di Giovanni Contini
Questo articolo fa parte della rubrica “Interviste sull’intervista” per la quale rimandiamo all’introduzione di Francesca Socrate qui.
Questa è la trascrizione di un’intervista audiovideo con Marco Buttino, che si è svolta nei dintorni di Torino nella sua bella casa, circondata da alberi secolari, il 21 giugno 2019. Marco è nato a Torino nel 1947, ha insegnato di Storia dell’Europa orientale e poi Storia Contemporanea presso l’università di Torino. Quattro anni or sono ha pubblicato un corposo libro su Samarcanda (Samarcanda. Storie in una città dal 1945 a oggi, Viella ed., 2015). La sua ricerca ha fatto largo uso di colloqui informali e interviste, che Buttino ha deciso di non registrare per i motivi che spiega nel corso di questa intervista.
Il libro mi ha colpito molto: negli ultimi anni AISO, grazie alle sollecitazioni di Antonio Canovi, ha molto puntato a sviluppare quella che viene chiamata “storia orale del paesaggio”, quindi anche storia orale delle città: il libro di Marco Buttino si colloca in pieno in questa modalità di ricerca e, direi, presenta un modello di prima grandezza. Infatti possiamo apprezzare non solo la capacità dell’autore di interagire con culture antropologicamente assai diverse, ma la sua ricerca esplora Samarcanda prima e dopo il crollo dell’Unione Sovietica. E racconta la tumultuosa trasformazione della città alla quale ha assistito, con l’ascesa e il declino dei gruppi etnici che la costituivano, il tentativo di cancellare totalmente l’eredità russo/sovietica tentando di inventare una nuova tradizione unicamente uzbeca e distruggendo i luoghi e i simboli della cultura russa (intere biblioteche mandate al macero, per fare un esempio).
Segnalo, verso la fine, un’interessante brano dove Buttino mette in discussione la “storia di vita”, giudicandola poco utile nelle interviste con persone che hanno una diversa percezione del rapporto tra la propria vita e il tempo. Più in generale la considera troppo condizionata da una rappresentazione lineare del tempo e quindi pensa che si rischi una semplificazione eccessiva del vissuto dell’intervistato.
Nella trascrizione è stato omesso un lungo brano nel quale una mia domanda si trasformava in una riflessione sulla metodologia di intervista e i modi di restituzione del registrato da parte di Manlio Calegari. Ho anche omesso un brano dove Buttino racconta la sua attuale ricerca con i migranti a Torino.
Ho messo tra parentesi parole o frammenti di parole che rendevano il testo più intelligibile, ma anche brevi commenti e comunicazioni mie. Ho messo tre punti tra parentesi quando ho tagliato parte del testo.
Devo dire che la trascrizione di questa intervista ha confermato la mia predilezione per il mezzo audiovisivo: con una registrazione solamente orale, infatti, mi sarei perso i gesti molto significativi che accompagnavano la narrazione di Marco. Gesti che spesso concludevano un discorso verbale, che si interrompeva proprio quando iniziava il gesto. Senza la registrazione delle immagini, quindi, non avrei potuto, dopo, comprendere appieno il senso di quanto aveva detto, né avrei potuto segnalare il significato del gesto ai lettori di questa trascrizione.
GIOVANNI: Io sono rimasto molto affascinato da questa storia di una città fatta anche attraverso la storia dei suoi quartieri e attraverso le interviste con le persone che in quei quartieri hanno vissuto, insomma. Siccome questa è una nuova, come dire? Frontiera, un nuovo procedimento nella storia orale per lo meno in Italia: questa storia orale del paesaggio, quindi mi ha colpito particolarmente e quindi avrei alcun domande da farti. So che tu non usi… non hai usato nessun mezzo di registrazione, vero? (Vorrei) chiederti come hai fatto.
MARCO: Il mio lavoro principale è stato stare lì. Stai parlando di Samarcanda, Samarcanda ha dei quartieri che sono visibilmente assai diversi l’uno dall’altro; il mio lavoro era di andare lì e stare lì. Mi piantavo in un posto dove iniziavo semmai a chiacchierare con qualcuno, e di lì si sviluppava dei discorsi con le persone che mi vedevano lì, non sapevano chi fossi, cosa volessi, erano curiosi, poi mi invitavano; la gente lì è molto gentile, molto ospitale, questo sia quando fai delle cose di lavoro che quando non le fai, non so, noi abbiamo fatto delle gite in montagna anche con mia moglie: divertente il fatto che noi camminando rallentavamo davanti alle case dove c’era qualcuno che stava preparando da mangiare, dicendo: ci facciamo invitare da questi qui o da quelli lì, a pranzo? Perciò tu rallentavi, dicevi: “No, cazzo, questi qui no”, ci spostiamo, e perciò ti fermavi dove volevi, ti sedevi e iniziavi a parlare. Ovviamente le prime discussioni…
GIOVANNI: Tutti quanti quelli… se ti fermavi ti invitavano a pranzo?
MARCO: Sì, in questa cosa della montagna sì, la città è diversa. Però, diciamo, c’è un po’ lo stesso meccanismo, della… di un’ospitalità quasi dovuta, e perciò quando tu inizi a parlare con qualcuno ti invita a casa sua, poi di lì hai una serie di passaggi in altre case, conosci della gente, ti trovi… è abbastanza facile entrare da una casa all’altra e girare e chiacchierare; è più difficile tirarne fuori qualcosa, da questa roba qui… (ride) però non è un ambiente ostile, non era sia ai tempi sovietici, io sono stato lì ai tempi sovietici ma già allora non era un ambiente in cui…
GIOVANNI: Quindi già negli anni Ottanta…
MARCO: Io ho iniziato negli anni Ottanta, e lì lavoravo ad altre cose, poi ho scritto un altro libro sulla rivoluzione, lì non c’era niente di storia orale però c’era l’idea che fosse molto facile parlare con la gente, nonostante il fatto che fosse in qualche modo molto vietato: che uno straniero è una minaccia, anche dopo l’Unione Sovietica è stata una minaccia, però la gente se ne fregava non era così… restava…
GIOVANNI: L’idea di usare un registratore ce l’hai mai avuta? Come mai hai deciso di…
MARCO: … un posto in cui è facile parlare con le persone. Detto ciò io ho pensato alcune volte… son sempre andato… mi ricordo le prime volte avevo comprato un registratore, poi forse ne ho comprato un altro, poi è sempre finito che non li usavo e li regalavo a qualcuno (sorride) perché mi sembrava che cambiasse il rapporto con le persone. Adesso non penso più così, adesso (penso) le cose in modo diverso, però quello che ho fatto, che poi ha portato a quel libro lì (Samarcanda), era una serie di chiacchiere che si trasformavano – poi ti racconto – come in interviste più formalizzate. Ma le interviste formalizzate erano un po’ il punto di arrivo: io parlavo, mangiavo, mangiavo, bevevo, bevevo, bevevo… poi dopo una lunga conoscenza dicevo: fermiamoci un attimo, facciamo il punto perché io ho preso duemila appunti ma non capisco un tubo. Fermiamoci: siediti lì. E quella diventava un’intervista, però l’intervista, veramente, (era) una cosa che veniva dopo un percorso con le persone, ed era un momento in cui io giocavo delle cose che già sapevo, di loro. Perché mi avevano già…
GIOVANNI: Ma questo è quello che noi diciamo che si deve fare sempre…
MARCO: … sì, sì…
GIOVANNI: … io, senza aver letto il tuo libro: non avrebbe nessun senso che venissi a intervistarti, per dire, no?
MARCO: … sì…
GIOVANNI: … perché il tuo libro per me rappresenta…
MARCO: (Ridendo) sei uno dei due lettori… (ridiamo)
GIOVANNI: Queste modestie… io ho trovato che tra quelli che scrivono libri c’è un rapporto inverso tra la qualità delle cose che scrivono e l’importanza che le persone attribuiscono a quanto hanno scritto, (…) e questa cosa che hai fatto te è veramente… bella…
MARCO: No, ma io ho fatto queste cose di cui stiamo cercando di riflettere ex post ma io ho riflettuto sul serio molto poco, cioè non ho fatto una cosa molto meditata in cui mi sono chiesto come fare, come intervistare, eccetera. Io quello che ho fatto era che per l’altro libro avevo lavorato a lungo in archivio, e per questo libro ho lavorato metà in archivio e metà per la strada, però io andavo, diciamo, sul sicuro perché sapevo che cosa era dall’archivio, e mi piaceva moltissimo lavorare nell’archivio, solo che le cose interessanti capitavano fuori dall’archivio, perciò dovevo tenerle… assieme. Però mi sono spostato sulla strada in modo non molto meditato, e mi sono trovato in cose molto più grandi e più difficili di quelle che immaginavo. E allora lì mi sono… il mio lavoro è un lavoro di artigianato improvvisato, non è un lavoro… (sorride)
GIOVANNI: Come tutte queste cose qui, insomma, mi sembra molto simile al … procedimento antropologico…
MARCO: Sì, sì.
GIOVANNI: … all’osservazione partecipante…
MARCO: Sì, è un po’ osservazione partecipante, un po’… sì lì io, quando formalizzavo le interviste, allora le interviste diventavano un po’ altro… erano interviste… io avevo un’idea che era… volevo partire dalla ricostruzione di alberi di famiglia, in qualche modo, perciò facevo una specie di gioco che mi serviva per tirare le fila delle cose che già mi avevano detto: sistemiamo tutto quello che hai detto collocandolo un po’ nei rapporti… sistematizzando un po’ i tuoi rapporti, le tue reti, partendo dalla famiglia, perché lì la famiglia: son tutti cugini, sono una società di cugini, perciò la famiglia c’è sempre, perché poi i vicini di casa, quando non sono consanguinei, sono ritenuti lo stesso fratelli (ride), perciò: la famiglia in senso lato. Però poi quando loro parlano di famiglia la riportavano alla famiglia… quella consanguinea. Però la famiglia è talmente grande… allora io ho passato per esempio… uno dei lavori inutili che ho fatto era di costruire la storia di una famiglia tagika, che poi ho usato in minimissima parte, che io non immaginavo così grossa, perché prendevo uno o due testimoni di una famiglia e partivo dal fatto di chiedere a loro come si chiamavano i loro nonni, poi i figli dei loro nonni, e costruivo questa cosa, poi mi facevo raccontare da loro la storia, secondo loro, di tutte le persone che comparivano. Allora in questa famiglia tagika c’era soprattutto una persona che aveva una memoria mostruosa, che ricollocava questa famiglia sia sul territorio, descrivendomi come si erano spostati rispetto a un nucleo centrale territoriale, sia cosa facevano. Poi ogni tanto perdeva i nomi di qualcuno, ma erano alcune centinaia di persone. Perciò io mi son trovato in una cosa mostruosa, con storie di … intersecate di una valanga di persone che facilmente poteva essere l’oggetto dello studio, di più studi, non lo so…
GIOVANNI: Tu eri lì a prendere appunti…?
MARCO: Io prendevo appunti. Con questa persona io proprio le ho detto: lavoriamo assieme…
GIOVANNI: Gli hai fatto vedere questo albero…
MARCO: Si, con più persone… alcune persone a quel punto lì, diventati amici, ci sedevamo al tavolo, e questa tipa veniva… era lei che veniva a casa mia a Samarcanda …
GIOVANNI: Era una donna?
MARCO: Era una ragazza, una ragazza…
GIOVANNI: Questa con la memoria pazzesca?
