Questo testo nasce dalla collaborazione tra quattro partecipanti alla 3ª Scuola di Storia orale e Public history nel paesaggio metropolitano di Roma, svoltasi all’Ecomuseo del Litorale Romano, a Ostia, tra il 6 e l’8 settembre 2024. Questa scuola, che fa seguito a quelle di Tor Marancia e di Corviale, è stata la prima esperienza di formazione pensata da AISO per interrogare il passaggio dalla registrazione diretta della fonte orale a fini di studio alla sua archiviazione e futura fruizione. Il Report è stato scritto da quattro soci/ie AISO che, trovandosi nello stesso gruppo di lavoro, si sono scoperti tutti alla loro prima esperienza in una scuola di Storia orale: Maddalena Cataldi, Guido D’Elia, Lorenza Moretti e Martina Moretti.
Maddalena Cataldi, genovese, è storica delle scienze, e, senza usare le fonti orali (per ora) si interessa alla creazione di collezioni e archivi e alla storia sociale, politica e scientifica dei territori di bonifica italiani.
Guido D’Elia, canadese di origine ma residente a Roma da quasi dieci anni, è storico delle migrazioni e, occupandosi di flussi tra l’Italia e il Canada fa uso della storia orale nelle sue ricerche.
Lorenza Moretti, sabina di origine e residente a Roma da anni, è storica di genere e, studiando la storia dei femminismi, ama fare un ampio uso della storia orale.
Martina Moretti, ciociara di origine e residente a Roma, è storica dell’età contemporanea e, facendo ricerca sulle migrazioni postcoloniali nel mondo lusofono, è molto incuriosita dalla storia orale.
6 settembre, pomeriggio
Maddalena Cataldi
All’arrivo all’Ecomuseo del Litorale romano siamo stati accolti da Paolo Isaja della Cooperativa di ricerca sul territorio (CRT) e Simone Bucri dell’Ecomuseo del Litorale romano che ospita la Scuola AISO. Insieme a loro conosciamo Giulia Zitelli Conti e Bruno Bonomo di AISO che hanno organizzato la scuola.
Dopo un giro di presentazione dei partecipanti, tra cui soprattutto insegnanti, protagonisti del mondo associativo romano, soci AISO, dottorandi e studenti universitari, Paolo Isaja e Simone Bucri presentano l’Ecomuseo e la CRT. L’Ecomuseo, che è una delle realizzazioni dell’attività quasi cinquantennale della CRT, è allestito nel più vecchio impianto idrovoro di bonifica del territorio di Roma Capitale (1884). Giulia Zitelli Conti e Bruno Bonomo che hanno preso la parola subito dopo, hanno ricordato brevemente le finalità della scuola e evocano qualcuna delle sue edizioni passate (Corviale e Tor Marancia).
Ci spiegano che CRT è una cooperativa di ricercatori che, alla metà degli anni ‘70, hanno cominciato a intervistare e a filmare gli abitanti della zona intorno ad Ostia per conservare la memoria delle persone che, 100 anni prima circa (1884), avevano partecipato alla bonifica del litorale. L’obiettivo iniziale non era di produrre un archivio, ma piuttosto un film; uno degli animatori della CRT, Paolo Isaja, si interessava infatti alle possibilità allora inesplorate del “multimediale”, declinato poi soprattutto attraverso la produzione di cinque documentari sulla malaria, sulla guerra, sulla bonifica. Tra i risultati di questa stagione ci sono anche il libro Pane e lavoro, e un archivio fotografico.
Altre due elementi caratterizzano il lavoro della CRT. Da una parte la sua inserzione nel territorio, poiché tutti i soci lo frequentavano assiduamente. Inoltre, il carattere professionalmente composito degli aderenti alla cooperativa ha da subito aperto una riflessione interdisciplinare. Questo approccio si è tradotto, tra l’altro, nella scelta di dedicare alcune sale del museo alla geologia e morfologia del luogo, oltre che alla storia della medicina e alla memoria della cultura materiale della comunità degli intervistati. Quando necessario, la CRT si è rivolta anche a specialisti esterni, come nel caso della ricerca sulla malaria che ha coinvolto il Dipartimento di Medicina della Sapienza.
