Pubblichiamo il primo capitolo del libro di Marco Bellonotto, I compagni di Stefano. Storie di partigiani di città (Savona 1943-1945) (Elio Ferraris Editore, Savona, 2005), con una nuova introduzione dell’autore, scritta per i lettori di questo sito.
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Dei ragazzi poco più che diciottenni che a metà del novembre 1944, nel quartiere savonese di Villapiana, diedero vita al distaccamento SAP “Stefano Peluffo” (fucilato dai fascisti all’inizio del mese) non ne è rimasto nessuno. Dopo una dismissione quasi inavvertita – conclusivo segnale della definitiva deindustrializzazione del territorio – sono scomparse anche le Officine Elettromeccaniche Scarpa & Magnano, la fabbrica “fucina di antifascismo” (secondo la memoria dei giovani del “Peluffo”) e simbolo di un quartiere che per quasi tutto il Novecento si era sempre autorappresentato come popolare, antifascista e comunista (anche il Partito comunista italiano, che nella loro vita di adulti ha costituito un tratto identitario irrinunciabile, non c’è più da molti anni).
Di loro sono rimaste poche tracce e tra queste una parte della loro memoria resistenziale che “I compagni di Stefano. Storie di partigiani di città, Savona 1943-1945” – un libro pubblicato nel 2005 di cui si propone qui il primo capitolo – ha cercato di presentare in un racconto polifonico di testimonianze orali.
Un libro, non mi sembra inutile sottolineare, che è nato da una sconfitta. Un progetto di ricerca naufragato sugli scogli delle associazioni partigiane che si opposero a far intervistare gli ex partigiani dal sottoscritto (al che feci notare a un amico: “Ma non hanno esitato di fronte alle Brigate nere e adesso si spaventano per due interviste?”. Beninteso, la diffidenza intorno alle fonti orali è un tema complesso che non può certo essere liquidato con una battuta) mi spinse a mettere mano alla mia vecchia tesi di laurea – nata da un’intuizione di Augusta Molinari che poi mi guidò per tutto il successivo percorso di ricerca – nella consapevolezza che pubblicarla (cercando di ampliarla ed epurarla di qualche errore che era emerso nel frattempo) non avrebbe arrecato gran danno in una realtà, quella savonese, dove la percezione della Resistenza era ancora legata a vecchi stereotipi presenti in particolar modo nella vecchia e un po’ ingabbiata storiografia comunista (in altre parole Savona veniva presentata come una città compattamente antifascista, già praticamente impermeabile al regime mussoliniano – del quale non a caso era assente qualsiasi ricostruzione storiografica a livello locale – e pertanto l’evento resistenziale si configurava come una lotta di tutto un popolo, spesso già bella e pronta del 9 settembre 1943 e condotta senza tregua fino all’aprile 1945; totale silenzio sulla resa dei conti post-liberazione) che poggiavano a loro volta sul cosiddetto “paradigma antifascista”. Questa ostinata volontà ad azzerare la complessità della lotta partigiana (che comunque nel territorio aveva ricevuto una preponderante impronta comunista) e a rimuoverne le contraddizioni ha di fatto lasciato campo aperto ai “revisionisti” à la Pansa.
Nel frattempo erano comparse alcune pubblicazioni che avevano arricchito il panorama degli studi e da cui trassi preziose indicazioni. Di quelle locali do conto nel primo capitolo; qui vorrei soffermarmi brevemente sul debito contratto con tre autori: Manlio Calegari, innanzitutto (da cui ho colto il tema della frattura – piuttosto che della continuità – fra la generazione degli antifascisti del ventennio e quella dei “ribelli” che erano saliti in montagna disobbedendo al regime che li aveva educati; e conseguentemente il fatto che in molti casi la consapevolezza politica venisse dopo l’impeto di agire), Santo Peli (che con precisione, pazienza e senza clamori aveva composto un quadro generale che faceva finalmente giustizia di molti miti che ancora alle soglie del XXI secolo riguardavano il senso comune storiografico della guerra partigiana), infine Luigi Borgomaneri (per la sua capacità e sensibilità nell’addentrarsi nell’ambiente della cospirazione svolta nei centri urbani).