MARCO: Sì, sapeva tutto, mostruosa. E… lei raccontava e io scrivevo, scrivevo, scrivevo e poi confrontavamo le cose. Poi, dove io non avevo capito, le riguardavamo insieme, in modo da far funzionare…
GIOVANNI: Leggere, sì, sì…
MARCO: Leggere, mettere assieme le cose. Allora lì c’erano dei percorsi che erano interessanti ma erano… un po’ insensati, nel senso che… non potevo andare in quella direzione, continuare costruendo le storie di famiglie così gigantesche senza sapere cosa volevo da quelle cose lì. Perciò realmente sia dal punto di vista del metodo che dal punto di vista degli obbiettivi dell’intervista io mi sono mosso in un modo rozzissimo, e facilmente … anche per questo ho messo molto più tempo a fare questo libro di quello che sarebbe stato dovuto, perché ci ho lavorato molto molto, con… tante cose che non sono poi confluite nel libro. E però, come dire… a un certo punto ho pensato che dovevo fare il libro, e allora ho chiuso il libro e ho buttato fuori dal libro le cose che non entravano nel quadro del libro, che forse non erano le meno importanti, ma erano attorno…
GIOVANNI: … tipico della storia orale…
MARCO: … ho tagliato, buttato via tanto, rimpiangendo…
GIOVANNI: Conservando traccia di questo che hai buttato via?
MARCO: Sì, poi semmai ti racconto delle cose che non ho scritto. Però insomma non è forse importante questo libro di per sé perché è importante… forse ha un senso ragionare assieme su… come raccontare una storia di una città usando archivi e parole… e per descrivere la complessità della città. Allora lì a me pare che la cosa principale era che se uno partiva dall’archivio… però era un archivio sovietico, perciò rifletteva… la memoria di… del lavoro della burocrazia, che era una burocrazia che amava molto costruire dei piani e poi confermarli nelle grandi realizzazioni, eccetera, perciò anche questi piani di sviluppo urbano erano tutti fatti auto legittimandosi, cioè i documenti erano sempre… confermativi della linea di sviluppo data in città. Se poi tu ti sposti da quella roba lì, un goccio, da quell’archivio, in cui in ogni caso ci sono tante informazioni utili, perché dicono cosa vogliono fare della città, e poi come leggono la città. E la leggono con una grandissima attenzione alla questione, per esempio, delle minoranze nazionali, che loro catalogano, registrano le nazionalità sui passaporti, fanno delle politiche di quote negli uffici, nelle fabbriche, nelle scuole. Perciò sempre monitorano la trasformazione, la capacità loro di azione affermativa… di coinvolgimento di minoranze diverse nel sistema sovietico. Allora c’è una.. rilevamenti continui (squilla un cellulare. Interruzione).
MARCO: Allora dicevo: c’era un paese che io studiavo in epoca sovietica e in epoca post sovietica, no? Ma però l’archivio era soprattutto la parte sovietica, perché dopo l’Unione Sovietica non mandano più le cose in archivio, e perciò non ci sono più le carte, e poi è cambiato il giro, a un certo punto non mi hanno più lasciato entrare nell’archivio, perciò si è chiuso…
GIOVANNI: Questo è incredibile…
MARCO: Loro diffidavano degli stranieri in genere, poi io a Samarcanda ormai ero troppo… era troppo conosciuto che io andavo in giro, eccetera… Il direttore mi ha veramente buttato fuori dall’archivio senza darmi nessuna spiegazione…
GIOVANNI: … così, eh?…
MARCO: … così è. Perciò, come dire, la scelta della strada (ride) è dovuta al fatto che la storia non orale: non c’entravo più lì dentro. Però c’erano… allora: uscendo da quella versione confermativa e ufficiale sovietica tu scoprivi due cose, mi sembra: uno era che il paese era molto più… meno sovietico di quello che sembrava, nei rapporti anche di potere, ossia anche l’apparato sovietico era meno sovietico di quello che pensavo. E l’altro era che il territorio era meno sovietico di quello che pensavo. La prima cosa che il sistema politico era meno sovietico era il fatto che… a un certo punto della storia sovietica, che sono gli anni Settanta più o meno, loro decidono di continuare, moltiplicandola, una politica di coinvolgimento, di… delle persone, di esponenti locali negli apparati amministrativi, politici, eccetera. E di fatto l’apparato sovietico diventa una cosa ambigua, da una parte sembra un po’ sovie… sovietico coloniale: tutte le decisioni vengono da Mosca, arrivano i funzionari, controllano, eccetera. Dall’altra gli esponenti locali gestiscono loro clientele, distribuiscono i soldi come vogliono, usano quel canale lì per un rapporto diverso di potere, molto meno sovietico, eccetera. Le stesse persone che nella vita sovietica quando sono nell’ufficio fanno discorsi sovietici, per esempio sulla religione dicono che la religione è l’oppio dei popoli, eccetera, poi fanno circoncidere i figli, tutti. Non ho fatto che vedere cose del genere, poi era così perché nell’ufficio devi parlare alla sovietica ma quando vai a casa se non ti comporti da persona perbene perciò rispetti le feste del ciclo della vita, che sono feste di quartiere eccetera eccetera: ti sputtani rispetto alla gente, perdi… diventi un traditore, sei passato dall’altra parte, non c’entri più nulla con noi. Perciò questi l’ambiguità ce l’avevano in loro stessi… la storia orale…
GIOVANNI: Questo è molto chiaro nel libro, è molto interessante. Ecco ma tu hai fatto domande per… per… a loro, per vedere come loro si gestivano questa dissonanza cognitiva così evidente? Cioè per loro non era così, cioè: lo sapevano che facevano due cose così? o era normale?
MARCO: Secondo me era sostanzialmente normale. Le persone di potere quando mi parlavano di queste cose facevano un po’ fatica a capire…
GIOVANNI: … chi eri te…
MARCO: Chi io ero, capisci? Se io ero un marziano allora loro dovevano forse spiegare che loro erano ambigui, spiegare questa ambiguità che era in loro. Se io ero uno che mi muovevo lì: questo era evidente, non…
GIOVANNI: Non c’era bisogno di spiegare…
MARCO: … è la vita, allora… allora molto difficile acchiappare (ride) questa normalità che suonava poco normale, insomma
GIOVANNI: Ecco ma questa, come dire, questa cucina sovietica in salsa uzbeca, diciamo così, questa, secondo te, in altre zone dell’Unione Sovietica era la stessa cosa oppure qui abbiamo un di più di torsione… cioè di strumentalizzazione, diciamo così, o di… di distorsione di quello che era il discorso sovietico dentro un discorso più tradizionale…
MARCO: Sì, no, qui c’è un qualcosa di più… io credo che… però qui stiamo parlando non di storia orale ma di Unione Sovietica…
GIOVANNI: Sì, sì, no, ma però va be’, va be’…
MARCO: Colpa tua: andiamo avanti così poi tagli… però mi sembra che sì, quella cosa lì era una caratteristica di tutto il paese. Secondo me l’Unione Sovietica muore perché non è più in grado di governarsi, perché non sa nulla di sé stessa, cioè: solo un burocrazia affermativa, “abbiamo fatto quello che avete chiesto e abbiamo fatto un po’ di più”. Il paese stava andando… franando totalmente: questi qui continuavano a dire “ noi tutto bene, anzi…” eccetera. Allora tu in una cosa del genere non hai nessuno strumento. Quando Gorbaciov… quando all’inizio Gorbaciov cerca di capire come stavano insieme queste cose, cioè il paese andava in culo e la burocrazia diceva: “fantastico, i successi del piano…”, loro pubblicano delle statistiche che dicono “guardate che sta andando tutto male”. Quando gli viene chiesto: “ma da dove le avete preso queste statistiche”, io l’ho chiesto a (Abel) Agambegyan, che era l’economista di Gorbaciov, e lui di fatto ha detto: “sono le cifre della CIA, noi non avevamo altre informazioni…”. Allora loro che erano…
GIOVANNI: Questo lo dici anche nel libro secondo me…
MARCO: Da qualche parte, un po’ di sfuggita. Però era straordinario, ossia che la potenza antiamericana, eccetera, per capire che cosa gli sta capitando guarda le stime che han fatto altri perché sanno che non hanno più una capacità di conoscenza. Questa questione qua che riguarda l’Unione Sovietica la lasciamo fuori; trasformata… spostata in una città dell’Asia centrale sta a dire che… c’è una marginalizzazione progressiva ma forte della città ufficiale, sovietica, rispetto alla città non sovietica, e c’è un… un mondo di regole e comportamenti sovietici che vengono o messi un po’ a parte o mangiati e trasformati, ossia in quel modo lì, ossia “in ufficio sono una cosa e a casa sono l’altra”: che svuotano quella cosa lì. Allora questa cosa si proietta sul territorio della città, nel senso che se tu vai in giro nei quartieri… nella città leggi nelle strutture urbane e nei racconti delle persone questo fenomeno qui, che fa parte… La parte sovietica della città è molto piccola, e poi si sviluppa tardi, ossia la grande urbanizzazione è solo dalla fine degli anni Cinquanta, perciò dal ’17 al Cinquanta sono passati un mare di anni, perciò dagli anni Cinquanta alla fine… (dell’Unione Sovietica) sono venticinque anni, trent’anni; perciò, diciamo, sono gli ultimi trent’anni della storia sovietica quelli in cui costruiscono. Costruiscono da un’idea di modernizzazione che prescinde totalmente da lì, sia nell’abitare sia nell’attività produttiva. (Negli edifici costruiti in questo periodo) l’abitare è un abitare seriale, cioè sono case che ci sono anche nella nostra periferia, quelle grandi fatte di tanti piccoli alloggi. E la fabbrica, la produzione, da una parte sviluppano trasformandole un po’ delle fabbriche locali, ma sono una, due, a Samarcanda: quelle che producono la seta, sostanzialmente…
GIOVANNI: … che tu dici che non c’è nessuna innovazione…
MARCO: … lì non c’è nessuna innovazione interna, queste servono da luogo di trasformazione in proletari di gente del posto… voi che siete fuori…
GIOVANNI: La produzione: produrre operai!