Molti di questi elementi sono emersi durante il dialogo – tenuto a fine giornata – tra Lidia Piccioni, studiosa di storia contemporanea e docente della Sapienza, e Paolo Isaja, uno dei fondatori della CRT. I due condividono tra l’altro una storia comune di ricerca con le fonti orali: Lidia Piccioni partecipava alle discussioni del Circolo Gianni Bosio e del gruppo dei “portelliani” e ha lavorato sulla memoria della guerra e del fascismo nel quartiere di San Lorenzo (Roma). Oltre a comunicarci il fermento e la moltitudine di iniziative che si facevano e disfacevano di quegli anni inaugurali della storia orale, i due dialoganti hanno sottolineato il carattere “politico” che i ricercatori, e anche molti intervistati, attribuivano all’intervista, che era per loro il momento in cui “fissare” la memoria degli attori storici subalterni. Il valore di “intervento” sociale e politico del gesto di registrare la voce di coloro che sarebbero altrimenti privi di parola nella narrazione degli storici nasceva da legami amicali o da una comune appartenenza politica. Il carattere intimo di questi legami, basati sulla fiducia e la condivisione di obiettivi politici, risulta adesso -ci ha detto Lidia Piccioni- frenare più che incitare all’apertura a terzi dell’archivio delle proprie ricerche. Paradossalmente, la trasformazione in archivio della memoria viva le sembra ora un gesto addirittura contrario al “lavoro della memoria” che avrebbe invece bisogno di essere coltivata e vivificata costantemente; questo è l’obiettivo dell’Ecomuseo e di altre esperienze, come quella della Lega di cultura di Piadena. L’AISO sembra uno spazio fertile per discutere di questi temi che restano aperti alla fine delle giornate. In ogni caso l’Ecomuseo, che abbiamo visitato accompagnati da Simone Bucri e Paolo Isaja, offre un esempio interessantissimo della storia della CRT e del territorio. Alcune sale tematiche restituiscono i grandi temi che hanno interessato il lavoro della Cooperativa; la malaria, la bonifica, la guerra, l’ambiente, oppure la natura antropomorfa del territorio, che si è costruito dalla interazione tra fenomeni naturali e sociali delle comunità che lo hanno occupato.
Fotografia di Rafael Triolo
La visita del centro di Ostia antica che ha concluso la giornata ci ha mostrato ancora un altro aspetto della vicenda della bonifica, che è inscritta nella storia della città attraverso una serie di monumenti e targhe in ricordo del ruolo di alcuni dei protagonisti principali della vicenda storica. Inoltre, la visita ci ha permesso di renderci conto quanto la storia della bonifica sia iscritta e ancora leggibile nella toponomastica della città. Abbiamo in effetti visto le abitazioni occupate al tempo dai braccianti appartenenti alla cooperativa di lavoro romagnola che ha realizzato la bonifica a prezzo di grandi perdite a causa della malaria. La toponomastica della città (via dei Romagnoli, via dei Ravennati) restituisce l’estraneità e la compattezza di questa comunità rispetto alla popolazione locale, ma è stato grazie al lavoro della CRT che si sono potuti documentare il trasferimento di pratiche e di idee politiche rappresentati dall’arrivo di questa comunità nella zona della bonifica del Litorale romano.
Fotografie di Roberto Labanti
7 settembre, mattina
Martina Moretti
La seconda giornata di formazione si è svolta all’insegna della riflessione sulla Storia orale e sugli archivi audiovisivi, a partire dagli interventi di Bruno Bonomo e Alessandro Casellato.
