Pubblichiamo la recensione del libro di Antonio Fanelli, Contro canto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap (Donzelli, Roma 2017), scritta da Alessandro Casellato e da poco uscita nella rivista “Passato e presente”, n. 106, gennaio-aprile 2019, all’interno di un gruppo di schede su Musica e politica curato da Alessio Petrizzo. Vi si riprendono temi che sono stati oggetto del seminario AISO su Storia orale e culture popolari.
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Anche la storia del canto sociale in Italia ha avuto i suoi “trent’anni gloriosi”. I tre decenni successivi al 1950 furono effettivamente l’età dell’oro della ricerca etnomusicologica: la comparsa sulla scena di nuovi e più agili strumenti di registrazione si incrociò con la fascinazione che gli intellettuali subirono per le culture popolari e con la fortuna e il radicamento dei partiti di massa. La canzone sociale si caricò allora di significati politici, che motivarono due generazioni di ricercatori-militanti a interessarsene, a farne oggetto di studio per trasformarlo in uno strumento di comunicazione e in una forma di intervento politico. Questa è una storia ampiamente nota, oggetto di numerose rievocazioni e anche celebrazioni, ed occupa i due capitoli centrali del libro di Antonio Fanelli, che si aprono con la pubblicazione delle Osservazioni sul folklore di Gramsci (1950) e si chiudono con la crisi del Nuovo Canzoniere Italiano e la liquidazione delle Edizioni Bella Ciao (1980). Ma l’originalità del libro sta soprattutto nei due capitoli che trattano del prima e del dopo. Fanelli è nato e cresciuto all’indomani dei “trent’anni gloriosi”, e questo gli offre una prospettiva diversa rispetto a quanti ne hanno scritto avendoli vissuti in prima persona. Antropologo, giovane dirigente dell’Istituto Ernesto de Martino, torna a occuparsi di canto sociale e musica popolare dopo che – per altri tre decenni, quelli seguiti al 1980 – il campo degli studi demologici è stato quasi del tutto abbandonato, anche in reazione alla pesante ipoteca che la fase gloriosa aveva lasciato. In questo, egli riprende la lezione di Fabio Dei, impegnato da anni a rifondare la ricerca sulle culture popolari in Italia. La scelta di proporre una cronologia lunga del canto sociale serve a storicizzare quella stagione, cioè ad analizzarla criticamente.
Ma partiamo dall’inizio. Il primo capitolo è dedicato a Spartacus Picenus, nome d’arte di Raffaele Mario Offidiani, le cui canzoni – come La guardia rossa e Viva Lenin! – sono state “la colonna sonora del mondo comunista italiano tra le due guerre” (p. 15). Offidiani si basava sulla parodia di musiche popolari e commerciali in voga; questo garantiva orecchiabilità e diffusione alle sue canzoni, i cui testi però erano tutti interni ai canoni della politica comunista. Da qui comincia la riflessione anche teorica di Fanelli su che cosa si possa intendere per cultura popolare, che rapporto abbia questa con la cultura “commerciale”, se e come si possa dare musica popolare in un contesto in cui l’industria culturale e i mezzi di comunicazione di massa sono presenti e anzi pervasivi.
La fortuna di Spartacus Picenus viene meno all’alba dei “trent’anni gloriosi”, quando comincia ad affermarsi una nuova estetica del canto sociale, che viene codificata dagli intellettuali impegnati a sinistra e desiderosi di scoprire i prodotti più “autentici” della cultura popolare. Il secondo e il terzo capitolo del libro trattano di questa fase, tenendo insieme il filo del dibattito teorico e l’ampio ventaglio di protagonisti del folk revival italiano, da Gianni Bosio a Otello Profazio.
