Riflettendo sulla scuola AISO di Bagnone
8-10 ottobre 2014
di Giovanni Contini (Presidente AISO)
La scuola AISO che si è appena conclusa a Bagnone non solo ha fornito informazioni agli iscritti: ha dato anche molto da pensare a chi di fonti orali e di videoregistrazioni si occupa ormai da molto tempo.
Fondamentale è stata la presenza di un’antropologa visuale come Rossella Schillaci e di un documentarista come Dagmawi Yimer, che hanno parlato durante il convegno e poi hanno presentato due loro opere la prima e la seconda sera (Il limite di Schillaci l’8 dopo cena, Va pensiero. Storie ambulanti di Dagmawi Yimer il dopo cena successivo). Ci siamo infatti trovati di fronte al risultato di una ricerca che certamente non è quella di storici orali ma che a noi storici orali può fornire stimoli importanti.
Nel caso di Schillaci abbiamo un’opera che si presenta come curatissima da un punto di vista formale, tanto che uno spettatore, la sera in cui è stato proiettato Il limite, parlava di opera d’arte. Ma dovendo articolare un giudizio direi che siamo di fronte ad un utilizzo sapientissimo del linguaggio visivo per documentare in modo denso (la thick description di Geertz) il soggetto scelto: la vita di un equipaggio su un peschereccio siciliano (le riprese sono durate un mese). Non ci sono le domande e le risposte che sono tipiche della storia orale, ma immagini del lavoro (la rete a strascico calata in mare e tirata a bordo, con conseguente raccolta del pescato e scarto di pesci anche pregiati dal momento che si congelavano solo gamberi) intercalate a sequenze centrate sui membri della ciurma, siciliani e tunisini. I pescatori lavorano, si muovono, interagiscono tra loro. Talvolta parlano. Ma non si ha l’impressione che quanto dicono sia la risposta ad una domanda che è poi stata cancellata in sede di montaggio. Del resto questo raccogliere il parlato spontaneo dei soggetti ripresi, il parlato che equivale al gesto, è un tratto caratteristico dell’antropologia visuale. Ci sono poi anche le famiglie e le mogli riprese nelle loro abitazioni, il capitano che discute con l’armatore, l’armatore che non paga i pescatori. Emerge il rapporto complesso tra siciliani e tunisini (questi ultimi accusati di non essere grati ai siciliani, che si sforzano di non offenderli con cibi proibiti dalla religione islamica), il lamento per un mare sempre più povero (ma Schillaci mostra lo scandaloso spreco di pesce anche pregiato), il conflitto con l’armatore furbastro e a un passo dal fallimento, le tristi vite delle donne arabe che vivono in Sicilia in perenne attesa dei mariti imbarcati per settimane… Insomma Schillaci ci mostra che un uso sapiente del linguaggio visivo è in grado di far parlare non solo la voce ma anche l’ambiente dove si riprende, i gesti, le espressioni del volto. Così senza che vengano mai poste domande i protagonisti ci informano in modo molto ricco sulla loro situazione. Una perfezione formale quindi che ha non tanto lo scopo di fare “arte” quanto di significare in modo profondo, utilizzando codici polisemici. E ci riesce.
Uno stimolo analogo mi arriva dal lavoro di Dagmawi Yimer, che pure si occupa di un tema differente: il razzismo nei confronti degli immigrati in Italia. I protagonisti sono Mohamed Ba, griot, attore e educatore senegalese, accoltellato nel 2009 in pieno giorno nel centro di Milano. E Sougou Mor e Mbenghe Cheikh, anch’essi senegalesi, aggrediti a colpi di pistola il 13 dicembre 2011 a Firenze, mentre vendevano la loro merce (in quell’occasione l’aggressore, prima di suicidarsi, uccise altri due senegalesi e invalidò permanentemente un terzo). Anche in questo video l’autore non compare direttamente con domande o con la sua presenza (in altre sue opere Dagmawi Yimer compare direttamente e interloquisce) ma riprende i suoi soggetti durante uno spettacolo (Ba), insieme ai figli (Mor e Cheikh), nel corso del matrimonio di Ba o durante un incredibile conversazione con alcune mamme di studenti affetti da sindrome di Down che arrivano a cantargli “faccetta nera” (Ba è educatore dei loro figli). Anche in questo caso i soggetti si muovono, interagiscono con familiari e amici, parlano tra loro. Emerge lo scandalo per essere aggrediti così violentemente da sconosciuti e il trauma per le ferite (Ba rimane a terra senza che nessuno lo aiuti per moto tempo). Ma emerge anche il trauma di lungo periodo, l’impossibilità di ritornare alla situazione precedente, la permanenza della paura. Anche qui non ascoltiamo nessuna domanda ma la costruzione audiovisiva ci informa in modo dettagliato e profondo sul vissuto delle vittime, ma anche sulla loro vita sociale, sulle loro qualità di uomini e sull’aggressione come passato che non riesce a passare.