Proprio la Resistenza in città, mentre ritornavo sulle testimonianze dei vecchi partigiani, presentava nei loro ricordi alcune specificità non sempre adeguatamente sottolineate. Se la montagna era il luogo della banda partigiana dove si riscopriva la dimensione collettiva, dove si attaccava e ci si difendeva insieme, dove nel rapporto con la natura e il territorio “selvaggio” l’uomo provava il senso fisico della libertà e della pienezza della sua forza; la città al contrario era lo spazio presidiato dai fascisti e dai nazisti, il luogo delle sensazioni onnipresenti della solitudine e del sospetto, della paura delle delazioni e dell’arresto (che si manifestava ogni volta che durante la notte un camion si fermava di fronte a casa, ogni volta che si sentiva qualcuno salire affrettatamente le scale), di svoltare l’angolo e incappare in una retata.
Insomma se nell’immaginario collettivo la Resistenza è la guerra per bande combattuta in montagna non è male, di tanto in tanto, ricordare anche i “partigiani di città”.
Marco Bellonotto
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Un comandante partigiano raccontò che…
La notte fra l’8 e il 9 settembre 1943, nel quartiere di Villapiana, qualcuno bussa alle finestre dell’abitazione di Angelo Cesarini, operaio comunista della Scarpa & Magnano:
Alle due di notte ho sentito bussare ai vetri, che era già il nostro segnale, io dormivo […] era lui [Ernesto Miniati][1], e di lì s’è incominciato a dare tutti gli ordini, c’era la raccolta dei viveri, noi si doveva, dice: «Datti da fare!»[2].
La Resistenza nel Savonese, come altrove, comincia spesso così, con azioni spontanee di ristrettissimi gruppi – talvolta si tratta di vere e proprie iniziative individuali – che nascono in un periodo in cui l’attendismo è una realtà condivisa da tutti i partiti antifascisti, con la parziale eccezione del Pci e Pda piemontese[3]. Il giorno dopo, in un’altra parte della città, alle Fornaci, Giuseppe Lagorio[4] e Giovanni Calvini[5] (dopo essersi consigliati con Pippo Rebagliati[6]) realizzano un recupero di armi:
Mia madre, che era bidella alla scuola elementare delle Fornaci dove c’era un presidio di militari, mi aveva detto che i soldati, prima di scappare, avevano nascosto delle armi sotto il pavé di legno. Io lì per lì ho fatto finta di niente, poi ne ho parlato con Rebagliati che era la mente e con Tunan che invece era l’azione, il braccio, che mi hanno chiesto se potevo prendere le chiavi di nascosto, senza farmi scoprire. E così ho fatto: ho preso le chiavi a mia madre, e quella stessa sera siamo andati, d’accordo con Lagorio – eravamo quattro o cinque, c’era anche Bruzzone [Leonardo] – siamo entrati nelle scuole; e intanto avevamo fatto venire da Legino un carro coi cavalli, abbiamo preso munizioni e armi, c’erano anche delle mitraglie, e le abbiamo portate al Teccio del Tersé, sopra Quiliano, di notte[7].