L’autore riserva particolare attenzione ai mediatori di cultura, ovvero a quegli uomini e donne “di confine” che cercano di mettere in comunicazione i mondi popolari e le élite intellettuali che tramite la musica si incontrano, si scontrano, ma comunque si ascoltano. Si tratta talvolta di uomini di estrazione contadina o operaia che attraverso le strutture di partito o sindacali diventano, per esempio, organizzatori culturali ed entrano quindi in relazione diretta con gli intellettuali e gli artisti; è il caso di Lorenzo Gillio detto “Micio”, ex operaio Fiat, licenziato per motivi politici, diventato funzionario di partito, organizzatore di gare ciclistiche e dirigente di Italia Canta; il “Micio” non avrà un rapporto facile con gli intellettuali torinesi di Cantacronache, da cui li divideva non solo l’estrazione di classe, ma anche una diversa idea di quali fossero i gusti musicali del popolo comunista, che chiedeva di ascoltare musica leggera più che canzone d’autore anticonformista.
Ma altre volte sono gli “intellettuali rovesciati” – gli intellettuali che escono dalla loro cerchia sociale e si mettono in relazione con i mondi popolari, secondo la definizione di Gianni Bosio – a tentare di fare sintesi tra culture, con grandi rischi anche personali. È il caso per esempio di Giovanna Marini, musicista colta formatasi nell’accademia, che negli anni Settanta gira l’Italia portando la sua esperienza di militante del Nuovo Canzoniere Italiano in contesti – la “base” comunista, il popolo delle Feste dell’Unità – che molto spesso reagiscono con indifferenza o rigetto, rivelando tratti della cultura popolare assai poco compatibili con l’estetica della sinistra intellettuale.
L’ultimo capitolo verte sull’eclissi dell’uso politico della musica folk seguita al 1980, che apre però a una gamma molto ampia di sperimentazioni ed esperienze locali: dalla riscoperta delle musiche tradizionali del sud, al rap e alle posse dei centri sociali. Qui il terreno è ancora in buona parte non dissodato e sono numerose le segnalazioni – implicite o esplicite – che l’autore fa per possibili (necessari, ormai) approfondimenti di ricerca. Ne riprendo solo un paio. Il primo riguarda un tema che torna in più punti del capitolo: il momento del “ritorno a casa” dei giovani intellettuali politicizzatisi negli anni Settanta, a fronte della sconfitta politica che si era consumata alla fine del decennio; fu un ritorno sul territorio, nei paesi d’origine, che non può essere ridotto a semplice “riflusso” nel privato, ma diede vita a una ricerca di nuovi spazi e forme del lavoro culturale. Non ci furono solo i centri sociali nelle città, ma anche le migliaia di associazioni, circoli, musei etnografici, radio locali, centri di documentazione che vengono aperti nella provincia e che negli anni Ottanta e Novanta consentono di trasferire energie e competenze veramente a contatto con mondi popolari – cioè quei mondi dai quali molti dei giovani, figli della scuola media unica, erano usciti all’indomani del ’68 per andare all’università e venirne trasformati. Per altri, arrivati ancora dopo, saranno i docenti dell’università a stimolare l’interesse per il recupero delle tradizioni locali.
Ma quello che la lettura del libro di Fanelli ci consegna come terra incognita tutta da esplorare mi pare sia soprattutto il passaggio – ben più complicato da digerire – dall’egemonia sulla cultura popolare auspicata dalla sinistra a quella ormai conclamata esercitata dalla destra. Come è stato possibile? Osservato dal Veneto, da dove scrivo, questo passaggio non è neppure una novità degli ultimi anni, ma è un grido d’allarme inascoltato che da tempo si era levato al resto d’Italia (e sintomaticamente il nord-est musicale, protagonista non minore della ricerca sul canto sociale, manca quasi completamente anche in queste pagine). Alcune risposte ci vengono proprio dalla lettura del libro: tanti equivoci non affrontati per tempo, nel rapporto tra intellettuali e masse, cioè tra un popolo idealizzato e il popolo reale; tanti fraintendimenti nelle rappresentazioni colte della cultura popolare, e anche nei repertori musicali proposti nei canzonieri politici e nei concerti militanti. Ma anche tante esperienze di confine troncate brutalmente e troppi “intellettuali rovesciati” lasciati soli, o non abbastanza sostenuti. Insomma, forse in questo libro non c’è solo la diagnosi della malattia, ma anche la ricetta per la cura.