di Roberta Garruccio.
La Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ha organizzato una serie di incontri sul tema della memoria che, tra gennaio e giugno 2020, coinvolgono Aiso insieme alla Società italiana di neuroetica (SINe). Quest’ultima (Aiso e SINe) sembra “una strana coppia”, proverò a spiegare come è stata combinata.
Il primo di questi incontri (programmato per il 29 gennaio) mette il concetto di memoria in tensione con quello di identità. Ne seguiranno altri, rispettivamente dedicati alle memorie sbagliate e ai falsi ricordi; alle trasformazioni della memoria tra gli strumenti della ‘mente estesa’; alle seduzioni, manipolazioni e scissioni della memoria nell’autobiografia di un testimone che è collaboratore di giustizia (di questo primo incontro si può consultare qui la locandina; il resto del programma sarà pubblicato via via che i nuovi appuntamenti si svolgeranno).
Nel contributo che segue vorrei dire qualcosa sulla nebulosa rappresentata dalla parola ‘memoria’, sottolineando alcune distinzioni. Ma il mio primo intento è spiegare perché questa iniziativa è stata immaginata dalla FGF, e perché ha coinvolto Aiso con la SINe. Ho quindi ragionato un po’ su come riuscirci, tanto più considerando il peculiare pubblico che partecipa alle iniziative della Fondazione, la quale è una istituzione culturale ma anche una grande macchina di comunicazione. Quello che mi è venuto in mente è partire da qualcosa che a mia volta ho ascoltato pochi giorni orsono, quando, nell’aula magna della mia università, è stato organizzata la presentazione del nuovo codice etico dell’Ateneo per l’integrità della ricerca. Sembra un riferimento lontano, ma non lo è. Alla presentazione è stata infatti invitata a parlare Helga Nowotny, già presidente del Consiglio europeo per la ricerca e ora Professoressa emerita al Politecnico di Zurigo, dove lavora nel campo degli studi critici dedicati alle scienze e alle tecnologie. Nowotny ha detto molte cose e tutte molto dense, ma quella che credo abbia più direttamente a che fare con l’iniziativa di cui parlo qui è stato l’invito da lei rivolto alla platea (di ricercatori accademici e ricercatori indipendenti) che aveva davanti. Si è trattato di un invito articolato in più punti. Il primo, a non lasciare mai ai media la comunicazione di ciò che facciamo, ma a prenderci la responsabilità di informare il mondo esterno alle istituzioni per cui lavoriamo su quello che stiamo facendo e sulla rilevanza di quello che stiamo facendo. Il secondo, a rifiutarci di rispondere sì o no a domande la cui risposta non può essere sì o no (prendiamo un esempio di domanda che come storici dell’oralità ci è molto vicino: la memoria delle persone che intervistiamo è affidabile o inaffidabile?). Il terzo, a sforzarci di comunicare di più il processo della ricerca come processo inerentemente incerto, congetturale, provvisorio. Il quarto, a testimoniare come la ricerca sia lo strumento migliore per navigare in tempi incerti, anche e soprattutto in tempi in cui la società pretende certezze. Un buon modo per aprire la scatola nera della produzione di conoscenza – ha aggiunto Nowotny – è allora quello di partire dalle differenze (e dalla controversie) tra gli ambiti in cui la conoscenza è prodotta: differenze sui data set, sulle metodologie, sugli assunti di partenza, sui linguaggi, sulle culture incorporate nelle diverse tribù che la conoscenza costruiscono; soprattutto differenze sulla concezione circa il cosa viene considerato ‘provato’. Ecco, questo è lo spirito con cui io ritengo che potremmo inquadrare il coinvolgimento di Aiso in questa sessione e nelle successive. E lo penso anche in continuità con il piccolo seminario di discussione dedicato al Quantitativo/Qualitativo nella ricerca che Aiso ha organizzato la primavera scorsa.
Torno quindi ad alcune considerazioni di cornice che riportano a quella tensione memoria e identità, innesco del primo incontro in FGF, denunciando in anticipo che sono state pensate proprio per il pubblico generalista della Fondazione e per il suo portale. Mentre vengono ora riproposte sul sito di Aiso per dare ragione di una delle diverse attività in cui l’associazione ha deciso di impegnarsi anche quest’anno.
