Come da nostra abitudine raccogliamo e pubblichiamo contributi di giovani studiosi che utilizzano la metodologia della storia orale per le proprie ricerche. Oggi diamo spazio ad Ahmed Daoud che ha da poco conseguito il dottorato di ricerca presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.
Ahmed nella sua tesi si è occupato del tema dell’antifascismo concentrandosi soprattutto sugli aspetti legati alla pratica politica e alla militanza. In particolare, ha cercato di comprendere in che modo questo mondo complesso e poliedrico viene raccontato, immaginato e praticato a cavallo tra il XX e il XXI secolo. In questi anni, l’antifascismo extraistituzionale ha avuto come punto fermo la pratica, ossia l’idea che l’antifascismo “si fa” attraverso la presenza sui territori e iniziative di aggregazione. Solo in questo modo è possibile combattere il “fascismo non dichiarato” cioè l’intolleranza, il razzismo, la segregazione sociale, la sofferenza dei più deboli; in altre parole le condizioni che costituiscono l’anticamera del fascismo che poi viene allo scoperto.
Ahmed per il suo lavoro ha raccolto 14 interviste e la maggior parte sono state fatte a soggetti politici legati all’antifascismo extraistituzionale: militanti o ex militanti di centri sociali (il Cantiere di Milano, il Bulk di Milano, il Vittoria di Milano, il Garibaldi di Milano, l’Officina 99 di Napoli, l’Askatasuna di Torino) e membri o ex membri di Rifondazione Comunista (consiglieri comunali e segretari provinciali di quel partito). A queste si è aggiunta un’analisi della produzione culturale di quegli anni (canzoni, film, programmi televisivi ecc.). Dalla ricerca emerge così un antifascismo profondamente diverso da quello della memoria dei partigiani e delle istituzioni nazionali, un antifascismo che cerca di contrastare quotidianamente le pulsioni reazionarie e antidemocratiche presenti nella società e che parallelamente tenta di costruire comunità solidali a sostegno dei più deboli. (g.m.)
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La mia tesi di dottorato, dal titolo «A conquistare la rossa primavera»? Resistenza e antifascismo durante la «Seconda Repubblica» (1993-2009): celebrazioni, ideologia, pratica politica, quotidiani, programmi televisivi, documentari, film e canzoni, è stata discussa alla Scuola Normale Superiore di Pisa il 29 ottobre 2018. In questo lavoro ho cercato di studiare l’antifascismo non solo come memoria ma anche come pratica politica e forma di militanza: al centro del mio discorso ci sono le contraddizioni, la complessità e la divisività di questo «mondo».
Tra i tanti aspetti analizzati nella tesi voglio qui prenderne in considerazione due che mi sembrano importanti. Il primo è la presenza di due antifascismi: uno «istituzionale» ed uno «extraistituzionale». In questo estratto mi riferirò all’antifascismo «extraistituzionale», cioè quello praticato da partiti, organizzazioni e movimenti di sinistra che hanno una concezione politica, sociale ed economica diversa da quella istituzionale, che si pongono in contrapposizione alle istituzioni e – alcuni di loro – anche alla «società vigente», si intende cioè il sistema capitalistico.
Una pratica dell’antifascismo diversa: che non è nazionale né patriottica, e che valorizza altri aspetti, come l’uso della categoria di «classe», e il rifiuto delle istituzioni. Non si basa – o non si basa solamente – sulle celebrazioni e sui rituali ma sulla pratica di un «antifascismo militante» che ha in sé anche il secondo punto che vorrei toccare: la dimensione «esistenziale» del «paradigma antifascista». Quest’ultima si manifesta in un antifascismo elevato a strumento essenziale ed «esistenziale» della propria concezione politica, che ha in sé due elementi definibili come «metapolitici» o «transpolitici», i quali hanno a che fare con una dimensione della politica che si potrebbe definire «antropologica»: da una parte, una concezione attivistica della democrazia, cioè un senso di responsabilità e di impegno per la cosa pubblica in maniera totalizzante; dall’altra, il ruolo della «cultura del conflitto» rispetto all’immagine uniforme, unanime e «disciplinata» che si ha della società.
Altri due tratti tipici dell’antifascismo «extraistituzionale» che ho esplorato sono l’idea che il fascismo in realtà non sia mai morto e che sia «sopravvissuto» in altre forme, mantenendo una sostanza reazionaria e antidemocratica, e la critica, o almeno la diffidenza nei confronti della ritualità delle celebrazioni del 25 aprile e dell’antifascismo «istituzionale». Ma non è tutto. Essere antifascisti vuol dire non solo esprimere la possibilità/necessità di dover praticare un antifascismo «militante» (inteso come la necessità di reagire alle aggressioni neofasciste, e di rifiutare la loro agibilità politica), ma anche il bisogno di coniugarlo con una proposta culturale alternativa che applichi nell’attualità ciò che si individua come i «valori dell’antifascismo e della Resistenza»: creando comunità solidali a difesa dei più «poveri» e dei più «bisognosi» (come ad esempio i migranti), creando un retroterra culturale antirazzista e antixenofobo, difendendo le case occupate delle famiglie meno abbienti, facendo un lavoro culturale antifascista nelle scuole.