Interessante è stata la reazione dei partecipanti alla scuola: i video sono stati apprezzati moltissimo, tuttavia alcuni (Andrea Brazzoduro in particolare) hanno fatto notare come l’assenza delle domande marcasse una differenza rispetto ai lavori di storia orale, così preoccupati di non nascondere il ruolo e la funzione dell’intervistatore. Soprattutto nei frammenti di video utilizzati da Schillaci nel corso della sua lezione, ad esempio, si è riconosciuta una serie di risposte a domande che non venivano riportate nell’opera. Il problema è che i due autori sono documentaristi, appunto, e non storici orali. Scelgono di non comparire direttamente e lasciano tutto il campo ai testimoni. Questo è certamente quello che noi storici non facciamo e non dobbiamo fare, credo tuttavia che noi che da anni utilizziamo il video possiamo ricavare più di uno stimolo da quelle opere: ci mostrano come utilizzare la videoregistrazione in tutte le sue potenzialità, quando spesso noi abbiamo semplicemente deciso di aggiungere l’immagine senza che questa aggiunta abbia modificato l’intervista, che spesso, quasi sempre, è condotta il luoghi chiusi, intervistato e intervistatore seduti uno di fronte all’altro.
Insomma noi (ma forse sarebbe meglio dire io) abbiamo, per così dire, accettato di utilizzare la videoregistrazione per aggiungere alle nostre interviste delle informazioni che solo con la registrazione audio non era possibile catturare: l’abitazione dell’intervistato con i suoi arredi, la presenza spesso muta di altri membri della famiglia o di amici, l’espressione facciale e i gesti compiuti dal testimone durante le interviste (che talvolta contraddice quanto si afferma verbalmente). Il lavoro dei documentaristi suggerisce invece che il video possa essere utilizzato in modo più ricco ed esteso, riprendendo i testimoni mentre camminano, per esempio; o mentre lavorano e interagiscono con i colleghi o con altre persone collegate alla vita lavorativa; o mentre si relazionano a familiari o amici. Più in generale, come già era successo ascoltando Calegari l’anno passato a Forlì, appare evidente la ricchezza di un approccio continuato con un singolo testimone, o con pochi testimoni. Un approccio che dura nel tempo e costruisce una relazione molto più rilassata di quella “mordi e fuggi” che spesso caratterizza le interviste condotte solo una volta, e quindi molto più ricca di informazioni. Informazioni che i documentaristi ci aiutano a cogliere nella loro natura polisemica: gesti che accompagnano le parole per rafforzarle, correggerle, contraddirle; espressioni anche mute che parlano anche più delle parole; giochi di sguardi tra due o più testimoni, anche in questo caso portatori di informazioni “istantanee” e molto convincenti. Insomma: la presenza, le parole e soprattutto i prodotti dei documentaristi invitano ad allargare molto lo spettro del nostro uso della telecamera. Sono personalmente entrato nella scuola di Bagnone convinto che avrei avuto stimoli importanti per come impostare il montaggio, ma quanto ho visto e ascoltato mi ha fatto pensare che, prima del montaggio, è necessario considerare la fase della ripresa, della videoregistrazione. Che, se adeguatamente condotta, potrà offrire al montaggio materiali infinitamente più ricchi da selezionare e da assemblare.