MARCO: Sì, è così. Perciò: voi che siete fuori… calcola che un’altra cosa sovietica era che tutte le persone borghesi vengono private dei diritti civili, dopo la rivoluzione: non possono votare, perdono i diritti. Allora come fanno a riabilitarsi? Parte vengono uccisi, tutte le cose… ma poi (torna) la normalità. Allora: tu sei stato privato dei diritti, vuoi partecipare alla vita sociale perché vuoi fare delle attività economiche, avere uno stipendio, reinserirti: allora devi passare per la fabbrica, allora la fabbrica ha la funzione di costruire l’operaio, e gli operai sono il riferimento… diventano il riferimento. Non si capisce bene per quanto devi fare l’operaio, questa è un’ambiguità perché se uno… è una specie di purgatorio, perché nessuno, poi, ha voglia di fare l’operaio, ovviamente. Devi passare (nel) purgatorio; per quanto tempo: dipende da come te la giochi, insomma. Però devi passare di lì. Calcola che una città come Samarcanda, che viveva di agricoltura e di bazar, e di artigianato: è tutta borghese. Quando tu, da rivoluzionario russo o soldato, funzionario, cose del genere, arrivi lì: delegittimi il grosso della società perché sono tutti piccoli borghesi, non sono proletari. Il primo editto, questo il mio primo libro, il primo editto del potere sovietico è: la popolazione locale non ha diritto a partecipare al (…) governo locale del Turkestan – che è la grande regione, il modo in cui si chiamava l’Asia centrale. In quegli anni lì: non ha(nno) diritto a partecipare perché non sono proletari, perché non hanno organizzazione proletaria. E perciò solo i russi erano proletari, perché rappresentavano una parte del grande proletariato rivoluzionario. Allora è una specie di avvio coloniale con… parlata alla rivoluzionaria, leninista, non lo so ma… questi si riabilitano, gli altri, che sono tutti se hanno dei canali di riabilitazione. E’ un po’ come… come si fa adesso qui da noi rispetto ai migranti (ride), loro sono meno dei “bianchi”, lì i “bianchi” erano pochi rispetto agli altri, però l’idea che gli altri andavano rieducati, che poi è la stessa (cosa) adesso rispetto ai migranti, è fortissima. Ossia: tu hai diritto a partecipare a condizione che: vai nella scuola sovietica, vai nella fabbrica e poi, se proprio ci fidiamo di te, entri prima nel sindacato, poi nel partito… (interruzione)
GIOVANNI: … scusa (l’interruzione)…: a quel punto sei pronto. Però sembra che in realtà sia stata la grande guerra patriottica quella che ha… che ha realmente, come dire, raggiunto un certo successo nel sovietizzare, no? Perché la fabbrica poi.. queste fabbriche che non innovano… probabilmente anche quelli che stavano in fabbrica continuavano ad avere tratti… poi ci sono queste reti di cui tu parli, no? Che non vengono mai interrotte. Mentre la guerra patriottica è un momento in cui tu muori per l’Unione Sovietica, insomma, no?
MARCO: Sì, ci sono…
GIOVANNI: … tra l’altro ti volevo chiedere: tu naturalmente parli tagiko, uzbeco…
MARCO: (Scuotendo la testa) no, io parlo solo il russo. Capisco un po’ di uzbeco, pochissimo. Parlo il russo.
GIOVANNI: Tagiko?
MARCO: No
GIOVANNI: Quindi hai avuto bisogno di (mediatori)?
MARCO: No, no. Lì era impensabile questo… va be’ questo ci porta da un’altra parte, però era impensabile, quantomeno in città, il fatto che le persone non parlassero russo in modo ultra corrente. Anche se è certo che se io avessi parlato tagiko forse sarei entrato in altre cose. Però è normale che dopo un’alfabetizzazione in cui solo il russo è rilevante e le altre lingue sono marginalizzate, ossia: lo Stato parla russo, i lavori parlano russo, eccetera… il russo era diventato … non i russi, dominanti, ma la lingua russa era la lingua…
GIOVANNI: … e ora?
MARCO: … adesso no, adesso è tutto cambiato, infatti io non potrei fare quel lavoro lì in questo modo. Adesso è impensabile non farlo (ma: farlo) senza sapere l’uzbeco. Farlo senza saper l’uzbeco. Se mi avessero chiesto quanto tempo ci mette una città a cambiare lingua, i miei studenti, ‘ste robe qua, io avrei detto: “boh, non so, dei secoli, non so (ride)”…: pochi anni, dieci anni, cinque. Ossia basta che butti fuori tutti… in questo caso i russi. Seguiti da tutta la parte più integrata del mondo russo sovietico, fai delle leggi che cambiano la lingua nazionale, usano nella lingua … usano la lingua locale come lingua…
GIOVANNI: … cambia anche la scrittura…?
MARCO: … cambia la scrittura, butti via tutti i libri sovietici, mandano tutto al macero, io giravo in biblioteche vuote, ho fatto anche delle foto su quelle, son biblioteche con tutti gli scaffali vuoti…
GIOVANNI: … oltre tutto li potevano vendere…
MARCO: … eh no, perché era vietato. Gli insegnanti mi dicevano che tutti avevano sensi di colpa, dicevano: “guarda cosa ci han fatto fare…”, eccetera, io dicevo: “ma come, avete buttato via tutto?” allora dicevano “Sì, qualche cosa abbiamo (tenuto)”, allora tutti hanno fatto… una selezione, hanno messo da qualche parte o portato a casa propria, perché c’erano delle biblioteche importantissime. Nelle biblioteche pubbliche, poi le altre diventavano non accessibili… sostanzialmente loro hanno levato i libri sovietici, e allora ti trovi in una situazione di vuoto in cui i libri e la cultura vecchia viene criminalizzata, levata; quella nuova non esiste ancora; iniziano a esistere nelle scuole, poco poco, non so: un manuale nuovo all’anno, perciò tu hai queste biblioteche deserte, poi hai uno scaffale lungo così (indica a gesti un metro di lunghezza) che sono i libri nuovi in uzbeco, scritti in caratteri latini, con la faccia del presidente, che per altro era il vecchio segretario del partito diventato presidente (sorride). Allora prima che quella cosa lì diventi grande da riempire gli scaffali, lascia perdere la qualità perché puoi dire che era cattiva quella sovietica, o cattiva quella lì, o tutte (e due): quello che vuoi, però, insomma:… scompare una cultura che era sovietica ma erano anche, che ne so, cose di matematica, piuttosto che… non so… e metti una cosa che è molto, molto ufficiale e poco leggibile. Questo fa sì che… e poi cambi i nomi delle strade a poco a poco, poi rendi lingua di Stato l’uzbeco, ma la gente ormai erano tutti russofoni, perciò quelli vecchi, insomma quelli che non erano ragazzini, si trovano in una città in cui i riferimenti che erano tutti sovietici… loro continuano a parlare russo, ovviamente, ma i riferimenti scritti… le leggi: prima erano in russo, al posto di lavoro occorreva… il russo diventa una lingua (morta). Questo fa sì che c’è un buco… di… identitario, non lo so come cambiare, come dire, c’è una specie di sconvolgimento, sia dei ruoli sociali che delle capacità di orientarsi…
GIOVANNI: … quasi… quasi… per noi europei quasi inconcepibile, forse nel confine orientale (italiano) queste cose che sono state fatte con lo slavo, con… no? I fascisti che impediscono, che fanno queste cose violentissime contro (la minoranza slovena), che poi creano queste reazioni altrettanto violente. Ti volevo chiedere una cosa: tu con queste persone che avevano, come dire, una… una frequentazione normale di due lingue completamente (diverse), la lingua prima di questa cosa qua, gli hai chiesto, questo capisco che è difficile chiederlo, ma se… se loro cambiavano quando… quando pensavano in tagiko o in uzbeco o… gli ebrei credo che parlassero russo e basta…
MARCO: No, no, parlavano il tagiko, la loro lingua è il tagiko. No, su questo tutti mi dicevano che la loro lingua principale era il russo, e bon. Sarebbe stato diverso se io gli facevo questa domanda sapendo il tagiko, allora loro capivano che forse mi potevano portare su altri terreni. Non lo so nemmeno adesso…
GIOVANNI: … hai parlato con qualcuno che sapendo russo e tagiko ha avuto questo… ha potuto fare questo confronto?
MARCO: No, non si poneva questa cosa. Era talmente dominante il russo e, si pensava, talmente forte che (si pensava che) le lingue locali fossero un residuo, che le cose rilevanti passavano dal russo. È ovvio che lì c’era un fraintendimento e un punto di osservazione sbagliato, mio, che si riflette nel libro, anche, perché dietro questa cosa c’è che il tagiko è ancora la lingua della famiglia, la lingua dentro i muri di casa viene mantenuta un po’, semmai i ragazzini la sanno meno. Però insomma: c’è, quella lingua lì. Allora quando io dico che il sistema sovietico è ambiguo, e lo dico raccontando la cosa che dicevo prima, che uno è sovietico e mussulmano nello stesso tempo: uno era anche che parlava russo da una parte e parlava tagiko dall’altra. Allora dato che a un certo punto diventa molto rilevante il fatto che la città che conta non è quella ufficiale ma quella in(non)-ufficiale, e che i rapporti tra le persone che contano sono quelli informali, allora l’attenzione si sposta non solo dagli archivi alla strada, ma dalla strada a dentro le case. E dentro le case io parlo il russo, però loro parlano anche un’altra lingua, allora se tu vai avanti in quella direzione lì rifai un libro molto migliore di quello che ho fatto io, perché vai nella direzione giusta. Adesso è diverso perché non c’è più il russo ma c’è… però già allora se identifichi i rapporti sociali importanti, allora: quei rapporti sociali lì, quelli della città informale, permeano totalmente la vita sovietica. Diventeranno dei grandi scandali, soprattutto uno scandalo gigantesco in cui si dice: “c’è la corruzione”, ma non è la corruzione, è un sistema di funzionamento che tra l’altro trovi… non so, io ho studiato, poi, un po’ l’Algeria: ma le stesse cose! Ossia: quando questi sistemi in cui lo Stato è apparentemente molto dominante in realtà offre molte aperture (a) delle cose diverse…
GIOVANNI: … attivare reti familiari, famiglie estesissime…
MARCO: Sì, e lì c’è una totale continuità tra il sovietico e il non sovietico. Perciò se tu vuoi leggere…
GIOVANNI: … mi sembra di capire che però oggi la condizione è molto peggiore, perché non c’è più questa allusione a un interesse generale, no? Veicolato da questi grandi valori, no? Ormai è corruzione allo stato puro, o meglio: trionfo di questo sistema di familismo amorale, si potrebbe usare un termine che non va bene per nulla, insomma…
MARCO: … è una cosa che credo che sia il sistema politico preponderante nel mondo, che dice… io in tempi sovietici mi segnavo un po’ le tariffe che (bisognava) pagare per avere accesso a delle cose, o il modo di accesso delle cose: anche lì era molto informale, ossia c’erano dei canali non ufficiali… il fatto che le persone distribuiscano favori, e le persone che ricevono i favori si sentano in debito, no? Perciò c’è una società solidale ma tra impari, no? Ossia: non sei mai a pari all’altro perché o sei in debito o sei in credito. E in cui le risorse che vengono giocate in questo sono le risorse che vengono dallo Stato, sono posti di lavoro dello Stato, eccetera. C’è una compenetrazione totale tra i due funzionamenti. E quella cosa lì si traduce in un’altra cosa che continua sempre, e diventa più evidente in epoca post sovietica: che è il fatto che devi avere sempre delle buone conoscenze in alto, capito? Allora siamo in post sovietico e io in questo tavolo voglio vendere delle sigarette. Posso farlo, metto le mie sigarette e arriva dopo un po’ un poliziotto e dice… e mi chiede la prima (tangente), infatti lì tutti dicono: “il nostro racket è la polizia”, e mi chiede soldi e continui a fare (a vendere). Per fare funzionare le cose tu devi avere un “tetto”, cioè devi avere qualcuno che garantisca… per garantire tu l’hai pagato…
GIOVANNI: … che non vengano quaranta poliziotti perché alla fine ti rovinano…
MARCO: … si, perciò tutto funziona su un sistema di debito e credito riconosciuto perché è una società, diciamo, basata sulla parola, sull’onore, una società molto diseguale, in cui l’autorità politica, la sua complessità fatta di persone, di reti, delle persone gestiscono le autorizzazioni, (le) regole, prendono i soldi che vengono da questo, li fanno circolare…
GIOVANNI: … ecco ma per te che venivi da un’esperienza tradizionale, di storico che lavora su documenti scritti, no? Hai scritto da qualche parte di questo tuo, come dire? Questa folgorazione, no? Tra quello che trovavi scritto sui documenti e poi queste altre cose che vedevi, che poi sei costretto a… questa seconda strada sei stato anche costretto a percorrerla, ma…
MARCO: … sono (stato) costretto… non ho scritto su questo, cioè non ho riflettuto su questo, mi son trovato a farlo totalmente per necessità, nel senso che la… quando uscivi dagli archivi la città reale era un’altra cosa, da quella descritta lì…
GIOVANNI: Perché questo… un altro storico… come dire, meno curioso, avrebbe potuto dire: va be’, io mi (concentro sulle fonti scritte)… lo fanno, gli storici, no?