Ci si immerge così nella soggettività: cioè nel come questi antifascisti vedono loro stessi, e nel significato che danno a quello che fanno. Per lo storico tutto ciò pone dei problemi, il più complesso dei quali è dato dalla difficoltà di storicizzare determinati fenomeni, soprattutto se sono così vicini a noi. Alcune domande che mi sono posto nella mia tesi sono: che cosa vuol dire essere antifascisti oggi? Quanto di un «antifascismo» di questo genere può essere effettivamente detto tale, quanto no? Esiste una continuità fra questi movimenti e la storia dell’antifascismo, un legame con gli antifascismi precedenti?
Tra le fonti che ho utilizzato (audiovisive, archivistiche, a stampa, ecc.) compaiono molte interviste. Si pubblica qui un estratto di un’intervista al gruppo musicale Assalti Frontali, che può essere considerato organico all’universo che ho descritto, per quanto il loro pensiero e la loro pratica politica se ne discostino talvolta. Nel passo riportato, come si vedrà, la soggettività emerge fortemente. Gli Assalti Frontali sono un gruppo rap nato a Roma nel 1991 dopo la fine dell’Onda Rossa Posse, un gruppo di musicisti che rappresentano un’esperienza importante e fondativa dell’hip hop italiano. Sono legati prima a Radio Onda Rossa e all’ambiente «autonomo» romano di Via dei Volsci, poi al centro sociale Forte Prenestino dal quale si distaccheranno, come racconteranno nella canzone Va tutto bene del 1999. La militanza politica, l’antifascismo, la musica come forma di «ribellione» emergono in molte loro canzoni. Le canzoni, dunque, non solo come documenti ma anche come «agenti di storia» in grado di influenzare larghi strati sociali, in particolare quelli giovanili. La musica come forma di militanza politica.
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Intervista a Militant A e Pol G, componenti degli Assalti Frontali, a Pisa, il 1 aprile 2017
Daoud: L’antifascismo che ruolo ha rivestito nella vostra formazione musicale ma anche come persone?
Militant A: Chiaramente siamo cresciuti sia vivendo che leggendo, un po’ nelle strade… eh… la dimensione antifascista, però quello che… abbiamo sempre cercato di fare nel nostro lavoro culturale… è quello di lavorare sui mondi, sul mondo… cioè quello che era appunto il mondo della «Roma meticcia» [canzone degli Assalti Frontali del 2011], il parco, la scuola pubblica, cioè creare delle comunità, che sono le comunità poi solidali, che sono quelle l’antifascismo vero, secondo noi. Eh… cioè aldilà poi dello scontro vero, diciamo fisico, verbale che magari delle volte è anche importante, però diciamo che il vero antifascismo è costruire un mondo, una comunità che vivendo è antifascista. Ad esempio, stiamo facendo un laboratorio rap con dei ragazzi della terza media in cui raccontiamo il Porrajmos, che è lo Sterminio dei rom, che nessuno… cioè i libri di storia per dirti non ne parlano. Il fatto dei nazisti! Chi erano i nazisti? Che sembrano una cosa lontana nel tempo e anche dei pazzi, che sterminarono milioni di persone così. Invece quello che è importante comunicare è che non erano dei pazzi ma erano delle persone che avevano anche un’anima e un cuore, magari si innamoravano delle donne come ci innamoriamo noi e gentili e cortesi a loro modo, nel loro mondo. Però avevano un’idea, nei confronti dei diversi, degli oppositori che li ha portati a fare queste cose. E quindi, insomma, questa è una cosa importante che vogliamo comunicare: certe idee, certi pregiudizi, certi odi nei confronti dei diversi che portano poi a fare l’Olocausto, a fare lo sterminio, a far vivere male delle persone. Quindi l’opposto è invece allargare il più possibile i confini, creare appunto comunità più solidali possibili. Diciamo, chiaramente, abbiamo usato anche nelle nostre canzoni delle cose più forti, però, solitamente, diciamo, la nostra poetica è più rivolta su un piano, su una dimensione più aperta. Cioè secondo noi, l’antifascismo del 2017 è quello appunto di essere propositivi.
Daoud: Una cosa culturale?
Militant A: Sì una cosa culturale… ma non solo culturale, cioè anche pratica, conflittuale, però propositiva, compositiva, di situazioni! Cioè la lotta per il parco, per il lago, per la scuola pubblica, per la cultura intesa come possibilità di una scuola pubblica, laica e solidale aperta a tutti i bambini!