La scuola ha affrontato altri temi che la videoregistrazione propone: Antonio Canovi ha mostrato un video composto dal montaggio di riprese interamente effettuate da studenti medi nel corso di una visita ai distretti minerari belgi. Talvolta le inquadrature risentivano del senso comune visivo veicolato dalla televisione, altre volte mostravano i caratteri estetici dei social networks, e la loro tipica velocità compositiva. Ma complessivamente l’esperienza è parsa molto interessante: primo esempio di un uso interattivo del video: studenti che hanno potuto vedere un documentario sulla storia dei minatori italiani in Belgio, hanno ascoltato chi ha condotto la ricerca, sono poi intervenuti sullo stesso tema durante il viaggio organizzato per loro nei luoghi, infine hanno montato il loro girato. Credo si tratti di un format destinato ad essere utilizzato assai nel futuro, anche per la diffusione degli strumenti per la videoregistrazione che caratterizza il presente. Si tratta anzi di un modo per de-banalizzare la videoregistrazione, per imporre una riflessione sul rapporto tra realtà e registrazione, tra registrazione e montaggio. Certamente si tratta di un format destinato ad essere molto utilizzato in ambito didattico, e di didattica e fonti orali (prevalentemente audio registrate) ha parlato Catia Sonetti (Ricerca con le fonti orali e didattica: riflessioni e problemi) che tra l’altro ci ha parlato di una complessa ricerca condotta insieme agli studenti di una sua classe sui reclusi nell’isola di Gorgona, nell’Arcipelago Toscano.
Il secondo giorno della scuola, presieduto la mattina da Piero Cavallari e nel pomeriggio da Elisabetta Novello, si è aperto con una sessione più classicamente didattica: Cavallari ha raccontato la storia affascinante dell’ufficio del quale fa parte, l’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi per la conservazione e la tutela della documentazione audiovisiva, ex Discoteca di Stato, e di come esso opera per la tutela e la conservazione degli archivi audiovisivi. Che sono infatti particolarmente fragili e necessitano di un’attenzione continua, di continui riversamenti. Soprattutto quando ci troviamo di fronte a formati ormai obsoleti, che si tratta di trasferire da formato analogico in formato digitale, e poi di assistere man mano che i formati di salvataggio cambiano con la consueta velocità che contraddistingue la vita delle apparecchiature elettroniche. Anche Marco Marcotulli ha condotto una lezione didattica circa il montaggio, concentrandosi soprattutto su “Premiere” e mostrando a grandi linee come effettuare tecnicamente l’accorpamento dei frammenti selezionati per realizzare un documentario. Questo passaggio, e l’apparente facilità nell’utilizzo di Premiere che ci ha dimostrato, è particolarmente interessante per chi, come me, sempre più pensa che il montaggio dobbiamo farcelo da soli. Marcotulli ha poi mostrato un documentario da lui realizzato e ha parlato della tecnica di composizione del documentario tradizionale, cioè del documentario che ha una durata media prestabilita (sui 25 minuti) e che deve sollecitare l’attenzione dei fruitori con l’introduzione nel corpo della narrazione di alcuni picchi drammatici, capaci di riafferrare l’attenzione di uno spettatore generico, quindi non particolarmente interessato al tema del documentario e la cui attenzione tende ad affievolirsi assai presto. A questo punto alcuni (Alessandro Cattunar in particolare) hanno posto un problema che mi sta particolarmente a cuore, quello di come considerare e produrre elaborati non necessariamente indirizzati a un pubblico generico ma destinati tendenzialmente agli specialisti di un determinato settore. Possiamo comporre un documentario che assomigli ad un saggio scientifico? Quanto dobbiamo sentirci vincolati al consueto format cronologico del documentario? Possiamo sperare che nonostante questo il nostro lavoro sia palatabile anche per gli spettatori generici?
