava “L’indomabile bisbetica” che portavamo in giro per l’Italia e avevamo da tempo un buon rapporto con quelli di via dei Volsci. […] Quando arrivammo nella casa dove eravamo ospitate, dove dormivamo, che era di uno dei capi di via dei Volsci, arrivammo con la macchina, parcheggiamo e era in un quartiere figo di Roma. E tu avevi… Monteverde? Forse… Comunque, tu avevi il cancello, poi avevi una siepe che portava alla porta della casa che era laterale rispetto alla strada. Sarà stata lunga dieci metri… E loro, tutti, ci dissero a noi donne di aspettare in macchina e i due maschi scesero a battere tutti i cespugli, a controllare che non ci fosse qualcuno che poteva farti la festa nascosto nei cespugli. E questo onestamente mi fece un’impressione terribile perché a Padova andavi in giro in bicicletta da sola alle quattro di notte e più o meno non rischiavi.
Lorenza: Quindi voi non percepivate un vero e proprio pericolo la notte a Padova?
Flavia: No, a Padova no.
Lorenza: Invece a Roma avete visto questa preoccupazione…
Flavia: Moltissimo… Però era anche vero che fin da… Diciamo, appunto, dal famoso ‘72, dal convegno di Roma[11] abbiamo percepito che era una città molto più grande, diversa…[12]
Anche la città in cui ci si trova, la sua ampiezza e soprattutto la confidenza che si intrattiene con essa, quindi, sembrano rappresentare degli elementi importanti nella percezione della paura rispetto agli spostamenti di notte. Una grande città come Roma – la città in cui abito più o meno continuativamente da otto anni – poteva (e può tuttora) incutere a giovani donne un tipo di timore che non sperimentavano nei loro contesti di provenienza.
Andando avanti, nel corso della ricerca ho anche intervistato delle donne attive nei movimenti femministi nati fra la fine degli anni ‘80 e durante gli anni ‘90 in Italia, soprattutto a Roma, Bologna e Perugia. Dell’esperienza delle donne che facevano parte di questi movimenti, per certi versi più vicini agli spazi dei centri sociali e più interessati a denunciare il legame esistente fra sessismo e razzismo, non tratterò in questa sede per motivi di spazio. Una cosa che però ha senso accennare in questo contesto è stata la mia sorpresa nel riscontrare un tenore di risposta molto diverso, più secco, rispetto a quello che mi veniva restituito dalle femministe attive negli anni ‘70, alla domanda sulla percezione di paura nel muoversi da sole di notte. Le femministe attive nei gruppi nati fra anni ‘80 e ‘90, e quindi di una generazione successiva rispetto a quelle raccontate in questo articolo, rispondevano che no, non ricordavano un sentimento di particolare paura nel muoversi di notte da sole o in un gruppo con altre ragazze. Sottolineavo, anzi, come fossero già allora ben consapevoli di dover temere più la violenza che poteva avvenire dentro le case, rispetto a quella in cui si poteva incorrere fuori, nelle strade. Venendo dalle interviste con le femministe degli anni ‘70 che cronologicamente ho svolto quasi interamente prima, devo aver mostrato stupore di fronte a queste risposte. Una di loro deve allora aver percepito che quella mia domanda ricorrente sulla percezione di paura aveva un secondo fine, in qualche senso, che fosse influenzata sì dalla mia ricerca, ma anche da una mia preoccupazione personale. Ricordo che mi ha guardato attenta e prima ancora di rispondermi mi ha chiesto: «Ma perché, tu hai paura? Vi siete fatte salire in testa la paura? Troppa gentilezza. Vi hanno educato troppo bene».[13]
Conclusioni
Cosa rimane di questi incontri? Si trattava “solo” di storia orale come viene canonicamente intesa?