Se è salda e condivisa la convinzione che, a livello individuale, sia la memoria a conferire identità, è la traslazione a livello collettivo di questo convincimento ad essere problematica, così come lo è l’uso acriticamente rigido di questi due termini, e l’obliterazione della dimensione storica dei processi a cui essi rimandano.
Come concetti, identità e memoria sono entrambe ambigui perché indicano contemporaneamente contenitori e contenuti di diversa natura. E restano comunque difficili da definire, perché polimorfe e polisemiche: implicano processi di costruzione, selezione, soppressione che possono essere involontari e inintenzionali, ma anche volontari e intenzionali; si riferiscono tanto al ricordo quanto all’oblio, a rappresentazioni tangibili e intangibili, ma rimandano anche al corpo e alle sue basi biochimiche e organiche: proprio perché, per l’individuo, memoria, ricordi e identità cominciano all’interno del corpo e sono intrecciati alla percezione del corpo.
Nel loro uso pubblico, la memoria e l’identità hanno in comune l’essere di recente emerse nel linguaggio corrente della comunicazione sociale, politica, culturale, con un successo tale da spiazzare altre parole chiave; è qui che si compromettono con i pericoli di ipertrofia e abuso, ma anche con il rischio di mettere a repentaglio, silenziare o svuotare di senso qualcosa di essenziale valore.
Come capacità e come operazione, memoria e identità postulano ambedue un legame tra un sé che è ora e un sé passato e futuro, evocano una misura di permanenza e si rapportano al mutamento attraverso la narrazione, si aggrovigliano insomma alla dimensione del tempo.
Per quanto riguarda l’individuo, è difficile sottostimare l’importanza della memoria tra le facoltà umane, se non altro perché ha a che fare praticamente con tutto quello che facciamo. Individualmente, senza memoria saremmo incapaci di parlare, ragionare, sognare, desiderare, leggere, identificare oggetti e persone, tra cui noi stessi, muoverci nell’ambiente che ci circonda, mantenere relazioni personali. La memoria non è quindi ancillare al pensiero e alla vita dell’uomo, ma vi è embricata in modo imprescindibile. Come la memoria lavora, nella sua dimensione biologica e in senso neuro-scientifico, è campo di studio che negli ultimi decenni ha prodotto nuova comprensione e una divulgazione di alto profilo dei suoi risultati, sforzandosi di comunicarli in modo accessibile ad un largo pubblico ed entro efficaci forme di scrittura, pensiamo solo al successo che è stato riconosciuto ai libri di un neurologo come Oliver Sacks (a partire dalla pubblicazione di “Risvegli” nel 1973 e “L’uomo che scambiò la moglie per un cappello” nel 1984).
In una congiuntura temporale di trasformazione e frammentazione accelerata come quella che attraversiamo, non sorprende affatto che la memoria, ma in questo caso soprattutto la memoria sociale, sia e sia stata sovra-sollecitata, ossia strattonata e insieme continuamente riformulata da impulsi potenti: dalla fine della guerra fredda con l’onda lunga dei suoi effetti, marcati in Europa dalla caduta del Muro di Berlino e dall’allargamento a Est dell’Unione europea; da un’accelerazione senza precedenti dei flussi di merci, capitali e lavoro a livello globale con il moltiplicarsi nel mondo di istanze e preoccupazioni identitarie come reazione difensiva; da una disponibilità tecnologica di registrazione, rappresentazione, conservazione della memoria che storicamente non è mai stata così immane né ha mai avuto ambizioni così integrali.
Non sorprende quindi neppure che la memoria oggi ci trasformi e si trasformi in modalità inedite, oscillando continuamente tra manipolazione e ricerca di senso. Né che il termine memoria navighi tra dimensioni plurali (politiche, culturali, sociali) e accezioni polisemiche. Il processo individuale del ricordare, gli atti sociali della commemorazione e della memoria pubblica e degli usi pubblici della memoria sono tra gli esempi maggiori di declinazioni della parola memoria con significati molto diversi, spesso divergenti, accezioni intrecciate o nebulose, che non dovrebbero però essere confuse.