MARCO: Sì si.
GIOVANNI: Si dice questa roba e ci sono queste notizie scritte: io mi attengo agli archivi, (che) sono il vero… il vero… cioè tu c’è un momento in cui, che ti ricordi, in cui hai detto: “ma no, qui basta, bisogna… bisogna che mi sposti sulla comunicazione verbale, diciamo così…?
MARCO: No, non c’è un momento preciso perché… non so, ora me ne sta venendo in mente uno ma non è significativo, però… io quando lavoravo per il libro sul ’17 sono stato a lungo a lungo a Tashkent (capitale dell’Uzbekistan); allora lì era molto… nell’archivio… l’archivio era l’archivio in cui entravi (…) e l’archivio era un archivio in cui avevi accesso solo se eri uno studioso all’Accademia delle scienze, oppure uno studioso straniero accreditato. Allora lì iniziavo a lavorare sugli archivi e conoscevo le persone… gli storici dell’Accademia delle scienze di lì. Ed era talmente, nella loro vita…: noi uscivamo di lì andavamo a bere, a mangiare, eccetera; e tutte le cose in cui mi imbattevo erano diverse. Se andavi, che ne so, al… lì c’erano nei quartieri c’erano delle continue feste, gente, si invitano. Allora tu andavi e c’era sempre tutte cose… che non c’entravano: scambi di doni, la gente che teneva conto dello scambio di doni, tutta una cosa molto calcolata dalle famiglie: quanto dai, quanto prendi, eccetera; c’era la componente religiosa, c’era sempre un tavolo con dei signori vecchi che stavano zitti, ma erano dei mullah, degli imam, stavano lì, ai tempi sovietici non potevano…
GIOVANNI: La loro presenza…
MARCO: … oppure le circoncisioni in cui… non erano religiose, ma c’era un vecchio lì… che tutti sapevano che (circoncideva)… no? C’era quest’ipocrisia così evidente che non era possibile (non ) dire… (sorride): “c’è qualcosa che non torna”, era… allora quando conosci qualcheduno inizi ad andare a berci assieme: ti sei già spostato in un terreno pericoloso, pericoloso perché poi muoversi di lì con la storia orale diventa da una parte necessario, dall’altra parte molto insicuro, perché… ad esempio come fai a scegliere delle persone come testimoni privilegiati di una situazione che tu non conosci, su cui hai letto delle cose totalmente diverse da quelle che vedi davanti al naso. E allora… e allora lì fai delle scelte con un margine di casualità gigantesco, e poi anche delle scelte… che non vanno fatte, che stanno nel mio libro, che sono… ad esempio: io mi accorgo… io ho intervistato tantissime persone, in modi diversi, no? Ma mi sono accorto, un po’ ex post, che ho intervistato soprattutto donne con un livello di istruzione abbastanza alto, perché il mondo degli uomini è un mondo che mi proponeva…: io non riuscivo mai a fermarli, nel senso che si beveva, mangiava, beveva, mangiava e si cazzeggiava in continuazione ma non riuscivo mai a fermare… mentre le donne si fermavano di più, ossia avevano meno un ruolo da giocare tra… maschile… e fuori di quel rituale (…) fra gli uomini, fra gli uomini: sempre un gioco di chi è più forte, di chi beveva di più… (mettiamo che) noi bevevamo, noi due (io e lui) chiacchierando, se stessimo pranzando, avremmo bevuto normalmente una bottiglia di vodka, ma come cosa normale, non come cosa che poi diciamo: “cavolo quanto abbiamo bevuto!”. L’unica cosa che si beveva era la vodka. Perciò tu ti sedevi, mangiavi delle cose …
GIOVANNI: … essere mussulmano non…?
MARCO: … mussulmano lo scopri dopo, che sei mussulmano. In quel momento lì non lo sottolinei, non ci pensi…
GIOVANNI: … bevi…
MARCO: … bevi tranquillamente e abbondantemente. Allora: in quel rituale lì poi si può parlare di donne, si può parlare di cose. Ma riuscire a fermare questi qua… perché facilmente vedevano in me… un uomo un po’ strano, che non stava troppo ai loro giochi, no? Perciò che era più debole di quello… uno un po’ strano, perciò come fai a dargli confidenza… era più complicato, con gli uomini. Perciò di fatto i testimoni finiscono di essere abbastanza… condizionanti perché sono delle persone che hanno l’attenzione e la disponibilità a parlarmi, non si fanno tutti quei giochi lì, ma anche che capiscono che cosa… che hanno un livello di cultura da capire cosa io voglio, capisci che stai parlando sempre con una specie di…
GIOVANNI: … ma questo, guarda, io credo che sia… se entri nel campo delle comunicazioni verbali non c’è verso, alla fine devi trovare il testimone privilegiato. Cioè il testimone privilegiato è quello che capisce di più quello che tu…
MARCO: … esatto… e quello, non so, è un vero casino, no? Io adesso, semmai ne parliamo se ne hai voglia, adesso lavoro sugli immigrati qua. Quello è un problema gigantesco, perché io parlo con tantissime persone, però anche lì prima o poi hai l’impressione che poi ti stai fermando, nella discussione con alcuni su cui vai avanti…
GIOVANNI: … io considero, per esempio, quello che dice Manlio Calegari ne La sega di Hitler è molto illuminante, cioè… magari questo (la telecamera) lo spengo… fa un lavoro su una formazione partigiana, la “Balilla”…
[Segue una mia lunga domanda che diventa una riflessione sull’importanza del testimone privilegiato per chi fa storia orale, con riferimenti a Manlio Calegari e al suo metodo]
GIOVANNI: In questa storia c’è proprio un percorso verso il testimone privilegiato che non scarta gli altri (testimoni) ma li valuta per quello che sono…
MARCO: Sì, perciò vuol dire che non solo il percorso è un lento percorso di acquisizione di fiducia reciproca, perché non basta la fiducia reciproca, io la fiducia in qualche modo ce l’ho anche degli altri, perché frequento le loro case…
GIOVANNI: … sei tu che non hai fiducia negli altri (rido)…
MARCO: (Ride) sì, no, perché io non ho fiducia perché loro non riescono…: sono gentili, vorrebbero fare tutto il possibile per aiutarmi ma non riescono a mettersi con la testa (dove) voglio io. La cosa più rilevante, quando io ho intervistato due dirigenti alti del partito – io in genere parlavo con gente più normale che i grandi dirigenti – poi a un certo punto sono finito… (ho) parlato con due… con tre dirigenti rilevanti che avevo conosciuto un po’ per caso, poi uno mandato dall’altro perché ero andato a bussare ai loro uffici; perciò, in un rapporto che partiva come un rapporto di fiducia, quelli mi han detto: parliamoci. Però questi non capivano cosa io volevo, uno di questi io ho vissuto a casa sua a lungo, ossia qualche mese, parlavamo di giorno, parlavamo di donne perché lui era molto innamorato di una che si chiamava Kristine, mi faceva una testa così, poi ogni tanto arrivava questa Kristine, parlavamo, bevevamo, parlavamo del quartiere, delle cose; perciò è stato molto utile, ma lui aveva giocato un ruolo fondamentale nel partito perché era uno dei dirigenti alti del partito comunista di Samarcanda, ma non è che fosse tanto reticente, quanto che gli sembrava tutto naturale. Ossia: te, se io sono interessato a te (si riferisce a me, come esempio), te non ti viene in mente di raccontarmi per quali ragioni sei vestito… che ne so… sei vestito così oppure…: fai quello che fai nella tua normalità: ti sembra normale, non sai quale è il fatto da raccontare. Allora: a me interessava la sua normalità, non l’eccezionalità del grande scandalo, lo scandalo…
GIOVANNI: … questa è una tipica cosa da storia orale perché tu riesci ad avere il massimo di informazione da chi riesce a vedere la sua esperienza come antropologicamente significativa, il che vuol dire… e quindi la vede come qualcosa che non è un dato, così, ma qualcosa che è… che va spiegata. E non tutti ce l’hanno, anzi: pochi ce l’hanno, questa capacità…
MARCO: … perciò lì allora cosa subentra? Subentra il fatto che… l’unica cosa da… l’unica necessità in questi casi mi sembra non l’aver fretta, sia perché in quei paesi lì se tu hai fretta perdi già con questo un rapporto di forza con gli altri, perché la forza delle persone (consiste) nel non risponder subito, nel non rispondere né sì né no, che poi sei in attesa di ricevere una risposta, perciò non ti diranno (sì o no, ti diranno) sempre: “mah…”. “Andiamo a mangiare assieme ?” “Mah, sì”, e tu sei in una posizione down rispetto a questa cosa qui. Allora in una situazione qui… così, vedevo… non mi ricordo, quando ero in ufficio, in dipartimento di storia arrivavano giornalisti o degli storici che la facevano veloce, andavano in un ufficio… e chiedevano come intervistare gli altri storici, così, velocemente. Venivano (fuori) delle cazzate che non stavano né in cielo né in terra e poi, quando questi se ne andavano… Vengono lì, ti fanno una domanda…: non devi domandare!
GIOVANNI: Chi erano gli storici?
MARCO: Erano russi, stranieri… stavo pensando un episodio, degli episodi quando stavo a Tashkent, secoli fa, mi ricordo molto questa cosa qui: che era il modo in cui si vedeva questa gente che passava lì, velocemente, e semmai volevano sapere tutto, come funzionava tutto, nel giro di tre ore perché dovevano ripartire… allora: l’unica cosa quando arrivi, che sei… in confidenza con una persona che però non riesce a raccontarti nulla, l’unica cosa è di osservare, semplicemente: non importa quello che ti dice, ma ti importano altre cose. Ti importano delle cose che vedi stando lì, il fatto di muoversi con lui, andare, non so, a trovare qualcheduno, questo qui (il testimone di cui parlava sopra) andava a caccia, andava…: tutta una vita sociale, andava… non incontrava… non era più importante la sua verbalizzazione, nel senso da prenderla… come descrizione analitica di quello che faceva. Lui diceva delle cose che tu guardavi…
GIOVANNI: … mi piace molto questa… questa cosa qui, questa tua osservazione sugli storici che arrivano mordi e fuggi (ridiamo).
MARCO: … quelli sono bestiali. Però in questi paesi qui che sono lenti, che vivono… lenti perché i rapporti di potere chiedono quella cosa lì, allora effettivamente l’unica cosa che devi fare, che poi è quella che ci manca, è il tempo, ossia tu che stai lì. Allora l’idea di studiare un quartiere dopo l’altro andando, stando un po’ in piazza, c’è la piazza, stando in qualche posto, conoscendo della gente, poi andando… con lentezza: secondo me era il modo di far le cose, e sotto quell’aspetto funzionava…
GIOVANNI: … questa era una cosa che tu hai scelto, questa è stata una scelta, come dire, cosciente? Tu hai trasformato… come dire? Tu hai trasformato, come dire? In proposta, in metodo, diciamo, una roba che era nata in modo… in modo, come dire, spontaneo: dovevi stare lì, e quindi… e quindi poi dovevi parlare con questa gente anche quando non eri in archivio, e…?