Abbiamo avuto modo di riflettere sul significato e sulle peculiarità della Storia orale, un particolare metodo di ricerca storica, basato sull’uso preponderante (ma non esclusivo) di fonti orali. Tra gli aspetti più rilevanti di questa tipologia di fonti, che consistono in testimonianze personali, vi è senza dubbio la centralità della componente umana. Questo implica un confronto con una serie di questioni decisive: se da un lato si pone il tema dell’uso delle fonti orali da un punto di vista strettamente epistemologico, dall’altro la specificità della fonte orale impone di considerare l’aspetto relazionale e umano come inscindibile dalla fonte stessa. In quest’ottica, assume un ruolo centrale la postura dell’ascolto, un atteggiamento del ricercatore/intervistatore, a cui viene richiesto di assumere, con la massima attenzione, non solo il compito di accogliere ciò che l’intervistato dice, ma anche di registrare le modalità con cui viene condivisa la testimonianza.
Quello che è emerso, in sostanza, è che nella Storia orale la dimensione biografica e soggettiva non può essere marginalizzata, poiché il vissuto personale del testimone è un elemento imprescindibile. Pertanto, il carattere dialogico della fonte richiede una profonda consapevolezza da parte dell’intervistatore, che viene coinvolto nel processo di costruzione della fonte a tutti gli effetti. Proprio questi elementi rendono evidente ed esplicita la distanza tra l’intervista nella Storia orale e nella cronaca, dove il giornalista tende ad incalzare l’intervistato e a forzare le reticenze.
A questo punto, verrebbe da chiedersi quale sia il ruolo della Storia orale nella più ampia cornice del fare Storia tout court. A tal proposito, Bruno Bonomo ha sottolineato il contributo di Alessandro Portelli, più volte ricordato nel corso delle giornate di formazione per aver riaffermato l’uso esplicito e qualificante di questo modo di fare storia. Infatti, le testimonianze orali devono essere sottoposte alla critica storiografica per verificarne l’attendibilità, come qualsiasi altra fonte. Il valore distintivo della Storia orale si riscontra nel fatto che questa metodologia si salda con la Storia sociale e si qualifica per essere una Storia dal basso, in cui il vissuto e la memoria individuale diventano la guida della ricerca. Questo aspetto mi sembra particolarmente rilevante, poiché garantisce una maggiore permeabilità tra il mondo accademico e le realtà locali, connotando la Storia orale di un profondo impegno politico-sociale.
Fare storia sul campo, come nel caso della CRT, apre la storia generale di più ampio respiro alle innumerevoli prospettive delle classi non egemoni, sebbene lo studio del territorio implichi una presenza sul posto prolungata e costante, talvolta difficile da garantire nel concreto. Infatti, non si può prescindere dalla necessità di creare con l’intervistato una relazione di fiducia, fondamentale ai fini della costruzione della fonte.
Come già detto, la Scuola di Ostia è stata la prima esperienza di formazione pensata da AISO sul tema degli archivi, anche perché il dibattito sulla conservazione e sul riuso delle fonti orali è tuttora aperto, come ha sottolineato Alessandro Casellato. Il fulcro della discussione può essere sintetizzato come segue: ha senso reinterpretare le fonti orali prodotte in passato? Se sì, in che modo?
Tali interrogativi sono tutt’altro che scontati, dal momento che la fonte orale si fa portatrice non solo di una dimensione soggettiva ma anche di particolari modalità espressive dell’intervistato, che la semplice trascrizione non riuscirebbe a trasmettere ed evidenziare. Inoltre, in Italia non sembrano esserci al momento le attrezzature necessarie per conservare le fonti orali, sebbene gli studi sulla conservazione di fonti sonore e audiovisive siano in aumento. Nel tentativo di proporre un approccio utile alla costruzione di archivi audiovisivi, Alessandro Casellato ha suggerito, innanzitutto, di non scorporare la fonte dalle liberatorie ad essa annesse, da eventuali riflessioni di lavoro e da altro materiale scritto fondamentale per la contestualizzazione della fonte.