Mi spiego: le fonti orali sono già di per sé una fonte euristica straordinaria, dal mio punto di vista. Come ha detto bene Alessandro Portelli, le fonti orali «ci informano non solo sui fatti, ma su quello che essi hanno voluto dire per chi li ha vissuti e li racconta; non solo su ciò che le persone hanno fatto, ma su ciò che volevano fare, che credevano di fare, che credono di aver fatto; sulle motivazioni, sui ripensamenti, sui giudizi e le razionalizzazioni».[14]
Ma se potessero dirci ancora di più? O meglio, non solo dire qualcosa in più, ma anche fare qualcosa in più, come aprire uno spazio di condivisione politica tra diverse generazioni di attiviste? Il divario tra le femministe degli anni ‘70 e ‘80 e le femministe delle generazioni successive è un tema abbastanza riconosciuto da entrambe le parti, almeno nei femminismi italiani, ma posso immaginare anche in altri contesti. Può la storia orale rappresentare un modo per aprire un confronto umano, prima ancora che scientifico, fra femministe di generazioni diverse e di tradizioni femministe diverse? È chiedere troppo alla ricerca storica? È oltrepassare un confine non detto? È venir meno alla neutralità richiesta dalla disciplina (tanto criticata dall’epistemologia femminista)? È già politica?[15]
Personalmente ho trovato davvero significativo discutere con donne, che si considerano femministe, nate trenta, quaranta, cinquant’anni prima di me, di un’attività così banale, se vogliamo, quotidiana, ma anche così poco tematizzata: muoversi, semplicemente camminare, quando scende la notte. Dalle trascrizioni delle mie domande, come si sarà potuto constatare, traspare l’emozione nell’affrontare un argomento del genere, nel porre una domanda che in un certo senso metteva sia le intervistate che me stessa allo scoperto: ci sono delle interruzioni, mi confondo con le parole, la propongo ogni volta in un modo diverso, cercando però di far intendere che mi interessa il loro punto di vista sia sul piano personale che su quello collettivo, delle loro amiche, delle loro compagne (ad es. formulando la domanda al plurale). È stato bello ritrovarmi in alcuni racconti, ma anche non ritrovarmi affatto e percepire la diversità. Il fatto che tornassero nei ricordi delle intervistate tante esperienze simili, un senso condiviso di fierezza e tutto un portato di riflessioni affini spiega in qualche modo la consequenzialità con cui ho deciso di ragionare in questo articolo sulle interviste che avevo raccolto. Oltre a una ciclicità nei temi, ho assistito anche a una ciclicità nelle modalità con cui la memoria emergeva, operava connessioni inaspettate, si inceppava. Ricorrono poi le reticenze, le ambivalenze, il non saper trovare le parole, le interruzioni del discorso quando si raccontano aspetti dolorosi come la violenza subita o anche solo temuta, fuggita, scampata. Per questo motivo rimane forte in me la gratitudine verso coloro che hanno avuto fiducia e hanno scelto di rispondere come potevano, nel mezzo di una serie di domande su un evento pubblico, su una manifestazione, a quella domanda potenzialmente così intima.
Credo che in questo tipo di ricerche, nel campo della storia di genere e che ricorrono alla storia orale, sia importante discutere apertamente e onestamente anche di questioni che potrebbero metterci a disagio come ricercatori/ricercatrici/ricercatorɜ e che, in un primo momento, potrebbero farci temere che chi intervistiamo cambi atteggiamento nei nostri confronti, smetta di prenderci sul serio, decida di non continuare l’intervista o di trattenere alcune informazioni. È forse un rischio da correre se si vuole concepire la propria ricerca come minimamente trasformativa, anche solo per il proprio sé.
Fonti orali
Sandra Busatta (nata nella Repubblica di San Marino nel 1946) e Flavia Busatta (nata a Cittadella nel 1949) del collettivo di Lotta femminista di Padova, poi Centro Femminista. Intervistate in videochiamata il 20 dicembre 2023.
Patrizia Celotto (nata nel 1956 a Torino), femminista torinese. Intervistata in videochiamata il 16 gennaio 2023.
Maria Rosa Cutrufelli (nata a Messina nel 1946) del collettivo femminista del Pompeo Magno. Intervistata presso la sua abitazione il 13 dicembre 2023.
Alessandra De Perini (nata a San Germano dei Berici nel 1949) ancora impegnata nella sua città a rendere visibili le pratiche di libertà femminile inventate dal femminismo. Intervistata in videochiamata il 12 dicembre 2023.
Grazia Francescato (nata a Paruzzaro nel 1946) co-fondatrice di «Effe». Intervistata presso la sua abitazione a Roma il 2 gennaio 2024.
Oria Gargano (nata a Roma nel 1957) attiva nel movimento femminista a Roma negli anni ‘70, poi fondatrice e attuale presidente di BeFree, Cooperativa Sociale contro tratta, violenza, discriminazioni. Intervistata in videochiamata il 26 marzo 2024.
Maria Serena Sapegno (nata a Roma nel 1951) del Collettivo femminista di Via Pomponazzi. Intervistata presso il suo ufficio il 12 dicembre 2023.
Vittoria Serafini (nata a Roma nel 1966) del collettivo radiofonico “Il sussurro di Cassandra” (poi “Cassandra”) di Radio Onda Rossa e del collettivo femminista Pacha Mama. Intervistata in un bar a Roma il 14 giugno 2024.