MARCO: Sì, un po’ era semplicemente il fatto di… a me piaceva abbastanza stare lì anche se era faticoso, perché io dicevo che avevo l’impressione, non so: quando vivevo, quando stavo a Torino mi sembrava di fare sostanzialmente sempre la stessa vita, mi sembrava che lì era un po’ come ritornare piccoli, i bambini imparano ogni giorno delle cose, poi noi non impariamo più niente, abbiamo l’impressione di avere già visto tutto…
GIOVANNI: … il tempo si rallentava, no? Quando eri lì…
MARCO: … eh sì, si rallentava la mia…
GIOVANNI: … quindi vivevi di più, in realtà…
MARCO: … e imparavo di più, nel senso che ogni momento c’erano delle cose che mi dicevo: “com’è ‘sta roba, come funziona, questa cosa?”, allora lì, sai, senza le parole non riesci a entrare in quella cosa lì. Poi le cose si… a poco a poco le cose cambiano facendole, ci ho messo tanto a far ‘sta roba qui, allora non lo so: nel frattempo facevo dei corsi qua all’università, allora, che ne so, qui insegnavo storia delle città e delle migrazioni, (negli) ultimi anni, allora andavo con gli studenti in quartieri torinesi e cercavo di applicare le idee di Samarcanda alle borgate di Torino, assurdità di questo tipo, però l’idea di andare in giro… (interruzione)
MARCO: Insomma il succo della faccenda, riprendendola, è semplicemente che con molta evidenza in quel mondo lì, ma che poi è non diverso da altri mondi, questa fetta della città formale, moderna, industriale, è veramente una fetta piccola, delle attività economiche e sociali. Le persone lì, ma come, che ne so, in Costa d’Avorio , vivono molto investendo in relazioni. E studiare le reti di relazioni e l’informalità dei rapporti che attraversano la vita formale della città…
[Interruzione per cambiare la nostra posizione, la telecamera rende troppo scure le nostre figure, sullo sfondo troppo chiaro]
MARCO: No, la cosa che dicevo: che questa roba del fatto che una città, soprattutto queste città che si sono trasformate con una pressione esterna molto forte di modernizzazione tra virgolette, hanno costruito da un parte una fetta della vita sociale, ma solo una fetta, con forme… e poi questa fetta è stata molto attraversata dai rapporti informali. Allora come fai a studiarla. Allora molti dicono: “sono i rapporti con le persone che dominano, le persone investono in capitale sociale” oppure “qui le cose vanno male perché c’è la corruzione…”, questo lo dicono sempre tutti: come fai a studiare quella cosa lì, che attraversa la società formale in modo informale, però… informale che vuol dire …: semplicemente che non è scritto, che non è sottoscritto da un ente amministrativo, ossia è una roba che accade, indipendentemente da… allora quell’autonomia della vita informale…
GIOVANNI: … normalmente viene stigmatizzata, no? E viene vista come il negativo…
MARCO: … sì, se hai dei modi di studiarla, cartacei, che sono gli atti dei processi, gli atti di polizia, quando hai accesso a quelle robe lì. Però allora sono in un’ottica molto precisa in cui la città normale che è quella lì diventa in qualche modo la società del crimine…
GIOVANNI: … perché vedi soltanto… in questa struttura molto complessa c’è anche l’elemento criminale…
MARCO: … certo, sì…
GIOVANNI: … e quindi tu finisci per concentrare tutto lì, (senza) analizzare tutta la faccenda, certo… sì, sì…
MARCO: Però questo non puoi farlo che muovendoti lì, ossia muovendoti, parlando lì, con le persone. A me sembra che non si esce dalla… dal fatto che studiare una città, un luogo implica il fatto di parlare con la gente, non solo… poi le cose si compenetrano, sono utili entrambi, però le…
GIOVANNI: … e anche questa lunga frequentazione è fondamentale, io per esempio mi rendo conto che… ho studiato le miniere dell’Amiata, eccetera, e lì la lunghissima frequentazione con un ex operaio, minatore, amico mio, purtroppo morto, è stata la cosa che mi ha insegnato di più. Cioè io ho capito più dalle cose che lui mi ha detto negli intervalli tra un’intervista e l’altra, che lui organizzava, che (dalle interviste), poi ho capito anche le interviste ma ho capito… quello che dici tu, insomma…
MARCO: Però noi storici abbiamo, forse non te ma, diciamo, spesso gli storici riflettono troppo poco sul fatto che quel cammino lì implica il fatto di indagare su una verità che è tutta relazionale. Allora gli antropologi dicono: “ci sono anch’io, in quella cosa”.
GIOVANNI: … sì, sì, sì…
MARCO: … perché l’osservatore non è che osserva: sta nel rapporto. Mentre noi (storici)…
GIOVANNI: Sì, sì, noi storici orali abbiamo un po’ capito l’importanza dell’osservatore, c’è una (riflessione)… e del fatto che è una relazione, insomma abbiamo dovuto per forza… a meno di essere dei dementi…
MARCO: Allora c’è un testimone privilegiato che è affine a te, col quale, parlando col quale tu cerchi delle spiegazioni, delle risposte a delle domande che stanno in questo dialogo…
GIOVANNI: … ma il risultato è il dialogo, e nasce in quel dialogo lì, per cui tu puoi pensare che se ci fosse un dialogo… della stessa persona con un altro (ricercatore): probabilmente le cose sarebbero un po’ diverse, quindi.
[Poi per circa 23 minuti Buttino parla della sua attuale ricerca sulle attività economiche e commerciali degli attuali immigrati in Italia. Ho deciso di omettere questa parte di intervista dato che il testo che state leggendo è già troppo lungo. Mi riprometto di metterlo a disposizione in un prossimo futuro. Alla ricerca sui migranti allude una parte successiva dell’intervista, che ho lasciato perché molto interessante: Buttino, infatti, mette in discussione con argomenti interessanti la “storia di vita” e propone soluzioni alternative.]
MARCO: I flussi migratori hanno traversato tanti posti, hanno costruito tanti spazi molto informali. Questa roba qui non è… una questione strana, è la questione… il mondo funziona così, in larga misura, allora: gli storici hanno gli strumenti per studiare questo tipo di società informale? E come fanno a farlo? A Torino, nel dipartimento di cui ho fatto parte, di storia, per tanti anni, poi ho cambiato: si studia l’epoca moderna, e… il regno sabaudo, negli archivi…
GIOVANNI: … sì, sì…
MARCO: … che va benissimo fare… però il mondo non è quella roba lì…
GIOVANNI: … infatti, infatti…
MARCO: … il mondo è… e questo mondo qui di cui stiam parlando adesso è un mondo… difficile da studiare…
GIOVANNI: … però è affascinante, ma poi capisci… cioè: (la tua) non è neanche più storia, perché qui siamo nel contemporaneo (riferimento all’attuale ricerca sui migranti)…
MARCO: … sì…
GIOVANNI: … questa è sociologia, è antropologia, è, che ne so, politica, è… storia orale…
MARCO: … non so quando inizia la storia…
GIOVANNI: … la storia di solito… quando tu… per esempio tu a Samarcanda… beh, però anche lì hai fatto un lavoro nel contemporaneo… poi è diventato storico perché ci sei stato tanto, per cui le prime cose che hai studiato…
MARCO: Sì, no, anche perché sono andato lì pensando: studio il post sovietico, e poi mi sono reso conto, è una banalità che potevo pensarci prima, che per studiare come cambia una cosa ti devi chiedere qualcosa su come funziona, allora mi son trovato che andavo indietro senza volerlo…
GIOVANNI: … chiaro, sì. Ma volevo chiederti una cosa: questi archivi che tu utilizzavi, dai quali sei stato espulso, che fine hanno fatto? Erano tutti in russo, li hanno buttati via anche quelli?
MARCO: Non lo so, nel senso che so di due cose, una è un archivio di una cosa che era un museo che aveva dei documenti della storia ebraica della città, che hanno tirato giù proprio il palazzo, i documenti li hanno messi in delle casse, io ho chiesto mille volte dove andavano a finire, sapevano che andavano in un deposito, poi mi hanno detto, ma io non l’ho visto, che è stato aperto un posto dove hanno messo questi documenti. Cosa resta in questi documenti non lo so. Nell’archivio che, invece, (era) l’archivio di stato dove non mi hanno più ammesso: hanno fatto una… dunque è un archivio che come la maggioranza degli archivi, credo, aveva una logica formale della… istituzione, che poi sul funzionamento c’era anche una logica informale che era un vecchio archivista che sapeva dove erano le cose, dove c’erano delle cose non catalogate, dove, sapeva, dove c’erano documenti un po’ buttati lì eccetera: lui sapeva muoversi in questa cosa. Questo archivio è stato messo a posto, nel senso che è stato tutto digitalizzato…
GIOVANNI: … ah…
MARCO: … che cosa hanno messo nel digitalizzato, che cosa hanno buttato via (non lo so)… questo direttore attuale che ha un massimo disprezzo, in ogni caso è uno che pensa che l’archivio è una cosa che ha un aspetto funzionale e serve per… è un archivio amministrativo che serve per le cose correnti, le carte vecchie son (gesto: abbandonate, buttate). Allora io credo che molte cose sono scomparse tra vicende sovietiche, nella storia… ma molte scompaiono, la maggioranza, scompaiono perché sono ritenute carte vecchie, perché è molto più facile buttare via delle carte che catalogarle, che se le devi scannerizzare queste robe sono di carta vecchia (gesto: buttiamole!)…
GIOVANNI: … poi portano via un sacco di tempo…
MARCO: … sì, poi: ma queste chi le ha viste? Non le ha mai viste nessuno per più di vent’anni, vuol dire che non servono a un tubo…
GIOVANNI: … la cazzata… è tipico…
MARCO: È tipico, e allora in questo modo qui che cosa resta non lo so. Poi soprattutto i sovietici avevano un… modo burocratico di guardarsi, dettagliato, tutto era segnato, tutto era… con quella testa lì, di cui abbiam parlato prima, però era una produzione di carte gigantesca, e qualche cosa volevan pur dire. Dopo non arrivano più le carte in archivio, perché… quello che resta delle fabbriche, delle aziende, eccetera, va in crisi, poi viene privatizzato, non hai più pubblico, non sai più… memoria delle cose loro. Il fatto che era un’economia tutta di Stato aveva un vantaggio per chi consultava le carte…
GIOVANNI: Tu mi dicevi che mi volevi dire delle cose su Samarcanda che non sono nel libro…
MARCO: Ah (sorride) sì, no le… io nel libro accenno a una cosa su cui poi ho continuato a lavorare, poi dovevo pubblicare il libro, insomma: quel lavoro era più lento della mia necessità di pubblicare… l’idea, semplicemente, è il fatto che ci sono molti luoghi nella città che segnano una storia… la storia di un passaggio di qualcuno… allora a me stupiva molto una cosa che nel libro c’è come accenno, che è un cimitero abbandonato, e la prima volta che vado… nella periferia …
GIOVANNI: Ma chi c’era sepolto non si sa?