Pippo Rebagliati e Lagorio sono due antifascisti di vecchia data, ma anche Cesarini e Miniati, che all’epoca dei fatti avevano circa trent’anni, diventano presto consapevoli dell’ineluttabilità della lotta armata contro i tedeschi occupanti, mentre i fascisti i primi giorni dopo l’8 settembre appaiono ancora disorientati. Anche i giovani come Calvini, che stavano prestando servizio militare, i ventenni, la generazione ideale per fare la Resistenza che rappresenterà appunto l’ossatura del movimento partigiano[8], impiegano poco tempo per capire come stanno le cose. Parteciperanno alla lotta partigiana anche ragazzi più giovani ancora, che non rientrando tra le leve richiamate a partire dal novembre ‘43 non hanno alcun obbligo verso la Repubblica Sociale Italiana. Vi partecipano spesso per spirito di avventura (del resto la consapevolezza politica verrà dopo, nel corso dei mesi, per la quasi totalità dei partigiani), di sfida quasi, spinti da una sorta di inquietudine in gran parte generata dalla soffocante educazione fascista; alcuni di loro sono tra i protagonisti di questa storia che cerca di ricostruire le vicende di un gruppo di ragazzi che, già attivi da mesi nella cospirazione, diedero vita nel novembre del ‘44 al distaccamento Sap «Stefano Peluffo».
In verità, il mio incontro con quelli del «Peluffo» avvenne in maniera affatto casuale. Avevo chiesto, verso l’autunno del 1992, una tesi di storia contemporanea, manifestando un particolare interesse per un argomento che riguardasse la Resistenza o la storia dell’Italia repubblicana (ero rimasto favorevolmente impressionato dalla lettura di due saggi usciti pochi anni prima: la Storia dell’Italia dal dopoguerra ad oggi di Paul Ginsborg e Un eroe borghese di Corrado Stajano). Passò un po’ di tempo e capitò che Augusta Molinari, docente di Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Genova (che proprio in quegli anni ricopriva anche l’incarico di direttore scientifico del neonato Istituto storico della Resistenza savonese), lavorando a un saggio sui fatti dell’8 settembre a Savona[9], ebbe l’occasione di intervistare un vecchio portuale, Nanni Rebagliati «Bori», che le parlò, di sfuggita, di un distaccamento alle sue dipendenze («Bori» era stato, fin dalla tarda primavera del 1944, il comandante della Brigata Sap «Francesco Falco»), lo «Stefano Peluffo», appunto:
Avevamo un distaccamento «Peluffo», che erano uno dei due distaccamenti di Villapiana, che erano tutti ragazzi che avevano dai sedici ai diciassette anni […], andavano a tagliare i capelli alle donne che andavano coi tedeschi e coi fascisti. Ghe andovan in cà â seia… però poi le lasciavano uscire. Si è formato tre volte quel distaccamento; io all’indomani a trovare la possibilità di mandarli via perché li prendevano tutti eh! […] Erano ragazzi che studiavano, qualcuno era di Scarpa & Magnano […]. Perché poi bisognava controllare se dicevano la verità o meno, perché c’era gente che bleffava in quel periodo. Io mi ricordo che una volta li ho fatti passare tutti da via… come si chiama quella lì delle poste… da via Marenco. Io ero alla finestra del primo piano e li ho fatti passare, quasi tutto il distaccamento, a uno a uno, per vedere se c’erano […]. Azioni del distaccamento «Peluffo» mi ricordo solo quello. La loro specialità, la loro passione, era questo[10].
Da queste poche parole il «Peluffo» era apparso un argomento di studio che poteva dimostrarsi interessante e riservare qualche sorpresa. Innanzitutto era composto da ragazzi molto giovani, e ciò offriva l’opportunità di considerare la Resistenza da un punto di vista generazionale. Poi c’era il fatto che questi ragazzi vivevano tutti nello stesso quartiere e quindi era forse possibile individuare come, attraverso certi rapporti di socialità (l’ambiente familiare, le compagnie giovanili, la scuola, l’apprendistato nel mondo del lavoro), erano inseriti nella trama della vita del quartiere, di conseguenza se la socialità giovanile sfociava nella socialità politica. E infine queste azioni di taglio dei capelli, compiute anche durante il conflitto e non solo nel periodo post insurrezionale[11], che mettevano in difficoltà l’organizzazione del distaccamento, tanto da farlo sciogliere più volte, secondo i ricordi di «Bori» – rivelavano un gruppo di ragazzi «scapestrati», difficilmente controllabili, restii a sottomettersi alla disciplina imposta dall’organizzazione cospirativa.