La giornata, che vedeva anche la già discussa lezione di Dagmawi Yimer, ha proposto anche altri interessanti problemi: è preferibile utilizzare direttamente la telecamera da parte del ricercatore/storico orale (è il caso di chi scrive e di Yimer) o è meglio utilizzare un operatore video che affianchi il ricercatore, come hanno sostenuto Adriana Dadà (Da soggetti della video documentazione a protagonisti della ricerca: l’esperienza del MAM) e Simona Mussini e Alessio Giannanti di “Archivi della Resistenza” (Dalla lotta di Liberazione alle storie migranti. Cronistoria, questioni e metodologie). Si tratta, si è visto, di un’alternativa che non ha molto senso e che dipende in ultima istanza dalla scelta dell’autore della ricerca. E’ stato interessante come Dadà ha mostrato il progressivo coinvolgimento nella ricerca delle donne filmate perché avevano un tempo esercitato l’antico mestiere delle “barsane”, venditrici al dettaglio che partivano dalla Lunigiana e operavano in Val Padana vivendo condizioni di vita e di lavoro terribili. Particolarmente interessante, e molto discussa, la sequenza nella quale una parente giovane di un’anziana barsana si lamentava molto intensamente per l’abbandono affettivo che aveva subito quando la “barsana” si allontanava per settimane. Sia Dadà che Mussini e Giannanti hanno mostrato elaborati dai quali l’interazione tra intervistatore/intervistatori e testimone era evidenti: sentivamo le domande, talvolta vedevamo anche i ricercatori direttamente sullo schermo. Naturalmente la tecnica d’intervista, anche tra chi utilizza l’operatore esterno, varia: Dadà opera con un operatore singolo, il gruppo di Archivi della Resistenza invece propone l’intervista come momento di cultura militante: l’intervista (spesso l’intervistato è una figura molto connotata da un punto di vista politico, un anziano partigiano per esempio) è condotta da gruppi di tre, quattro, cinque persone. Oltre a chi si occupa del video e dell’audio il team prevede anche un ricercatore che, manualmente, stila in tempo reale una “time table” cioè una sorta di regesto dell’intervista cadenzata sui minuti del girato, che prevede una descrizione dell’evento e anche un giudizio dei singoli frammenti in vista del montaggio futuro. Sorprendente, infine, la vicenda di Andrea Colbacchini, autore del documentario“Vita in alpeggio sull’Altopiano dei Sette Comuni” che ci ha raccontato la sua scelta di effettuare una serie di interviste con i malgari dell’altopiano di Asiago. Sorprendente perché l’autore non aveva mai condotto un’intervista né aveva utilizzato una telecamera fino a poco più di un anno fa, e il risultato del suo lavoro è davvero buono. Anche nel suo caso operatore video e ricercatore coincidono.
L’ultimo giorno, presieduto da Andrea Brazzoduro, ci ha fornito da parte di Damiano Garofalo (Eichmann, Lanzmann, Spielberg. Regimi di verità e rappresentazione dellaShoah nel cinema europeo e americano) un’efficacissima carrellata di spezzoni audiovisivi (riprese al processo Eichmann, lo sceneggiato americano Olocausto, Shoah di Lanzman, La donna nella resistenza di Liliana Cavani, Shindler’s list di Spielberg) che mostravano come proprio attraverso l’immagine fosse emersa progressivamente quell’egemonia del testimone in relazione alla storia della Shoah della quale parla Annette Vieworka in “L’era del testimone”. Liliana Ellena ha infine proposto una lezione (Decostruendo l’archivio audiovisivo dell’Europa postcoloniale) organizzata insieme a Enrica Capussotti, che non ha potuto essere presente perché impedita da una malattia. L’immagine (foto storiche, video storici, interviste) in questo caso è stato analizzata per com’è stata usata dagli artisti visivi che studiano la decolonizzazione. In questo caso la qualifica di artisticità non è, come nel caso di Rossella Schillaci, l’opinione di uno spettatore ma una rivendicazione degli stessi autori degli elaborati. Rispetto al lavoro dei documentaristi siamo di fronte ad un utilizzo dell’immagine ancora più lontano da quello degli storici orali. Gli artisti infatti non seguono criteri pedestri di verità ma privilegiano la costruzione di una verità complessiva, ottenuta montando i documenti più disparati e privilegiando l’efficacia iconica del messaggio, che riesce a colpire e a produrre un risultato di spiazzamento nello spettatore. Anche questa procedura dovremo studiarla per i nostri lavori futuri.
Termino dicendo che questo resoconto sarebbe incompleto se non accennassi alla bellezza di Bagnone (seguono immagini) e al lavoro fondamentale svolto da Francesca Guastalli e da Monica Armanetti, del comune di Bagnone. Le quali hanno seguito la logistica della nostra scuola, dei nostri pasti, dei nostri alloggi in modo ammirevole.