Per esperire direttamente la difficoltà di interpretazione di una fonte avulsa dal contesto, abbiamo ascoltato un breve estratto di un’intervista ad una donna anonima che raccontava l’esperienza personale vissuta in un manicomio. Ad un primo ascolto e senza un’introduzione di contesto, non avrei mai potuto cogliere il senso delle sue affermazioni, pur comprendendo alcuni riferimenti alla sofferenza fisica e percependo che la donna stesse condividendo un vissuto doloroso. Quest’ultimo particolare riporta l’attenzione sulla persona e mi spinge a riflettere sulle criticità legate ad un riuso della fonte orale da parte di un ricercatore che non ha contribuito alla sua produzione. Un ricercatore che, quindi, deve fare uno sforzo diverso per reinterpretarla in maniera critica, rispettando le intenzioni del testimone.
Gli stimoli raccolti durante i due interventi hanno generato un dibattito ricco, in cui sono emersi vari temi, a partire da quello prettamente deontologico. A tal proposito, nel 2015 sono state pubblicate le Buone pratiche per la storia orale, aggiornate nel 2020 per adattarle al Regolamento generale per la protezione dei dati personali (GDPR) del 2016. Bruno Bonomo e Alessandro Casellato hanno suggerito di raccogliere innanzitutto i dati personali degli intervistati e di far firmare loro un modulo di autorizzazione all’intervista e un modello sulla privacy. L’aspetto principale di cui tener conto è che l’autonomia del ricercatore nella gestione del rapporto con l’intervistato non deve mai prescindere dalla tutela della privacy e dal rispetto nei confronti di quest’ultimo. Per osservare il patto di fiducia instaurato, è stato suggerito, ad esempio, di garantire all’intervistato la possibilità di rileggere le trascrizioni o di riascoltarsi prima di pubblicare la testimonianza, nonostante l’autorizzazione. A proposito del rapporto di fiducia, Lidia Piccioni ha evidenziato come questo possa rendere talvolta difficile cedere le fonti raccolte a terzi, come nel caso di un archivio, pur riconoscendo l’importanza di tramandare delle testimonianze che altrimenti andrebbero perse.
Fotografia di Rafael Triolo
7 settembre, pomeriggio
Guido D’Elia
Nel pomeriggio di sabato 7 settembre, abbiamo messo in pratica le nostre competenze di produzione video per creare un cortometraggio a nostra scelta, utilizzando materiali audiovisivi forniti dall’Ecomuseo del Litorale Romano e dalla Cooperativa Ricerca sul Territorio (CRT). Ci è stato chiesto di scaricare DaVinci Resolve 19, un software di montaggio intuitivo e davvero user-friendly, che ci ha permesso di lavorare con i materiali forniti e creare la nostra narrazione. Durante la mattinata, Paolo Isaja e Simone Bucri avevano presentato una produzione audiovisiva che illustrava l’evacuazione forzata di Ostia, un distretto di Roma, in risposta all’ipotizzato arrivo delle forze alleate durante la Seconda Guerra Mondiale, un evento che alla fine non si verificò. La produzione includeva interviste con residenti che hanno raccontato esperienze significative, tra cui episodi di vita quotidiana sotto l’occupazione nazista, i preparativi per l’evacuazione e il successivo ritorno a Ostia.
I partecipanti sono stati suddivisi in cinque gruppi e, utilizzando la produzione audiovisiva mostrata la mattina, ci è stato assegnato il compito di creare un cortometraggio a nostra scelta utilizzando il software citato, che ci ha permesso di montare il video, aggiungere effetti visivi e montare l’audio.
Dopo un’attenta analisi dei fotogrammi, il nostro gruppo ha deciso di concentrarsi sul tema dell’alimentazione durante la Seconda Guerra Mondiale. Questo ha portato alla creazione di Le foglie di broccolo: Memorie del cibo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Questo incontro ha segnato una svolta significativa rispetto agli eventi organizzati in precedenza dall’AISO, poiché è stata la prima volta che i partecipanti hanno lavorato esclusivamente con materiali d’archivio, anziché condurre e produrre le proprie interviste. Tradizionalmente, i partecipanti si sarebbero dedicati alla storia orale raccogliendo testimonianze dirette, ma questo cambiamento ha permesso loro di esplorare fonti storiche preesistenti, offrendo un nuovo approccio alla costruzione narrativa. Questa esperienza ha evidenziato il valore della ricerca d’archivio e ha dato ai partecipanti una comprensione più profonda di come lavorare con documenti storici nella narrazione audiovisiva.
