Il 12 marzo 2009 è stato inaugurato il Centro Interuniversitario di Storia Culturale (www.centrostoriaculturale.unipd.it). C’è stato un convegno, a Padova. Ero presente come socio fondatore del CSC e come uditore del convegno, quindi nella doppia posizione di osservatore e osservato insieme. Ho scritto alcune impressioni e le ho inviate alla redazione del Notiziario, invitando all’iscrizione al CSC per dar voce – quale espressione più appropriata? – alla storia orale.
Il Centro è partito alla grande: molta gente, ospiti importanti, belle relazioni, palpabile interesse tra gli astanti, un bellissimo sito web. La prima considerazione nasce dal confronto con la nostra Aiso. Il fatto di essere incardinato in quattro università (PD, VE, PI, BO) gli consente risorse, opportunità e motivazioni che un’associazione come la nostra non può avere. D’altra parte le dinamiche accademiche erano evidenti. La prima delle quali è forse proprio alla base dell’idea stessa di costituire un centro dedicato alla “storia culturale”, aprendo – e quindi occupando – un campo di studi nuovi, in espansione a livello internazionale, in grado di esercitare un appeal che altre declinazioni della storia sembrano aver perso, nonché capace di sparigliare le vecchie gerarchie e reti di relazione tra gli studiosi e attivarne di nuove.
Sono emerse due linee: la prima tendeva a rintracciare alcune genealogie lunghe della storia culturale, ovvero a riconoscere che essa ha radici nella “storia sociale” degli anni ’60 e ’70 (da E.P. Thompson a R. Darnton), e non solo all’estero ma anche in Italia; la seconda metteva l’accento sulla discontinuità e la novità dell’approccio culturalista e le interrelazioni – più che con la storia – con gli altri “studi culturali” (antropologia, letteratura, visual e media studies). Se da una parte si chiedeva che gli studi sull’immaginario, le narrazioni, i simboli fossero ben ancorati a un contesto spazio-temporale specifico, dall’altra si evidenziava l’attenuarsi dell’idea di confine – in tutti i sensi: geografico, temporale, sociale, politico – che consente/richiede di studiare le connessioni delle mappe mentali che disegnano il mondo, più che i singoli ancoraggi specifici.
Della storia orale non si è parlato. Non solo non è stata tematizzata, ma direi anzi che la si è ignorata, tranne per un cenno fatto all’uso delle fonti orali per storia delle classi subalterne negli anni ’50-’60 (de Martino, Bosio…). L’unica storica orale citata è stata Luisa Passerini (ma esclusivamente per il coté femminista e per gli studi più recenti sull’amore, l’Europa, ecc.). In sede di dibattito finale ho suggerito che qualche altro oralista (come Nuto Revelli, per non dir dei viventi) poteva essere inserito tra i padri e le madri nobili della storia culturale, ma la proposta non ha incontrato molto consenso.
Mi sono chiesto come mai questa rimozione della s.o., che pure è diffusamente riconosciuta come una delle strade d’accesso alla svolta culturalista ed è anzi essa stessa – come notava Gabriella Gribaudi nel suo report da New York («Storia orale. Notiziario AISO», n. 2, maggio-giugno 2008) – una pratica ormai assai poco legata alla storia tradizionalmente intesa.
La prima – forse debole, non so – è la genesi a suo tempo militante della storia orale, specie in Italia: un tratto che non è scomparso del tutto e che significa grosso modo che non si vuole solo interpretare il mondo ma contribuire a trasformarlo, almeno un po’ (al limite estremo, nello spazio del dialogo/intervista). Mi sembra invece che questo orizzonte non sia contemplato dalla storia culturale così come è stata presentata a Padova, e che anzi si vogliano marcare le distanze.
La seconda risposta rimanda al fatto che la storia orale non può prescindere da un contesto: le narrazioni non fluttuano nell’aere indefinito, ma sono il frutto di un incontro con una persona specifica, in carne e ossa (anzi, tra due persone), ognuna portatrice di una propria biografia e collocata in una serie di rapporti sociali dai quali non si può prescindere nel lavoro interpretativo.