Quando iniziai le mie ricerche, vale a dire nella primavera del 1944, il panorama degli studi sulla Resistenza savonese era piuttosto insoddisfacente. I testi pubblicati avevano in larghissima parte un taglio memorialistico e autobiografico; ancora oggi la sintesi di riferimento è Savona insorge pubblicato nei primi anni Settanta[12]. La situazione è migliorata solo grazie agli accurati studi di Maurizio Calvo[13] e di Guido Malandra[14]. Vanno segnalati, inoltre, il libro di Giorgio Amico[15], per la sua schiettezza e per aver affrontato temi finora lasciati in ombra dalla storiografia di sinistra delle nostre parti[16], la pubblicazione di un saggio di Arrigo Cervetto[17], e pochi altri contributi[18]. Il resto è silenzio.
Purtroppo bisogna sottolineare che la medaglia d’oro alla Resistenza assegnata a Savona dal presidente della Repubblica nel 1974 non è servita da stimolo per raccogliere le memorie dei protagonisti dell’evento resistenziale, cosicché, per quanto ne so, persone come Piero Molinari, Gerolamo Reccagno e Armando Botta, per citare i primi nomi che mi vengono in mente, sono morti senza lasciare alcuna testimonianza.
Dopo aver recuperato la poca documentazione coeva sul «Peluffo», scarsa soprattutto per ragioni di sicurezza[19], vale a dire principalmente i «Bollettini delle azioni» o «Diari storici»[20] dei quattro distaccamenti che componevano la brigata «Falco» («Gatti», «Secchi», «Peluffo», «De Salvo»), telefonai a Giovanni Rebagliati per concordare un incontro. Una mattina di pochi giorni dopo suonai alla sua casa di via Fiume. Non posso non ricordare la serena cordialità con cui mi accolse e che mi mise subito a mio agio, il suo bel viso da vecchio e il suo scetticismo sulla possibilità di portare a termine la ricerca. «Bori» mi raccontò la sua esperienza, parlandomi di una Savona che ormai quasi nessuno ricorda, e mi diede l’elenco dei componenti del «Peluffo» che aveva ricevuto dall’Anpi provinciale. Iniziò così a delinearsi un quadro meno incerto.
Il distaccamento risultava formato da trentadue elementi, nessuna donna, età media intorno ai vent’anni (quindi non erano poi così giovanissimi come era apparso in un primo tempo). La data di costituzione indicata era il 15 novembre 1944. La zona di impegno copriva i quartieri di Villapiana, e Lavagnola, fino al Santuario dove operava un altro distaccamento della brigata, ovvero il «De Salvo». Il «Peluffo» aveva contatti con il Fronte della gioventù e con il Partito comunista. L’armamento – riferito verosimilmente alla smobilitazione – comprendeva «25 moschetti, 5 pistole, bombe a mano e munizioni»: per quanto esiguo, non rispecchiava la penuria di armi che generalmente i sapisti lamentavano durante la lotta partigiana (quando, ad esempio, i moschetti in città erano del tutto inutilizzabili e le pistole assai scarse). Le azioni registrate dal «Diario» erano quelle peculiari delle Sap: disarmi, scritte murali, recupero materiale vario (documenti, vestiario, eccetera). C’erano poi le tosature: due segnalate il 5 febbraio, ma l’azione non era riuscita («elementi partecipanti 5») e tre nel mese di marzo («elementi partecipanti 10», e di seguito: «L’organizzazione del distaccamento deve essere rifatta dato che nelle azioni di tosatura sono stati scoperti diversi elementi»). Infine, alla data 21 gennaio, sul «Diario» era stato annotato: «Azione di soppressione spia; elementi partecipanti 3». Alla Liberazione il distaccamento perdeva due uomini, uccisi in uno scontro con una colonna di nazifascisti in fuga, e quattro rimanevano feriti. Tuttavia gli elementi in mio possesso erano ancora largamente insufficienti: l’unica strada percorribile appariva il ricorso alle fonti orali. Solo questa metodologia – a lungo ignorata dalla storiografia italiana e poi diventata quasi di moda – poteva consentirmi di ricostruire la storia del «Peluffo». Iniziai così un personale itinerario nel quartiere (e talvolta altrove) alla ricerca dei luoghi e degli ex sapisti che erano ancora in vita[21].