8 settembre, mattina
Lorenza Moretti
L’ultima mattinata della scuola è stata tripartita: nella prima ora i vari gruppi di lavoro hanno ultimato i loro mini-documentari, nella seconda si sono proiettati i cinque documentari realizzati, accompagnati da una breve introduzione rispetto alla selezione dei materiali e al loro montaggio e, infine, c’è stato spazio per una discussione sui documentari stessi e sull’esperienza della scuola in generale. Un primo documentario svolgeva la funzione di trailer dell’anniversario dei 140 anni dall’arrivo dei braccianti romagnoli incaricati dallo Stato Italiano di bonificare le paludi e gli stagni litoranei, che si è svolto con un evento a novembre 2024 presso l’Ecomuseo. Un altro documentario raccoglieva esclusivamente le voci delle donne intervistate, enfatizzando in qualche modo una peculiarità di genere del racconto delle loro memorie. Un terzo gruppo si era, invece, concentrato sulle descrizioni che gli/le intervistati/e avevano fatto rispetto all’arrivo degli alleati. Gli ultimi due documentari (e quindi anche quello realizzato dal nostro gruppo) si concentravano entrambi sui ricordi della fame, dell’assenza di cibo e della gioia connessa all’ottenerlo: temi che erano effettivamente talmente ricorrenti nelle interviste da giustificare il fatto che due gruppi su cinque hanno deciso di sceglierli come fil rouge dei loro lavori.
Di seguito un fotogramma del documentario realizzato dal nostro gruppo (non possiamo allegare il documentario nella sua interezza perché non possediamo le autorizzazioni per diffondere le videointerviste dell’archivio dell’Ecomuseo).
Gli argomenti di discussione successivi alla proiezione hanno spaziato dalla facilità riscontrata dalla maggior parte dei/delle partecipanti rispetto l’utilizzo del programma di montaggio delle videointerviste, all’autorialità del montatore, all’impiego delle fonti orali realizzate da altri. Un dibattito particolarmente interessante si è innescato intorno all’utilizzo della musica come sottofondo alle interviste nel montaggio, a come possa indirizzare l’interpretazione dello/della spettatore/spettatrice, inducendo sentimenti di tensione, preoccupazione o di gioia e sollievo. Lidia Piccioni, in particolare, ha messo in luce come nel momento in cui si taglia la voce dell’intervistatore/intervistatrice delle fonti orali d’archivio, lo sguardo del montatore/ricercatore può esplicitarsi proprio attraverso l’utilizzo della musica. Ad ogni modo, mi pare comunque che la prassi condivisa sia quella di espungere il meno possibile, al momento del montaggio, la voce dell’intervistatore/intervistatrice, fondamentale – nell’ unicità dei propri interventi – per la costruzione dell’intervista stessa.
Rispetto all’utilizzo di fonti orali realizzate da altri/e, nessuno ha rilevato particolari difficoltà nel loro impiego. Al contrario, è stato evidenziato che la conservazione di fonti orali in un archivio può offrire un duplice oggetto di analisi: si può studiare, infatti, non solo il contenuto dell’archivio stesso, ma anche le modalità di realizzazione della fonte, situandole storicamente. Nel mio caso, ad esempio, essendo abituata a tener conto della dimensione di genere, è stato interessante notare come mentre alcuni uomini erano stati intervistati in luoghi pubblici (pontili, bar), la quasi totalità delle donne era stata intervistata presso la propria abitazione. Un’eccezione è rappresentata da due signore che vengono intervistate mentre sono sedute in una tavolata all’interno di un ristorante (in un contesto che rimane comunque amicale o familiare). Proprio sulle circostanze durante la quali si è svolta questa intervista è sorta una domanda di approfondimento da uno degli iscritti alla scuola. Paolo Isaja ha allora ricordato che si trattava di un’intervista, per così dire, “collettiva”, realizzata in occasione di una cena fra persone di Ostia della stessa età. Isaja ne era stato informato e aveva colto l’occasione presentandosi con il suo registratore durante il convivio.