MARCO: … dopo lo capisco, era dei Tatari di Crimea. I Tatari di Crimea vengono deportati, collocati nella periferia della città, in quello che erano i kolchoz, e lì era campagna, non era ancora città: non potevano muoversi verso la città. Questo cimitero nasce come loro cimitero, loro non hanno diritto di lasciare traccia di sé perché non ci sono deportati in Unione Sovietica; non ci sono deportati in Unione Sovietica: e perciò le persone non hanno diritto a mettere le lapidi. A un certo punto vengono riabilitati, negli anni Cinquanta. E perciò in questo cimitero con lapidi… ci sono i nomi ma in cirillico che non dicono niente, (poi) comincia(no) a esserci le lapidi che dicono: nato in Crimea, nel tale anno. Poi lapidi scritte in arabo, e poi a poco a poco, sempre di più, perché ormai si poteva. Allora quella roba lì resta un cimitero che poi sarà chiuso, però, abbandonato lì. Questa cosa ti rimanda a un’altra cosa che era vicino a quello (al cimitero), che era un quartiere che si chiama Yalta, ne parlavamo ieri: tutti lo conoscono come Yalta, anche lì puoi prendere un taxi come per andare in un posto…
GIOVANNI: … il nome è rimasto, quindi…
MARCO: È un nome informale, non è scritto. Però se tu prendi (un taxi), tutti: “portami a Yalta”: ti portano lì. E Yalta è una città della Crimea, però. Allora segni: il nome Yalta non può essere usato perché segna un fatto non avvenuto, ossia la deportazione dei (Tatari)…
GIOVANNI: … certo…
MARCO: …. questi non ci sono più, tranne le lapidi…
GIOVANNI: … perché sono tornati in Crimea…
MARCO: Ne restano lì qualcheduno…
GIOVANNI: … qualcheduno: quelli vecchi…
MARCO: … allora io ho fatto delle interviste, lì. E mi hanno raccontato la storia di più facce di questo quartiere, delle loro attività. Questo è interessante ma è inutile che ne parliamo adesso. Però la cosa interessante (è) che la città è piena di segni che… quando tu ti avvicini, poi, ti aprono delle voragini di cose che sono passate e sono state negate dal (regime), quella è una cosa più sovietica, le nostre città non può essere così…
GIOVANNI: … beh, da noi ci sono delle situazioni, per esempio a Ginostra, c’è tutte queste case ormai tutte appartenenti… proprietà di ricca o media classe europea. Ma il cimitero è un cimitero che dice delle cose straordinarie, perché è un cimitero… tutto un cimitero dei ginostrini che sono poi andati in America, in Australia, molto. Oppure per esempio a Messina…
MARCO: … perciò quello che tiene il bar sopra l’inizio del paese, che è una famiglia che è stata in Australia…
GIOVANNI: Sì sì si, ma noi quando eravamo lì a un certo punto arrivò uno tutto vestito perfe(ttamente), noi tutti in ciabatte: perfettamente vestito con delle scarpe a punta, nere, lucide con i calzini a righine, e cercava di interloquire con mio figlio, che all’epoca aveva sette anni, in uno strettissimo dialetto ginostrino: mio figlio era… lo guardava (stupito)… perché lui era emigrato, non è che aveva conservato… pensava che gli altri non fossero emigrati, che quindi lui (che mio figlio fosse di Ginostra), “a chi appartieni?”, no? Come si dice in siciliano, mio figlio che lo guardava così… e a Messina hanno fatto un bellissimo film[1] questi inglesi che hanno fatto dei filmati di storia di Messina, Napoli, Marghera, Roma, insomma hanno fatto queste… e hanno fatto a Messina: col terremoto tutto viene sovvertito, la città viene completamente rifatta, i monumenti spostati, una marea di roba diventano macerie sotto terra, i piani delle vecchie chiese si abbassano perché si alzano… si alza (il livello della nuova città), ma il cimitero conserva delle cose che sono sparite e c’era una famiglia che ha scoperto, dal fatto che c’era il cimitero, che il loro padre aveva perso la (prima) moglie, faceva il marittimo, la moglie e tutti i figli: nel cimitero… nel terremoto… quando è? Dell’’8? Del ‘7, dell’’8… insomma: quello… e loro non lo sapevano, perché (il padre) non glielo ha mai detto, ma è rimasto lì, e c’erano tutta una serie di informazioni che… che restavano nel cimitero…
MARCO: (…) Questi spostamenti forzati di popolazione che non vengono riconosciuti, nella vita della città (…) sono fondamentali perché… prima avevamo iniziato, poi abbiamo cambiato tema, però la modernizzazione industriale nasce con il trasferimento delle fabbriche durante la seconda guerra mondiale: arrivano le fabbriche chiavi in mano con gli specialisti russi. Poi nello stesso tempo queste fabbriche continueranno ad essere moderne, russe, e aver pochissima gente locale, che la gente locale non va a lavorare in quelle fabbriche lì, nello stesso tempo deportano le persone che diventano braccia disponibili, messe fuori città e assorbite a poco a poco, a seconda delle esigenze di forza lavoro in città, sennò stanno lì bloccati, non hanno il diritto di muoversi. Allora questa roba qui porta una città che si trasforma, si modernizza in senso sovietico (…) in grande misura utilizzando forza lavoro di deportati. E allora: ufficialmente i deportati non esistono, e allora (ride…)
GIOVANNI: Perché i Tatari vengono deportati? Come mai erano considerati …?
MARCO: Era perché lì (in Crimea) c’era l’avanzata dei nazisti e una parte di Tatari collaborano coi nazisti, facilmente abbastanza pochi, però, c’erano delle brigate, però… e questo fa sì che per prevenire questa cosa i sovietici prima dell’arrivo dei nazisti li deportano
GIOVANNI: Come fanno questi a collaborare prima che arrivino di nazisti?
MARCO: No, no, infatti sto dicendo una cosa sbagliata, infatti è il contrario: loro deportano le persone dopo che sono passati i nazisti… e quando hanno riconquistato la Crimea levano… deportano le famiglie, perché parte di uomini non ci sono più, parte li arruola l’Unione sovietica, e li levan da lì, perciò le deportazioni sono soprattutto di donne, di vecchi, di bambini. Una delle cose, dei racconti, interessanti è che in un posto vengono ammassate le persone per deportarle usando i carri che erano stati abbandonati dai nazisti, che è stata un’idea cattiva, prima dovevano dargli una verniciata, non lo so… Lì è tutto un terreno, la storia di questi Tatari che nasce in questo cimitero e va avanti, però, io, lì: mi interessa molto, adesso non ci ho più tempo, però… io lì è stato l’unico caso in cui oltre le interviste che ho fatto io mi sono fatto fare delle interviste da un altro, diciamo.
GIOVANNI: Ho visto che c’è uno, nelle note c’è scritto… un francese, no?
MARCO: No, un sociologo di lì…
GIOVANNI: … che ha fatto lui… pensavo di chiedertela questa cosa…
MARCO: Lui lì… è l’unica parte, che poi (non) ho utilizzato quasi nulla perché non è su questo quartiere … e le interviste sono iper interessanti…
GIOVANNI: … sempre in russo?…
MARCO: Sì… no, ecco lui le faceva anche in qualche altra lingua, in tagiko, e poi me le dava in russo. Hanno però una cosa che pone dei problemi grossi per la storia orale, io nell’imbarazzo non li ho usati, ho levato il quartiere (dal libro su Samarcanda). Ci sono, ne ho tante, metti quaranta, cinquanta interviste di storie di persone e di famiglie che hanno tutti una vicenda analoga, che è quella che risulta anche dalle interviste che ho fatto io, cioè loro vengono deportati e poi muoiono molto nel primo (anno)… parte durante la deportazione e parte nel primo anno…
GIOVANNI: Perché si trovano senza alloggio, sì…
MARCO: … si trovano nei kolchoz dove vivono gli uzbeki che bevono l’acqua dei canali e questi qui si ammalano tutti perché non sono abituati a vivere in quell’ambiente lì. Ci sono racconti terribili, di questo tipo. Il fatto è che in quasi tutte le interviste la parte della deportazione è terribilmente simile. Io non so se lì c’è: tutti messi sul camion… scusa, sul treno blindato, le persone che muoiono sul treno, le persone buttate giù dalla stazione, duemila varianti di questa roba qui… dunque io non so se queste parti delle interviste o se le sono immaginate… ci han messo loro delle cose, io gli pagavo le interviste allora loro le inventavano, oppure sono un cliché conoscitivo, nel senso… cioè sono quelle robe… che poi se fai i calcoli scopri che il testimone aveva quattro anni, aveva cinque anni, aveva sette anni, e raccontava di come stava la gente attorno a lui nel treno…
GIOVANNI: Beh quello può essere possibile, i bambini hanno memorie “fotografiche” molto particolari…
MARCO: Sì io ho avuto l’impressione che potesse esserci quello, perché io ho intervistato le persone che dicevano quello, ma anche che ci sia una specie di verità concordata, ossia di… una memoria… che resta lì…
GIOVANNI: Sì, sì, questo è possibilissimo. Io ho proprio studiato queste memorie… queste memorie che non sono vere, ma sono un accordo generale, sì, sì …
MARCO: Sì, ma di cui sei auto convinto anche, perché non è che la vendi come bugia, no.
GIOVANNI: … no no, ma sono forme…
MARCO: … è il modo in cui hai sistematizzato: leggendo, a scuola, parlando con le persone… E perciò i racconti… il meccanismo della deportazione: là come prendono le persone, poi questa roba un po’ alla nazista, la deportazione coi treni blindati…
GIOVANNI: Non è escluso che abbiano utilizzato anche… anche la deportazione… questa storia della deportazione della Shoah, perché poi ci sono stati filmati, ci sono stati dei servizi televisivi…
MARCO: … sarebbe molto bello riuscire a smontare queste cose qui, allora…
GIOVANNI: … per esempio quando lavoravo alla Shoah Foundation c’era… era abbastanza evidente che alcuni, che avevano un’esperienza di campi… ma da un certo momento in poi, anche per la debilitazione completa e l’incapacità, poi, di fare più esperienza… poi: utilizzavano pezzi della grande letteratura della Shoah, pezzi di Levi… e dicevano cose che non potevano essere vere nel campo dove erano andati… dove dicevano di essere andati, ma non è che lo dicevano (sapendo di mentire): ne erano convinti, l’avevano letto e siccome questa cosa si adattava perfettamente a un buco di memoria che loro avevano – di memoria organizzata, avevano delle sensazioni… – questo funzionava, e allora l’hanno incorporato (nella loro narrazione)…
MARCO: … perché poi tu ti immagini…
GIOVANNI: … perché poi quelli che facevano la trascrizione (ma: indicizzazione) alla Shoah Foundation, che non erano in gran parte storici: grandi risate su questa cosa, che a me sembrava una cosa… (che) andava capita, non è che… “Ah ah, questo qui dice che in questo campo c’era Mengele, che non poteva esserci perché…”, mah, va be’: cerca di capire perché lo diceva, non è che ti vuole raccontare una balla…
MARCO: Che poi ovviamente anche la storia orale produce documenti che vanno letti come documenti, non come la verità, anzi come una non verità…
GIOVANNI: Questo era un problema della Shoah Foundation perché loro avevano questa (linea) molto positivista: che quello che il testimone ti dice è la verità, se ti riporta una cosa (esperienza) riportata da un altro non la consideri nemmeno, che magari a volte è più interessante…
MARCO: Però in questi casi questi racconti che sono diventati un capitolo gigantesco, perché poi c’è tutta la storia di come questi vivono in questo quartiere di Yalta…
GIOVANNI: Potresti fare un altro libro… è bella come storia…
MARCO: Sì, potrei fare un libro più piccolo su quello, il problema è che adesso sto facendo quest’altra cosa qui, non ci ho proprio la testa, oltre al tempo. Però lì c’è un’altra variante, insomma, del fatto che riesci a parlare con la persone ma è molto difficile… io credo che quella roba lì sia sostanzialmente vera…
GIOVANNI: Stai parlando adesso…
MARCO: … della modalità della deportazione. Però quando te la raccontano in modo analogo ti pone dei problemi…
GIOVANNI: Ti mando della roba che ho scritto su questo, su queste cose che lì per lì lo storico orale dice: “Oh, questa è vera, la dicono tutti…”, invece molto spesso è un accordo, che assomiglia molto a quello che Bogatyrev e (Jakobson), grandi folcloristi, no? Dicono. “Cos’è il folclore? È una cosa che è passata al vaglio (in realtà alla censura) preventivo della comunità”, cioè la comunità dice: “questo sì, questo no”, e alla fine rimane… che è significativo, perché vuol dire che la comunità ha filtrato questo.