Non mi sembra inutile spendere qualche parola per descrivere gli atteggiamenti che i partigiani hanno manifestato nelle loro interviste, i diversi modi di raccontarsi, le censure, gli entusiasmi.
Se qualcuno si è dimostrato da subito entusiasta di ritornare sul suo passato, non solo partigiano («Tanto per tirartela un po’ più corta, che sennò qui scriviamo un romanzo», «Forse sei il primo che viene a sapere delle determinate cose, vere, della Resistenza, per quanto riguarda il Fronte della gioventù», del resto raccontare è anche un modo per ricordarsi), senza per questo indulgere al reducismo o alla nostalgia, e si è prodigato a raccontare con autentica vena narrativa (tanto che se questo lavoro ha un valore lo devo unicamente a questa loro capacità affabulatoria), per altri ha giocato inizialmente una certa diffidenza. E più di uno ha rifiutato seccamente di incontrarmi.
Intanto, io non ero accreditato da nessun ex partigiano, anzi, ricordo che l’allora segretaria dell’Anpi mi disse: «Le interviste è meglio che le vieni a fare qui da noi, sai come sono i nostri…» (veramente non sapevo, o finsi di non saperlo, e declinai l’invito). Inoltre erano trascorsi pochi mesi, talvolta poche settimane, dalla vittoria elettorale del sedicente «Polo delle libertà e del buon governo». Il fatto di assistere allo «sdoganamento» di un partito che dopo un percorso cinquantennale era arrivato da Salò al governo non dev’essere stato piacevole per questi ex resistenti. Se a questo aggiungiamo che da pochi anni si era consumato il dissolvimento dell’Unione Sovietica e la fine del Pci, dovette sembrare loro che un vento di destra, nonostante le loro battaglie non solo resistenziali, stesse inspiegabilmente spirando nel nostro paese. Non credo invece che le questioni più strettamente storiografiche, come il dibattito intorno a Una guerra civile di Claudio Pavone – il libro era uscito nel 1991 – abbiano avuto qualche influenza. Per loro applicare la categoria di «guerra civile» alla Resistenza italiana, oltre a rappresentare un’operazione disdicevole, significava impossessarsi di una bandiera da sempre sventolata dalla pubblicistica neofascista, che in tal modo aveva sostenuto, ad alta voce, la tesi dell’equiparazione delle parti in lotta e la totale responsabilità dei comunisti nello scatenare la «guerra fratricida»[22]. Del resto anche concetti come «morte della patria» o «zona grigia», di cui si cominciava a discutere allora, erano assai lontani. La lotta al fascismo per loro è stata chiara sin dall’inizio: era la vita stessa che allora imponeva una scelta, una decisione, e oggi questa non ha bisogno di verifiche storiografiche.