Anche nella mia esperienza con la storia orale ho svolto delle interviste, non durante dei veri e propri pasti, ma con più intervistate contemporaneamente e in un clima conviviale. Seppure anche io riconosca la difficoltà, la confusione, la distrazione, le reticenze che possono ingenerare circostanze del genere (soprattutto tenendo conto delle svariate forme di relazione che possono esistere fra le intervistate/gli intervistati), dall’altro lato ne riconosco anche degli elementi di forza. Primo fra tutti c’è l’atteggiamento di apertura e familiarità che in molti casi viene esteso anche all’intervistatore/intervistatrice, nel momento in cui si crea un clima amicale e disteso. Poi c’è da considerare anche lo stimolo che la memoria di ciascun intervistato/a può svolgere nei confronti dell’altro/a, risvegliando ricordi o connessioni sopite. Infine, dal mio punto di vista, ciascun intervistato/a può trovarsi più a suo agio nel raccontare aneddoti, elementi della vita quotidiana, nel momento in cui si trova vicino a altre persone che hanno condiviso lo stesso vissuto (ricordo ancora con grande emozione quando un’attivista antimilitarista intervistata a Firenze decise di intonare un canto che con altre compagne intonava intorno alle basi missilistiche nucleari).
Infine, ho trovato molto significativo l’intervento di una partecipante alla Scuola, Antonella Fusco che ha messo in luce come gli intervistati/le intervistate parlassero di una fase della loro vita in cui erano bambini/e o poco più grandi, ma come proiettassero i loro ruoli, le loro parentele, e le loro relazioni attuali nelle loro parole, parlando di quelli che sarebbero stati i loro futuri mariti, mogli ecc. come di «mio marito», «mia moglie» ecc. Il fatto che gli/le intervistati/e, all’epoca dei fatti raccontati, fossero bambini/e ha poi innescato una riflessione collettiva sulla specificità della loro memoria e sulla valenza di interruzione della quotidianità che la guerra e soprattutto lo sfollamento aveva potuto svolgere nella loro esperienza. Interruzione che poteva finanche assumere il carattere di “gioco” nel loro vissuto di bambini e bambine.
Dopo questa discussione il seminario si è concluso con i saluti e con inviti a collaborare da parte degli organizzatori della scuola AISO, con scambi di contatti e promesse di rivedersi da parte di tutti e tutte le partecipanti.
Conclusioni
Maddalena. La scuola AISO è stata un’esperienza molto ricca; qui sottolineo gli approcci caratterizzanti che mi hanno interessato particolarmente. Il primo è il carattere laboratoriale della Scuola AISO. La pratica è raramente associata all’apprendistato del lavoro intellettuale, il che rende rara e interessante la proposta della scuola AISO.
Inoltre, ho molto apprezzato la possibilità di assistere ad una discussione tra due attori della storia orale (Isaja e Piccioni) che hanno incarnato ai miei occhi due possibilità, divergenti ma non contraddittorie, delle “patrimonializzazione” delle fonti orali: il museo e l’archivio. Entrambe queste opzioni sembrano doversi comunque confrontare (diversamente da altri archivi) con un “dovere di memoria” (che può anche essere sinonimo di un prolungamento della militanza politica dalla quale l’attività storica prende origine) che hanno in qualche modo contratto con i produttori/testimoni/persone-istituzioni che producono l’archivio. Questo “dovere” obbligherebbe lo storico che usa e quindi produce la fonte orale a proteggere e, con lo stesso gesto, vivificare continuamente, almeno sul piano dell’orizzonte politico, l’archivio storico/memoriale. Se mi sembra che l’aporia storia/memoria non sia propria alla storia orale, quello che mi ha colpito è la soluzione che è stata trovata empiricamente dagli organizzatori del museo (e che la visita ha chiarito). Infatti, diversamente da quanto fanno i musei metropolitani, il cui senso è proprio quello di sottrarre gli oggetti dalla trama del discorso e della pratica costruita localmente (dalla comunità che lo produce) per inserirli in un’altra narrazione (scientifica, universalista, autoritaria e anche cangiante a seconda delle condizioni politiche e scientifiche della produzione del discorso), l’Ecomuseo nasce per costruire – e tiene a mettere in mostra- la sua inserzione nel territorio. I dispositivi memoriali, storici e museali sviluppati dalla CRT all’Ecomuseo mi hanno permesso di inquadrare in una nuova prospettiva sia le contestazioni politiche che le analisi critiche che hanno interessato l’istituzione del museo nell’ultimo decennio.