MARCO: Tu pensa: questi qua vivono, deportati ai margini, perciò vivono ancora da Tatari di Crimea, deportati ma sono loro, parlano tataro, diverso da quello che parlano gli altri. Sono iper marginali perciò vivono miserissimamente, qualche racconto di quello che gli è capitato si costruisce negli anni e si sedimenta con tenacia come verità, perché se tu lo neghi…
GIOVANNI: … La tua identità…
MARCO: … la loro esistenza, come fanno i sovietici: se tu sei lì, (è) perché è capitata questa roba qua…
GIOVANNI: … è una forma di resilienza…
MARCO: Eh certo, e perciò è una verità tenace, che può essere una gran balla (ride)…
GIOVANNI: … o, almeno, può avere forti elementi… sì, sì…
MARCO: Sì, è una versione, una versione tenace…
GIOVANNI: Perché l’importante non è che sia vera, ma che funzioni, per essere… deve essere prima concordata e poi, dopo, è una cosa che si deve contrapporre a una verità scritta, che ha dietro il potere, no? E quindi questa è una forma di resilienza…
MARCO: … perché, se negano, negano il fatto che esisti; se negano il fatto che esisti ti trovi in una situazione in cui…: già, noi: nessun diritto; poi: non esisti. Sei fregato, insomma.
GIOVANNI: Tu hai fatto una cosa sui Mugat (gruppo etnico simile ai Rom occidentali, col quale tuttavia non ha relazioni o parentele), perché questa cosa dei Mugat mi interessava molto, questi che sono i più danneggiati dal crollo dell’Unione Sovietica, perché…
MARCO: Sì, sì, sì, sì…
GIOVANNI: … prima avevano, in qualche modo, avevano acquisito diritti, lavoro, la casa. E poi vengono… (oggi) si occupano di spazzatura…
MARCO: Sì. Lì c’è…
GIOVANNI: … ma tu ti sei occupato di un asilo? Questo lo so da Francesca (Socrate) , non c’è scritto (nel libro)…
MARCO: (ride) no, la cosa è così, ho scoperto che lo fanno tutti, nel senso che io, quando stavo lì, io son stato lì ogni anno per qualche mese, due o tre mesi, per una decina d’anni, ma il primo anno son stato lì tutto l’anno. Ed ero lì con lo stipendio dell’università, che voleva dire…
GIOVANNI: … ricchezza straordinaria…
MARCO: …(ride) ero il più ricco di Samarcanda, e allora ci avevo i sensi di colpa, e allora frequentavo, a quel punto lì, frequentavo questo quartiere di zingari e loro mi raccontavano che non riuscivano a mandare (i figli a scuola)…
GIOVANNI: Che anni erano?
MARCO: Era post sovietico, era ’95, seconda metà degli anni Novanta. E allora io ho fatto come avevo visto fare nei saloon dei film western: “pago io per tutti!”, e mi sono messo a pagare, sono andato alle scuole e ho detto le tasse ai bambini, che dovevano pagare, le pagavo io. Questo ha fatto nascere molti casini perché uno straniero non poteva nemmeno entrare, in una scuola, nemmeno un asilo, poi: pagare… e allora è nato tutto un casino, però si è aggiustato poi alla… sovietico di lì, ossia: “va beh, no, è vietato, ma…”, insomma: “non vediamo, ti lasciamo fare”. (…)
C’è la storia dell’asilo, poi c’è la storia di questo quartiere che cambia, che, ho raccontato nel libro, io seguo un po’. Questi qui diventano marginali e fanno sostanzialmente lavori di riciclo della spazzatura, e allora ho seguito un po’… però anche loro hanno delle economie informali e lì… sono economie informali molto in contatto con la distribuzione della droga, e lì c’è un’altra questione difficilmente studiabile che è il ruolo del traffico di droga in questi paesi, la droga ha un potere di corruzione talmente alto…
GIOVANNI: … ma la droga viene anche utilizzata lì o semplicemente prodotta?
MARCO: Sì, in questo quartiere sì, in questo quartiere (è utilizzata) anche in modo diffuso, abbastanza, sì, lì…
GIOVANNI: Che droga?
MARCO: Eroina.
GIOVANNI: I papaveri dove stanno?
MARCO: In parte in coltivazione in Uzbekistan, in parte eroina che arriva già eroina, cioè raffinata, dall’Afganistan. C’è una frontiera con l’Afganistan, dell’Uzbekistan, e il traffico è molto grande perché è fatto un po’ come era… io quando cercavo di capire quella roba lì: un po’ come era il commercio delle sigarette a Napoli, non so se ti ricordi, erano… c’erano i motoscafi blu, mi sembra, che erano quelli dei contrabbandieri che andavano a prendere le sigarette dalle navi e le portavano a Napoli. E allora si diceva: “ma, cavolo, fanno un’azione illegale: perché si mettono i cosi blu, tutti blu: per farsi vedere!?”. Poi uno mi ha detto: “certo, si mettono in blu per esser fatti… (per farsi) vedere, perché così la Finanza non li disturba, sanno che sono i motoscafi dei contrabbandieri di sigarette…”
GIOVANNI: Perché pagano la Finanza…
MARCO: Sì, perciò non… allora lì (in Uzbekistan) c’è questa cosa: il traffico di droga che passa attraverso la strada che attraversa tutto l’Uzbekistan verso il nord e sembra che corrompa tutta la polizia, tutti i sindaci, perché il contenitore… quello che contiene una macchina di quelli lì dà gli stipendi decuplicati per dieci anni a qualsiasi funzionario che incontri. Per questo devono essere identificabili, perciò sono macchine che si sa che sono quelle dei contrabbandieri, nessuno li fermerà; perché se un poliziotto sfigato li ferma: gli fanno poi un culo gigantesco, perché ha bloccato lo stipendio del sindaco, del capo della polizia. Allora: c’è una tale diseguaglianza di ricchezza tra i salari di questo mondo sovietico crollato, impoverito, eccetera, e la ricchezza di questo nuovo business, che questo diventa un motore di nuova corruzione di nuovo tipo, diversa da quella che dicevo prima…
GIOVANNI: … è molto più pericolosa, però…
MARCO: … è una bomba, non puoi resistere a quella roba lì. Come fa un poliziotto che guadagna una lira a bloccare uno che è talmente ricco e potente? Se lo fa si mette in tali guai che è impensabile, perciò devono essere identificabili, il contrabbando di cosi non è un contrabbando clandestino, è il più ufficiale possibile (ride). Però, insomma, questo era connesso un po’ alla cosa di ieri, perché a un certo punto una parte di loro fanno spaccio a livello locale…
GIOVANNI: … e quindi poi alla fine diventano… potrebbero diventare ricchi, se sono bene inseriti dentro questa cosa, però probabilmente loro sono una manovalanza…?
MARCO: Ma lì ci sono varie famiglie, un po’ in conflitto tra di loro, loro (i Mugat) sono la più bassa manovalanza, e io non so bene come vada quella roba lì…
GIOVANNI: … questa cosa non si sa, la gestiscono gli Uzbechi?
MARCO: Eh?
GIOVANNI: Chi la gestisce, gli Uzbechi?
MARCO: Sì. E lì sono ragazzi che tra l’altro si drogano anche loro, perciò quando io ne ho parlato lì: tutti dicono “è un gran casino…”, poi esistono delle famiglie che lo fanno di più, delle famiglie che lo fanno (di meno)… Poi, più che tanto, dentro (non puoi entrare)… uno dei casini dell’indagare su questa cosa è che… io calcolavo sempre che dovevo uscirne vivo, nel senso che non puoi andare in un posto e dire: “come funziona qui la mafia?”
GIOVANNI: Ti ammazzano subito.
MARCO: Perché se è vero che c’è, ed è pesante, non è che vai lì a fare…
GIOVANNI: Soprattutto se è così pervasiva…
MARCO: E poi se vai in un posto dove c’è la corruzione: vai a chiedere come funziona la mafia uzbeca: puoi farlo, ma o non ti danno risposte, oppure non è che ti uccidano, poi è anche possibile, ma ti… poi non vai più da nessuna parte, nel senso che io doveva prenderla molto alla lontana, perché, se quella era la mia prima domanda, ti dicevano: “bravissimo, interessi molto interessanti, importanti… vai dove vuoi, levati dalle palle! Perciò è una complicazione, dove l’illegale… dove il formale diventa illegale: uno si trova un po’ nei guai, perché non è un agente segreto, o non so che, Nembo Kid (ride), è uno che deve anche un po’ misurare il livello si…
GIOVANNI: Se no finisci come Regeni…
MARCO: Eh, sì, ti metti… lui è evidente che è andato… ha messo il naso in cose più grandi di lui…
GIOVANNI: … giovane, entusiasta, bravo, intelligente…
MARCO: (…) “Cavolo, sto scoprendo qualche cosa di importante”… e si è messo in una roba molto più grande, poi giochi che lui non vedeva.
Volevo ancora dirti l’ultima cosa di storia orale che mi era venuta in mente, che era quella di oggi pomeriggio (la sua attuale ricerca sui migranti) (…) mi è venuta in mente una cosa che volevo discutere con te, che è questa: l’idea di oggi è che (…) questi sudanesi, sono nove, di cui uno vuole aprire un ristorante, vivono sempre in questa zona occupata, uno però vuole aprire un ristorante e mi propone di fare un’associazione culturale che si appoggia lì, e io ho pensato di fare una cosa “archivio memoria migranti torinesi”, prendendo le cose di Sandro Triulzi e facendo una roba. Allora a me è venuto in mente che allora ci mettiamo in questo ristorante e collaboriamo a farlo e diventa anche associazione in cui… è attaccato alla moschea, arriva la gente dopo le preghiere eccetera, e io mi stabilisco lì, come facevo in un quartiere di Samarcanda, ho ottimi rapporti con questi nove perciò… allora ho pensato che la cosa… ho provato una cosa con una mia amica che faceva un cosa di formazione con i migranti che occupavano gli spazi, voleva rifarla lì (nel ristorante), che riguarda il modo di intervistare la gente, non so se te l’ha detta Francesca (Socrate) questa roba qui, e l’idea era… che se tu intervisti uno dicendo: “raccontami la tua vita” non funziona, perché loro hanno già raccontato troppe volte la loro vita, in funzione di giustificare il loro diritto a stare qua. E poi, soprattutto, se tu gli chiedi “raccontami la tua vita, da dove vieni, chi era tuo padre, cosa faceva…”, quella roba lì, li “imbuti” in un’idea lineare della vita, no? Poi “dove sei andato a scuola, che lavoro hai fatto”: quella roba lì…
GIOVANNI: … è quello che si fa qui (in Italia)…
MARCO: Allora con questa mia amica abbiamo provato…
GIOVANNI: … Come si chiama?