Tuttavia permane la difficoltà a parlare di certi argomenti, il timore che certe posizioni possano venir travisate. Ricordo a questo proposito che una volta, al termine di un colloquio con uno degli ex del «Peluffo», che inizialmente si era mostrato diffidente, e solo nel corso della chiacchierata si era «lasciato andare», ero rimasto solo in cucina con la moglie che approfittò dell’occasione per dirmi: «A volte chi dice la verità…», lasciandomi intendere che a dire la verità si possono passare dei guai e che suo marito aveva fatto male a parlarmi. Qualche settimana dopo la moglie di un altro ex del «Peluffo» affermava perentoriamente al telefono: «No, no, mio marito ha chiuso con quell’affare lì. Non è che abbia cambiato idea politica eh! Ma di quelle cose non ne vuole parlare». E un terzo di cui non sono riuscito a conquistarmi la fiducia – e che politicamente avrebbe espresso una visone più «moderata» – che per differenza, per paura di suscitare chissà quali polemiche rinunciò a narrarmi la sua esperienza, mi disse una volta: «Vede, una cosa che a me non va è che fino a un certo momento in Italia tutti indossavano la camicia nera, poi la smisero e si infilarono quella rossa».
La Resistenza era, e resta un argomento delicato, per questo è tanto difficile passare la memoria da una generazione all’altra, eppure è un compito imprescindibile per la sopravvivenza di una coscienza civile in questo paese, anche perché, come ha ricordato felicemente Elie Wiesel, chi riceve una testimonianza diventa a sua volta testimone[23].
NOTE
[1] Ernesto Miniati «Giulio» (n. 1914), intendente comando brigata Sap «Colombo».
[2] Testimonianza di Angelo Cesarini «Ugo», raccolta e conservata dall’autore il 12 novembre 1994. D’ora in poi questa avvertenza vale per tutte le testimonianze orali, salvo diverse indicazioni che saranno specificate di volta in volta.
[3] Cfr., ad esempio, Mirco Dondi, La Resistenza tra unità e conflitto, Milano, Bruno Mondadori, 2004, pp. 30-32.
[4] Giuseppe Lagorio «Sirio» detto Tunan (n. 1904), vice commissario politico III brigata «Libero Briganti».
[5] Giovanni Calvini «Cava» (n. 1921), comandante distaccamento «Nello Bovani», brigata Sap «Colombo».
[6] Giuseppe Rebagliati detto Pippo (n. 1888). Nel 1926 viene condannato a tre anni di confino per attività comunista. Dal 1941 membro del comitato federale del Pci savonese. Parteciperà alla Resistenza nel distaccamento «Graziano», brigata Sap «Colombo».
[7] Testimonianza di Giovanni Calvini «Cava» raccolta il 12 maggio 2005.
[8] Scrive Patrizia Dogliani: «Solo i diciotti-ventenni possedevano la forza fisica per affrontare le fatiche dei mesi di clandestinità, spesso in zone impervie, montagnose o paludose. Solo ragazzi e ragazze ancora liberi da responsabilità familiari ed economiche potevano assentarsi a lungo dai propri domicili e dai propri impegni lavorativi. Solo giovani uomini e donne, potevano avere la tenuta psicologica e molto spesso l’incoscienza per affrontare azioni di sabotaggio e imboscate nelle città presidiate da nazisti e fascisti» (Patrizia Dogliani, Storia dei giovani, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 147).
[9] Augusta Molinari, Dal porto alla città: gli esordi della lotta di liberazione nel Savonese, in 8 settembre 1943. Atti della giornata di studio. La Spezia 19 novembre 1993, Genova, Istituto storico della Resistenza in Liguria, 1994, pp. 145-150.
[10] Testimonianza di Giovanni Rebagliati «Bori» raccolta da Augusta Molinari il 21 ottobre 1993.
[11] Cfr. Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 2004 (1ˆ ediz. 1999), pp. 125-129.
[12] Rodolfo Badarello, Enrico De Vincenzi, Savona insorge. Fatti, cronache, avvenimenti, lotta partigiana nel Savonese dal 1921 al 1945, Savona, Ars Graphica, 1972. Il volume riprende a grandi linee un testo dello stesso Badarello, scritto negli anni Cinquanta, Note per una storia della Resistenza savonese (si trova in Archivio storico Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea – d’ora in poi AILSREC – Fondo Gimelli 2, busta 8, fascicolo 3).