Stefania Vulterini (nata a Roma nel 1954) del collettivo femminista di Piazza Bologna. Intervistata presso la Casa internazionale delle donne di Roma il 19 dicembre 2023.
Bibliografia
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*Lorenza Moretti è dottoranda (XXXVIII ciclo) in Storia contemporanea presso “La Sapienza” Università di Roma con un progetto di ricerca sulle modalità attraverso cui i femminismi hanno affrontato la questione del limite, da un punto di vista ecologista e di critica alla neutralità delle scienze, fra anni ‘70 e ‘90 in Italia. Nel marzo 2022 si è laureata in Filosofie femministe e studi di genere nello stesso Ateneo con una tesi su Carla Lonzi. Fra gennaio e aprile 2024 è stata Visiting Researcher presso il Gender Studies research group dell’Institute for Cultural Inquiry della Utrecht University.
Note
[1] Per approfondire si veda Moretti L., «La notte ci piace, vogliamo uscire in pace». Le manifestazioni notturne contro la violenza di genere in Italia, in Feci S., Schettini L. (a cura di), L’autodifesa delle donne. Pratiche, diritto, immaginari, Viella, Roma 2024, pp. 75-102.
[2] Maria Rosa Cutrufelli (nata a Messina nel 1946) del collettivo femminista del Pompeo Magno. Intervistata presso la sua abitazione il 13 dicembre 2023.
[3] Maria Serena Sapegno (nata a Roma nel 1951) del Collettivo femminista di Via Pomponazzi. Intervistata presso il suo ufficio il 12 dicembre 2023.
[4] Oria Gargano (nata a Roma nel 1957) attiva nel movimento femminista a Roma negli anni ‘70, poi fondatrice e attuale presidente di BeFree, Cooperativa Sociale contro tratta, violenza, discriminazioni. Intervistata in videochiamata il 26 marzo 2024.
[5] Alessandra De Perini (nata a San Germano dei Berici nel 1949) dagli anni ’90 impegnata a realizzare incontri e iniziative
Pubbliche in città, in particolare al Centro Donna di Mestre. Intervistata in videochiamata il 12 dicembre 2023.
[6] Patrizia Celotto (nata nel 1956 a Torino), femminista torinese. Intervistata in videochiamata il 16 gennaio 2023.
[7] Femminista e artista napoletana, fondatrice del gruppo “Le Nemesiache” nel 1970. Grazia Francescato la conobbe quando aveva 24 anni e si era appena trasferita a Roma perché entrambe alloggiavano presso una residenza cattolica per giovani donne.
[8] Grazia Francescato, (nata a Paruzzaro nel 1946) co-fondatrice di «Effe». Intervistata presso la sua abitazione a Roma il 2 gennaio 2024.
[9] Toschi è ginecologa igienista, responsabile dei consultori nella ASL1 Umbria e fondatrice della Rete Italiana Contraccezione e Aborto Pro Choice.
[10] Stefania Vulterini (nata a Roma nel 1954) del collettivo femminista di Piazza Bologna. Intervistata presso la Casa internazionale delle donne di Roma il 19 dicembre 2023.
[11] Si riferiscono all’aggressione subita alla Facoltà di Magistero durante un Convegno dal titolo “L’occupazione femminile”, organizzato da Lotta Femminista a Roma il 6-7 luglio 1972. Durante l’incontro un gruppo di uomini, genericamente definitisi “compagni” (probabilmente di Potere Operaio), fece irruzione violentemente e impedì materialmente lo svolgimento del Convegno. Si vedano gli atti del convegno interrotto, in cui si riporta nella premessa tutto il carteggio fra le organizzatrici e i giornali su cui denunciarono l’accaduto: L’offensiva, Quaderni di Lotta Femminista, n. 1, Musolini, Torino 1972.
[12] Sandra Busatta (nata nella Repubblica di San Marino nel 1946) e Flavia Busatta (nata a Cittadella nel 1949) del collettivo di Lotta femminista di Padova, poi Centro Femminista. Intervistate in videochiamata il 20 dicembre 2023.
[13] Vittoria Serafini (nata a Roma nel 1966) del collettivo radiofonico “Il sussurro di Cassandra” (poi “Cassandra”) di Radio Onda Rossa e del collettivo femminista Pacha Mama. Intervistata in un bar a Roma il 14 giugno 2024.
[14] Alessandro Portelli, Sulla diversità della storia orale, in Id., Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Donzelli, Roma 2007, p. 12.
[15] Cfr. Maria Grazia Chinese, Carla Lonzi, Marta Lonzi e Anna Jaquinta (a cura di), È già politica, Scritti di Rivolta Femminile, n. 8, Milano 1977.