MARCO: Mariella Allemano, che fa l’insegnante di italiano e di formazione a dei migranti. E allora, è un’idea sua, lei mi aveva coinvolto nel parlare con tre o quattro di questi qua, e mi ha detto. “stai a vedere come funziona questa cosa” e allora sono andato lì, lei ha portato la cosa sul fatto che dovevamo conoscerci, raccontarci di noi, eccetera; invece di dire “dove sei nato” ha detto, lasciando tutti un po’ sgomenti, “ma tua avevi un animale in casa?” E allora tutti abbiamo iniziato a rispondere a questo, io avevo un cane, ho avuto un cane, un po’ così. Uno comincia a dire: “ah, io avevo un cammello bellissimo”: la storia di questo cammello, si mette a parlare della storia di suo fratello, poi intervengono gli altri su questa cosa qui, e diventa un modo di muoversi in questa… vita qua, scegliendo, come dire, invece che dire…
GIOVANNI: … asimmetrico, un modo…
MARCO: … esatto, invece di muoversi nel tempo così (un gesto che indica la linearità e lo sviluppo, verticale, dal basso verso l’alto) noi ci siamo aggirati in orizzontale (un gesto circolare della mano, appunto come disegnando un cerchio orizzontale). E lì si scoprivano una valanga di cose, non avremmo mai parlato del… del cammello e di tutto quello che ci stava dentro, cioè questo specchio di una famiglia, dei rapporti dentro la famiglia, se gli chiedevamo “dove sei nato, (racconta) l’aspetto lineare della tua vita”…
GIOVANNI: … avete provato a fare anche quell’aspetto lineare o no?
MARCO: … no, questa è stata una minima cosa, mi è venuto in mente che le storie orale che vorrei raccogliere, se faccio questa roba in questo ristorante, devono essere fatte un po’ così, ossia che questa storia di costruire storie di vita creando… costringendo la memoria a una linearità, a esser costruita su una linearità, è buttare via quasi tutto, è costringere le cose…
GIOVANNI: … questo… questo, guarda, è una cosa che non ci avevo… quando noi diciamo… di solito noi diciamo: “facciamo una storia di vita”: perché la storia di vita, rispetto alle domande: tu vuoi studiare, per esempio, gli operai di una fabbrica; ma se tu gli chiedi notizie sulla fabbrica hai delle risposte più stereotipate, mentre se gli fai… se parti dalla storia di vita riesci a capire com’è che lui organizza questa sua… questo suo racconto. Ma questo va bene per persone che tutto sommato hanno un percorso sufficientemente lineare o, meglio, hanno la possibilità di immaginarsi di aver fatto un percorso lineare, perché poi, la realtà: scopri che ogni vita è caratterizzata da degli scarti incredibili, no? Però poi viene raccontata come… come un flusso, cioè la… (gesto che indica un movimento rettilineo)…
MARCO: … ma quella è la grande falsificazione, cioè una grande semplificazione…
GIOVANNI: … sì, sì, io mi ricordo che su Quaderni Storici c’era una grossa critica, forse di Carlo Ginzburg, a questi antropologi americani che hanno fatto parlare i capi indiani. I quali sono laconici, no? Non hanno nessuna propensione per costruire la storia di vita, e sono stati fatti parlare per ore con questo schema, che è uno schema (opposto), così sono diventati chiacchieroni, invece quelli … “Augh ho detto” (ridiamo), tre parole… e dice: “questa è una cosa… che risultati può portare una cosa del genere?”. Ora mi fai pensare che forse tutta la nostra storia orale è…
MARCO: … no, poi forse c’è la psicanalisi, dietro, di fianco a questa cosa qui, ma il problema è che … o c’è tutta la letteratura, non so, se tu leggi “L’uomo senza qualità”, Musil, questo qui dice: “vado da qui a lì”, e in mezzo ci sono cento pagine che sono i suoi pensieri, mentre andava lì …
GIOVANNI: … sì, o Proust
MARCO: … sì, perciò c’è… un mondo terribilmente ricco che non si riduce al fatto: “sono andato da qui a lì”. Se dici quello, è vero. Ma è una tale banalizzazione della complessità di quello lì. Allora è meglio dirgli: “avevi un animale in casa?” (ride) poi di lì par(te)… c’è tutto, perché tutte le cose si connettono, ma…
GIOVANNI: … la tua amica che ha avuto questa idea, lei cosa fa di mestiere? Lei è un’antropologa?
MARCO: No, no, lei faceva l’insegnante, una volta, adesso è in pensione, delle 150 ore, poi è diventata scuola per i migranti che volevano prendere la terza media, adesso fa una cosa per trovare… insegna italiano ai migranti. Fanno dei corsi di formazione. (…)
GIOVANNI: (Volevo tornare) sul fatto che tu dopo aver intervistati questi qui prendevi appunti e venivano fuori le stesse frasi.
MARCO: Questa è una cosa un po’ misteriosa perché io ho poca memoria, avevo sempre paura di dimenticarmi le cose, intervistavo a Samarcanda senza mai segnarmi nulla oppure segnavo qualche parola. Poi capitava che quando uscivo dalla casa dove avevo intervistato andavo nel primo posto in cui potevo fermarmi, iniziavo a scrivere e avevo l’impressione che stavo scrivendo le stesse frasi che dicevano questi qua. Questa era l’impressione, poi può darsi che sto coprendo in modo inconsapevole un falso micidiale in cui scrivevo cose diverse. Ma avevo veramente l’impressione che mettendomi lì con la testa la scrittura andava quasi in modo automatico nella ricostruzione dei discorsi. Perciò non ho mai avuto l’impressione di aver perso molto. Tra l’altro io non ho mai citato queste mie trascrizioni… non le ho mai usate come testo da citare letteralmente, ma perché lì c’era anche la mediazione linguistica io scrivevo in italiano, perciò non potevo poi… e questo è stato un po’ un pasticcio, perché mi sarebbe venuta molta voglia, ogni tanto, (di) citare i miei testimoni e fare attenzione alle parole che usavano: io non mi sono mai, mai fidato di questo perché erano le mie trascrizioni, più letterali di cui ero capace… non potevo ficcare queste parole in bocca, parola per parola, ai miei interlocutori. Perciò io ho…
GIOVANNI: Intervistavi in russo, rispondevano in russo, e poi automaticamente…
MARCO: … e poi prendevo appunti in italiano… forse, dipende… mi segnavo ogni tanto qualche parola in russo, perché mi sembrava che aveva detto proprio quella roba lì, cavolo! Non dovevo dimenticare, e allora mettevo… c’era una (gestualmente: inserzione)… però grosso modo io traducevo le cose, perciò veniva un testo che era una traduzione, cioè c’erano queste due mediazioni: io che trascrivo, io che trascrivevo in russo (ma: in italiano) anche se tutto ciò fatto un minuto dopo essere uscito dall’intervista, però (questo) non mi permetteva di citare le parole, non ho mai detto: testualmente quello lì mi ha detto questa cosa. Che è un grosso limite, perché le parole sono importanti, ovviamente.
GIOVANNI: Sì però ci sono anche altri che fanno così. Calegari, di cui parlavamo prima, raramente introduce… se introduce, introduce proprio una frase, ma non introduce mai un discorso. Forse…
MARCO: C’è anche il rischio opposto, di far parlare troppo le persone, e di farti prendere da una specie di gusto della loro…
GIOVANNI: Sì, che un pochino è questo e un po’ è anche una forma leggermente colonialista, perché tu prendi il testimone che un pochino è… che può essere di cultura subalterna, e allora lo metti lì, te, lo trascrivi te, insomma… si aprono tutta una serie di problemi che noi di solito… sui quali non riflettiamo… sì, riflettiamo, ma non abbastanza forse. Secondo me non è casuale che Calegari non metta quasi mai…
MARCO: … tra virgolette…?
GIOVANNI: … sì, una frase sì, ma non un periodo, non un discorso compiuto, no? Forse perché non vuole … non vuole fare apprezzare la differenza tra il suo discorso, tra virgolette “colto”, e un discorso invece che… che lui apprezza ma proprio perché lo apprezza non lo vuole…
MARCO: … considerare…
GIOVANNI: … non lo vuole presentare subito dopo (il suo) no? Perché sennò appare… questi elementi dialettali, magari costruzioni grammaticali non perfette, eccetera.
MARCO: E poi c’è un’altra cosa, che oltre alle interviste, i miei appunti sono appunti più testuali possibile ma non di interviste ma di chiacchierate, ossia: io, che ne so, andavo a mangiare a casa di uno, capitavano delle cose, si discuteva… molte delle informazioni che ho avuto… per esempio sugli ebrei di Bukhara io frequentavo molto casa di un tale che si chiama Raffik e lì sono venute moltissime cose, che stavano nel modo in cui lui mi raccontava di sé stesso, nel modo in cui lui spiegava di essere stato macellaio kasher, e lo era già suo padre, tutta questa tradizione religiosa, mentre mangiava delle cose totalmente non kasher, e poi quando io gli dico: ma scusa, (sorride) stai parlando, ma stiam mangiando… stai dicendo delle cose… e stiamo mangiando queste… e lui: “Mah, kasher o non kasher …” Cioè dopo avere presentato, in tutti i giorni precedenti, come la sua dignità viene da quella tradizione, dal fatto…: poi, ma chi se ne frega. Allora, poi, lì, in quel salotto lì, di quello lì: c’è un suo litigio micidiale ma molto significativo con un fratello che lui butta fuori casa. Il contrasto, lì lo racconto nel libro, era questa cosa in cui lui spiegava perché lui non era emigrato da Samarcanda, era uno dei pochi che era restato. Perché lui dice: io vado negli Stati Uniti e divento come te, ossia: io son venuto da te e tu non mi hai mai offerto una tazza di tè perché non avevi tempo, allora quella lì è una vita di merda. Ma loro, dicendo questa roba, erano incazzati in un modo micidiale, tanto che si alzano in piedi e il fratello americano se ne va, e poi io esco con il fratello americano, faccio tutto un pezzo di strada con lui e mi faccio raccontare delle cose. Ma allora: tutte queste qui erano non delle interviste ma erano dei momenti molto, molto importanti per capire…
GIOVANNI: Le dinamiche, certo.
MARCO: … come mai uno va, come mai uno sta, che cosa rappresenta quella famiglia, come cambiano le dinamiche in una famiglia che sta mezzo da una parte mezzo da un’altra. Quelle lì non sono interviste, però. Io le annotavo come riuscivo, ed erano frammenti di un litigio…
GIOVANNI: Te le sei annotate subito dopo, queste cose qui…
MARCO: Sì, in genere facevo quello, appena potevo avevo anche paura di dimenticarmi delle cose, me le scrivevo… così, non sono interviste ma sono una pagina, una mezza pagina, tre pagine: secondo
GIOVANNI: Ce le hai tutte queste cose…?
MARCO: Sì, sì. Le ho, in parte son trascritte, in parte son scritte a mano.
NOTE
[1] Mi riferivo a una ricerca coordinata da David Forgacs che produsse cinque documentari di storia di altrettante città. Forgacs si occupò di Roma, Nicholas Dines di Napoli, John Dickie di Messina, Laura Cerasi di Marghera/Venezia, John Foot di Milano.