Daoud: Cattivi maestri [canzone degli Assalti Frontali del 2011]!
Militant A: Sì, una scuola che sia capace di includere i rom, e quindi una scuola non solo capace di includere i bambini rom ma anche di farsi carico di come loro vivono, quindi dove stanno. Il fatto che se li sgomberano allora la scuola li può difendere. Questa è una sorta di dimensione di vita, che poi è anche antifascista.
Daoud: È controcultura proprio, diciamo?!
Pol G: Sì, tutto questo si può sintetizzare anche col fatto che è stato individuato il fascismo, soprattutto il fascismo che non si dichiara tale, capisci? Cioè, c’è il fascista che si dichiara tale e quello c’ha anche una dimensione rituale della cosa, no? Come dire, diventa una contrapposizione, un gioco delle parti. Mentre la cosa più urgente è come individuare il fascismo quando non è dichiarato, quando non è dichiaratamente tale; che poi è quello che ha fatto emergere poi il nazismo, il fascismo, c’era cioè un fascismo pre, già preesistente nel sistema. Cioè c’è quello storicizzato, dichiarato e poi la cosa più urgente è individuarlo quando non è dichiaratamente tale.
Daoud: La domanda che faccio un po’ a tutti e questa. Siccome io lavoro molto sulla differenza tra, cioè sto cercando di categorizzare il fatto che secondo me esistono due tipi di antifascismo grosso modo, uno «istituzionale» e uno «extraistituzionale» al quale fate riferimento voi, che si distingue per una concezione molto più conflittuale, fuori dalla «ritualità». Quello che volevo sapere io è: voi ad esempio come vedete – ecco una domanda forse un po’ provocatoria – l’antifascismo delle istituzioni? Ad esempio del Presidente della Repubblica.
Pol G: Male, ma io ti dico solo sta piccola cosa. Penso che la ritualità c’è anche nell’antifascismo non istituzionale.
Daoud: Questo è interessante!
Pol G: Cioè, è proprio quello che cerchiamo di evitare noi, no?! Cioè, c’è una ritualità anche in quello non istituzionale! Chiaramente quello istituzionale lo vediamo malissimo perché cioè è come dire qualcosa di sbagliato di fondo, di origine, quindi cioè poi la guerra civile ha portato a dei compromessi, a ricostruire dei partiti che erano anche dichiaratamente fascisti. Però penso che la cosa forse più interessante è che la ritualità che va evitata è anche quella del mondo non istituzionale antifascista.
Militant A: Comunque, in generale, il «fascismo istituzionale» è molto più dannoso di quello non istituzionale. Dico, cioè il «fascismo istituzionale» e il razzismo istituzionale. L’antifascismo istituzionale, che ti devo dire? Cioè, è chiaramente una cosa di facciata. Cioè comunque la Costituzione nasce dalla lotta partigiana, nella Costituzione c’è l’antifascismo. Il «fascismo istituzionale» è molto più doloroso, insomma, del fascismo della strada, dei fascisti alla [Massimo] Carminati, che certo cioè sono una cosa… ma tutto sommato il fascismo che c’è stato in Italia, nel Ventennio fascista, io penso che sia abbastanza improponibile perché oggi come oggi anche se chiaramente cioè [Matteo] Salvini è forte, tutto quanto. Poi comunque all’economia, il capitalismo proprio, un certo grado di libertà, di movimento, di circolazione gli serve. Quindi, non è manco più proponibile quel tipo di fascismo là.
Daoud: In merito a quello che mi dicevi prima, quindi secondo te il «fascismo istituzionale» è più pericoloso di quello che sta nella piazza? Cioè per dire Fratelli d’Italia rispetto a Casapound…
Militant A: No, cioè il «fascismo istituzionale» sta pure nel Pd. Cioè è una cosa che investe tutto, le leggi che vengono fatte, ecc. Mentre, invece quel fascismo lì che abbiamo vissuto non serve oggi al capitalismo perché è una cosa che soffoca gli affari. Mentre gli servono di più altri tipi di fascismo. Quel tipo di fascismo lì, spero, ce lo siamo messi alle spalle. Detto questo, le crisi creano comunque dei mostri, delle risposte facili, come ad esempio quella del razzismo. Però poi, cioè, l’immigrazione che è qualcosa che serve anche al capitalismo, cioè la forza lavoro a basso prezzo, roba che serve al capitalismo. Il capitale vuole manodopera… vuole che ci siano gli immigrati.
Pol G: Cioè anche rispetto al razzismo, secondo me, c’è stato uno spostamento da [incomprensibile] della storia. Cioè, il razzismo s’è spostato più verso l’egoismo sociale, no? Che non è più razzismo teorizzato come durante il fascismo ma è più egoismo sociale, cioè non è razzismo vero e proprio.