Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2013
Con testi di Eloisa Betti, Stefania Ficacci, Stefano Gallo, Maria Porzio, Silvia Segalla.
Lavoratrici precarie dell’industria bolognese, rammendatrici vicentine tra fabbrica e lavoro a domicilio, proletari ‘centomestieri’ delle borgate romane, muratori di Livorno, generazioni di pescatori di Torre del Greco. Sono i protagonisti di cinque saggi di storia del lavoro che affrontano il rapporto tra culture di mestiere, autorappresentazioni individuali e collettive, e dimensione dello spazio: la città, il paese, il quartiere, il porto, la casa.
Il testo è scaricabile alla pagina Edizioni Ca’ Foscari Digital Publishing
Stefano Musso, Prefazione:
“La qualità dei saggi, che il lettore potrà rilevare addentrandosi nelle pagine che seguono, testimonia l’accortezza metodologica e le doti degli autori, nonostante la loro comune condizione di precari della ricerca acuisca le difficoltà del loro operare e moltiplichi gli sforzi necessari a conseguire i risultati offerti, in termini di conoscenza del nostro mondo e delle sue tendenze evolutive. Tale conoscenza costituisce un patrimonio culturale tanto indispensabile ad affrontare le sfide del presente quanto trascurato da visioni miopi del rapporto tra cultura, dinamismo sociale ed economia, miopia ben esemplificata da chi recentemente, e da alte, ma ben poco autorevolmente occupate, posizioni istituzionali, ha sostenuto che con la cultura non si mangia.”
Gilda Zazzara, Introduzione. La passione della storia «come lavoro»:
“I saggi che compongono questo volume sono firmati da studiosi – per lo più studiose – «intercettati» dal seminario «Ascoltare il lavoro», che dal 2010 si tiene ogni anno, in maggio, presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Sostenuto dal Dipartimento di Studi umanistici, dall’Associazione italiana di Storia orale (Aiso) e dall’Istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil del Veneto (Ires). […] I saggi che qui si leggono, insomma, possono essere visti anche come un particolare prodotto di una determinata forza-lavoro inserita nello specifico modo di produzione della ricerca universitaria di oggi: non tutta, sia chiaro, ma almeno buona parte di quella delle generazioni nate dalla metà degli anni settanta in poi, tra «150 ore» e «decreto di San Valentino». Non sarebbe forse utile, per usare un po’ di lessico aziendale, chiedersi che rapporto c’è tra processo e prodotto, tra le condizioni di lavoro dei ricercatori in storia e le loro ricerche? Di quale filiera produttiva fanno parte questi manufatti intellettuali? Nei saggi di questi lavoratori-studiosi precari vedo una passione che è spia di una grande libertà nella necessità. Libertà di scegliere lo studio della storia «come lavoro», e libertà di continuare a farlo quasi del tutto privi – privati – di aspettative di carriera e stabilizzazione, al limite come ricercatori indipendenti, «partite Iva» della storiografia, in forza di una formazione professionale caparbiamente perseguita. Ciò che più sorprende nella storia del lavoro è la forza e la creatività dei più deboli e divisi. Gli storici precari sono una vera forza: della storia e dell’università di oggi.”