Dallo scambio di idee con varie persone – alcune presenti al convegno, altre interpellate solo via posta elettronica – sono venute altre considerazioni, che estrapolo e riporto qui sotto mantenendone intatto il carattere “semiorale” tipico delle e-mail. In coda, una replica di Carlotta Sorba, membro del direttivo del CSC. (Alessandro Casellato)
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Gilda Zazzara: Ho trovato comunque poca riflessione sulla soggettività degli storici stessi, sul senso di quello che fanno e, in relazione a ciò, sul perché chiamano le discipline in un modo o in un altro. Era tutto molto interno, genealogico. In generale ho percepito, nei discorsi e nel modo di farli, un’idea dello storico come interprete al di sopra della mischia e allo stesso tempo abbastanza onnipotente nello scegliere le proprie fonti. Un po’ genio creatore… Io 300 [il film sulla battaglia delle Termopili citato da Alberto Banti nella sua relazione] non l’ho visto, e mi affascina l’analogia con la pedagogia risorgimentale, però mi interessa anche sapere perché tot persone vanno a vederlo, chi sono, come (e se) lo traducono nei conflitti presenti con lo straniero, se forse vedere quel film conferma modi di pensare che danno luogo a gesti e scelte (votare, stare con la propria moglie, andare in chiesa, pagare le tasse, viaggiare) e quindi magari vado a intervistarli e leggo i blog dove si esprimono direttamente. Si può studiare la cosa in termini di mappe mentali, ma anche l’altra è storia culturale.
Gabriella Gribaudi: La storia culturale è largamente dominata dallo studio delle “narrative” nazionali e dalle memorie pubbliche. Spesso se ne fa la decostruzione a partire da altre macro narrative, oppure si ipotizzano valori e codici culturali popolari senza studiarli cioè senza affrontare lo studio di fonti che diano la possibilità di accedere a questi livelli. Poi c’è l’eterno disprezzo della scuola italiana per la storia orale e l’ignoranza delle metodologie utilizzate dagli scienziati sociali per studiare gli individui e i gruppi sociali.
Gloria Nemec: Come ben sapete c’è una forte gerarchizzazione nelle storie, quella culturale forse ambisce alle buone posizioni e non vuole troppi legami con pratiche di base. Il paradosso è che mentre dilaga una domanda collettiva di memoria/identità, la storia orale rimane in posizione di nicchia, sebbene anche sulle grandi narrazioni nazionali abbia qualcosa da dire. Mi preoccupa ancor più l’allentamento del legame con la storia sociale, particolarmente vistoso da quando classi subalterne e altre sono diventate brutte parole. Mi spiace non esser stata al convegno, credo che molti apporti – anche di vivace discussione – possano venire da quel fronte, troviamo un momento per parlarne.
Andrea Brazzoduro: Il dibattito sui cultural studies mi pare una copia di quello già visto in Francia contro i postcolonial studies. Si tratta in fin dei conti di schermaglie accademiche per preservare feudi, domini di caccia e recinzioni. Poi ci sono anche delle questioni più di fondo, ma non so se a Padova sono venute fuori: per esempio a proposito dei “postcolonial” (che come i “cultural” sono una galassia talmente variegata che già il fatto di parlarne come una sola cosa rivela un intento polemico) Jean-François Bayart non ha esitato a dire: “Du point de vue des sciences sociales, les études postcoloniales sont à la fois utiles, superflues, assez pauvrement heuristiques et politiquement dangereuses” (La novlangue de l’archipel universitaire, in La situation postcoloniale. Les postcolonial sutides dans le debat français, a cura di Marie-Claude Smouts, FNSP, Paris 2007, p. 269). Sorprendentemente, anche Giovanni Levi – nello stesso convegno, organizzato a SciencePo a Parigi – si è unito ai detrattori dei “postcolonial”, a partire da una lettura molto classica di Can the subaltern speak? e del baubau “decostruzionista”: il testo di Spivak sarebbe insomma un peana all’irrazionalismo compiaciuto dell’impossibilità dei e delle subalterne di parlare e ancor più di capirle. Ma soprattutto per Levi la critica postcoloniale è inutile perché non ci aiuta a capire Berlusconi, che (ça va sans dire) è il problema costitutivo del presente globale. “Or la question fondamentale – et, je pense, un problème européen intéressant – c’est de comprendre pourquoi les italiens on produit Berlusconi. Ce problème fondamentale ne peut pas être étudié si on utilises les postcolonial studies” (p. 287).