[13] Maurizio Calvo, Eventi di libertà. Azioni e combattenti della Resistenza savonese, prefazione di Mario Lorenzo Paggi, Savona, Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Savona, 1995; id., Baltera… Baltera! Cronistoria della Quinta Brigata Garibaldi, prefazione di Nanni Russo, s. l., Magema 2003.
[14] Guido Malandra, Le squadre di azione patriottica savonesi, Savona, Anpi, 2003; e Id., I caduti savonesi per la lotta di liberazione, ivi, 2004.
[15] Giorgio Amico, Operai e comunisti. La resistenza a Savona, Milano, Giovane Talpa, 2004.
[16] Per esempio la necessità di riflettere seriamente sui fatti seguiti alla Liberazione, senza per questo cedere a revisionismi del tutto strumentali.
[17] Arrigo Cervetto, Studi sulla storia della Resistenza savonese, in Id., Ricerche e scritti. Savona operaia dalle lotte della «Siderurgica« alla Resistenza, Milano, Ed. Lotta comunista, 2005, pp. 273-394. La stesura del testo risale alla metà degli anni Cinquanta.
[18] In questo senso l’equilibrata voce Savona di Mario Lorenzo Paggi in Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. II, Luoghi, formazioni, protagonisti, Torino, Einaudi, 2001, pp. 134-136. Poco utili a una conoscenza critica degli eventi resistenziali mi sembrano, invece, i libri di Nanni De Marco – e in particolare 1940-45: la guerra dei savonesi, Savona, Archivio storico del partigiano Ernesto, 2002 – ancora caratterizzati da una narrazione epica che predilige i toni dell’eroismo (e talvolta del martirologio).
[19] Come scrive Luigi Borgomaneri: «A differenza di quanto avveniva in montagna, la clandestinità urbana e di campagna non consentiva la compilazione, la conservazione e l’aggiornamento costante dei ruolini delle forze, la registrazione puntuale della partecipazione alle azioni, delle perdite, degli avvicendamenti o delle sostituzioni dei comandanti» (Luigi Borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943-1945, Milano, Franco Angeli, 1995, p. 75).
[21] Sia i bollettini che la relazione sono ora pubblicati in Malandra, Le squadre d’azione, cit., pp. 13-18 e 27-28. Le relazioni storiche sono state redatte dopo il 25 aprile 1945.
[21] Nel corso del lavoro mi sono rivolto anche a partigiani che non sono presenti nell’elenco del distaccamento perché smobilitati in altre formazioni, ma che hanno comunque conosciuto Stefano Peluffo ed operato nel quartiere di Villapiana. Questi sono: Sebastiano Amande «Sergio» – «Lama» (Sim Comando II zona), Rodolfo Bardello «Rodano» – «Rodo» (brigata «Colombo»), Giovanni Besio «Zeus», Armando Brizio «Lucio» (comandante brigata «Colombo»), Giovanni De Benedetti «Paisanetto» – «Vanni» (distaccamento «Maccari»), Gualtiero Marino «Manara» (brigata «Falco»), Giuseppe Noberasco «Libro» – «Gustavo» (Comando Sap Genova), Settimio Pagnini «Otto» – «Ange» (vice commissario divisione Sap «Gramsci»), Arnaldo Rosati «Ghiso» – «Castagna» (distaccamento «Maccari»), Edoardo Zerbino «Ernesto» (Capo S. M II zona) e infine Giuseppe Vallerino che, anche se troppo giovane per partecipare alla Resistenza armata, ha rappresentato uno dei punti di riferimento più importanti, per la pacatezza delle riflessioni, per la capacità di abbracciare il periodo cruciale che succedette alla Liberazione, per la sensibilità di ripensare all’insegnamento di persone quali, per esempio, Carlo Aschero.
[22] Il più convinto interprete di questo pensiero è stato Giorgio Pisanò.
[23] Citato in Pier Vincenzo Mengaldo, Giudizi di valore, Torino, Einaudi, 1999, p. 18.