Martina: Tra i principali punti di forza della Scuola vorrei sottolineare l’eterogeneità dei partecipanti, provenienti da tutta Italia e interessati alla Storia orale per ragioni diverse. Il confronto tra persone di età e professioni varie, sebbene tutte attinenti al mondo della didattica, della ricerca e della divulgazione culturale e multimediale, non si è limitato al contesto di formazione, ma è proseguito anche durante i momenti conviviali. Ne sono scaturite molte suggestioni legate alla sensibilità di ciascuno e soprattutto alle esigenze del presente, rendendo le discussioni vivaci e arricchenti per tutti, anche quando sono emerse prospettive tra loro divergenti. La riflessione continua sulla pratica della disciplina e sull’esperienza di ricerca sul campo svolta dalla CRT mi ha incuriosito ad approfondire la storia del mio territorio, rendendomi consapevole del potenziale di un ricercatore nel momento in cui si confronta con le vicende di persone legate al suo stesso sistema di valori e tradizioni. Inoltre, ho apprezzato moltissimo l’esperienza laboratoriale, che mi ha fornito degli strumenti concreti con cui lavorare in maniera autonoma e creativa con le tecnologie. Trovo questo aspetto particolarmente efficace, anche perché rappresenta un punto di contatto tra il mondo della ricerca accademica, di cui faccio parte come dottoranda, e la divulgazione multimediale, fondamentale per condividere i risultati di una eventuale ricerca con la società.
Guido: Un aspetto che mi ha colpito durante il dialogo sulle testimonianze orali è la difficoltà nel trovare un luogo sicuro e adeguato per archiviarle. La conservazione di questi contenuti pone sfide significative, soprattutto per garantire la loro protezione a lungo termine e l’accessibilità futura. Molti archivi mancano delle risorse tecnologiche necessarie per mantenere l’integrità digitale di queste testimonianze, esponendole al rischio di perdita o deterioramento.
Lorenza: Uno degli aspetti che più mi ha interessato di questa scuola è stata, viene da sé, la discussione intorno agli archivi di fonti orali e il monito espresso da più parti a versarvi le proprie. Si sono sollevate varie domande: come comportarsi con fonti raccolte decenni fa, per cui non esiste e non è più recuperabile una autorizzazione specifica ai fini della conservazione in archivio? Come non venir meno al rapporto di fiducia instaurato con le persone intervistate allora? Come realizzare archivi di natura mista, con fonti scritte e orali, soprattutto in riferimento a fondi specifici già esistenti (es. fondi di gruppi politici o movimenti da integrare con fonti orali raccolte in questo momento)? Non esistono risposte definitive e universali, ma ritengo che già porsi questo tipo di interrogativi nel contesto delle scuole AISO sia fondamentale per approfondire tali questioni in dei tavoli di lavoro specifici.
Ho trovato poi molto rilevante, e persino d’ispirazione, la testimonianza portata da Lidia Piccioni ma anche da Paolo Isaja sull’idea della ricerca-intervento.
Una menzione finale, infine, merita la percezione trasmessami dalla scuola AISO di aver trovato una comunità di ricercatori/ricercatrici a vario titolo, accomunati/e dalla passione per la storia orale e dalla volontà di valorizzarla, a cui fare riferimento anche in futuro. Una comunità dinamica, che riesce a parlare a una pluralità variegata di attori e attrici sociali, e ad aprirsi alle loro suggestioni, creando relazioni significative e durature con realtà militanti radicate nel territorio.
Fotografia di copertina di Rafael Triolo