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Intanto grazie dell’attenzione rivolta al nostro nuovo Centro e della ospitalità accordata a questa mia “risposta” nel Notiziario dell’AISO.
Proprio perché in realtà un dialogo mi/ci interessa particolarmente, nonostante l’effettiva assenza di riferimenti specifici alla storia orale durante la giornata citata, vorrei precisare in modo davvero informale alcuni elementi che forse possono dare una immagine più realistica di cosa siamo o vorremmo essere.
Abbiamo inaugurato il mese scorso il nostro CSC con grande entusiasmo, dopo un lungo iter burocratico di attivazione, ma anche con pochi soldi, ben poco “potere” accademico e molto timore di fronte ad una cosa nuova e ancora aperta a molti possibili, come si è visto credo nella giornata di apertura.
Non si trattava di occupare posti e spazi (scientifici o accademici che fossero) ma di attivare , attraverso un percorso e una realtà istituzionale come è un centro interuniversitario, un meccanismo virtuoso che innescasse finalmente anche in Italia una discussione intorno alla storia culturale e una valorizzazione di questo terreno di ricerca che è effettivamente da noi in notevole ritardo.
Quali dunque i primi obiettivi? La creazione di uno spazio che ci permettesse di uscire dalle pastoie e dalle secche delle questioni terminologiche e delle etichette: in tutto il mondo questo impasto di non facile definizione viene chiamato storia culturale, sono nate associazioni nazionali e internazionali ad essa dedicate, dove si discute sia sulle opportunità che sui limiti e sui rischi di un approccio culturalista, e in Italia ancora si fatica a riconoscere che esiste qualcosa che può chiamarsi storia culturale.
Si trattava anche, cosa che abbiamo cercato di fare nei limiti di un’occasione inaugural-celebrativa, di recuperare una sorta di genealogia italiana, che ne mostrasse, come ha ben evidenziato Alessandro, le sue anime diverse. Che ovviamente rimarranno tali, perché si tratta comunque di uno spazio aperto, del tutto privo di ortodossie, certo non militante ma nemmeno apolitico. Piuttosto impegnato a mostrare, se mai ce ne fosse bisogno, che per capire l’Italia di Berlusconi, come ha sostenuto lo stesso Banti nella sua relazione, la storia economica e quella sociale molto difficilmente possono bastare…
C’è quindi voglia di discutere, sia nel merito che nella metodologia (il nostro prossimo seminario avrà come ospite Patrick Joyce che ci verrà a parlare di Putting the social back into social and cultural history ), uscendo però da quel gioco di accuse alla cieca sulle “derive” culturaliste che spesso poco consapevolmente sono rivolte a qualsiasi approccio che abbia anche solo il sentore di mappe mentali, immaginari, narrative o simbologie…
Per concludere, vi dirò che certo ha ragione Alessandro lamentando l’assenza della storia orale da questa giornata fondativa, anche se come spesso accade il gioco delle assenze può allargarsi a dismisura.
Una delle ragioni più dirette anche se poco elevate consiste nel fatto che molti di noi sono di fatto ottocentisti e quindi purtroppo lontani dalle sue metodologie specifiche. E vi assicuro che non dico purtroppo per caso, perché sono convinta che sia invece oggi uno dei terreni più interessanti e più fruttuosi che si aprono anche per chi privilegi un approccio di storia culturale (e non fluttui nell’aere).
Ben vengano allora le discussioni su storia culturale e storia orale, anzi sarebbe interessante organizzare un incontro su questo. Ci incroceremo comunque presto perché il seminario di Joyce di cui vi dicevo sarà a Padova il pomeriggio del 14 maggio, in contemporanea al vostro convegno, e questo ci permetterà spero qualche scambio. Molto cordialmente.
(Carlotta Sorba)