La relazione tra memoria individuale e memoria collettiva è tra le più elusive. C’è chi ha sostenuto che non si dà ricordo fuori dai ‘quadri sociali della memoria’, ossia che la relazione tra memoria individuale e memoria collettiva sia una relazione di dipendenza della prima dalla seconda (dalle tendenze commemorative, dei calendari civili, dalle storie ufficiali, dalle parate, dai monumenti, dai miti condivisi, dalle cerimonie, dai discorsi in pubblico, dalla televisione, dai film e dalla fotografia, dalla musica, dai media in generale in cui certamente comprendere il web). Se tutta la memoria fosse collettiva, tuttavia, allo storico per esempio basterebbe allora ascoltare un solo testimone per gruppo sociale, mentre sappiamo che non è così: questa è un’affermazione quasi ovvia ma molto acuta tra le molte fatte da Sandro Portelli sul lavoro della storia orale, per la quale la relazione tra memoria individuale e memoria collettiva è invece frammentata (socialmente e politicamente) perché ciascuno deriva memorie da un ventaglio di gruppi diversi e le organizza in maniera altrettanto diversa. Per la storia orale quindi, quella fra memoria individuale e memoria collettiva non è una relazione di dipendenza, ma una relazione ricorsiva: perché è l’individuo che ricorda, ma sono i suoi gruppi di riferimento che sviluppano ciò che è memorabile e lo sostengono nel tempo; in altre parole, la memoria individuale ha bisogno di essere riconosciuta dagli altri e si sostiene attraverso questo riconoscimento. Questo è il punto che, come Aiso, possiamo contribuire a discutere negli incontri programmati dalla FGF.
Se da secoli è oggetto di interesse filosofico e scientifico, imponendosi come grande tema della letteratura e della poesia prima e della psicanalisi dopo, è con gli anni ’80 del ‘900 che il dibattito sulla memoria va surriscaldandosi, alimentando una sempre più vasta letteratura, articolata in discipline diverse, specchio a sua volta del fatto che lo stesso termine ‘memoria’ riflette un intero palinsesto di connotazioni.
Alla chiusura del XX secolo si parla quindi di memory boom (lo stesso ‘giorno della memoria’ viene istituito entro questa congiuntura, proprio quando si aprono gli anni duemila e in Italia si moltiplicano le cosiddette “leggi memoriali”): una deflagrazione di interesse esplosa sotto l’urgenza di impulsi successivi e concomitanti, con una genealogia precisa, intrecciata all’avvento di quella che intanto ha preso il nome di “era del testimone”, un’era che ha un termine a quo nel processo Eichmann, che attraversa la stagione delle commissioni per la verità e la riconciliazione che hanno costellato la storia recente di diversi paesi del mondo, e che statisticamente vede i suoi ‘testimoni’ vivere anche molto di più rispetto alle generazioni passate.
Il memory boom inoltre coinvolge sia quella cultura popolare variamente intesa che incorpora e reimpasta sempre più spesso frammenti, racconti, suoni, sapori, immagini del passato, sia gli studi che cercano di comprendere la memoria attraverso strumenti critici plurali, studi che abbracciano le discipline umanistiche e le scienze sociali, ma anche la psicologia, la psicobiologia, e le neuroscienze in generale.
Dentro il memory boom, tanto i neuroscienziati quanto molti umanisti hanno lavorato a partire dai molti disturbi da cui la memoria è tribolata (labilità, distrazione, blocco, errata attribuzione, suggestionabilità, distorsione, persistenza), pur riconoscendola comunque come una delle proprietà adattive più essenziali per la vita dell’uomo. Si tratta di una polarità intrinseca che rende immediatamente più chiaro che (e perché) la memoria, in questo caso sia individuale e privata, sia pubblica e collettiva, non è mai, né può esserlo, un campo neutro, ma sempre diviso e conteso.
Un tale vortice di attenzione ha visto affermarsi anche un’idea di memoria come “sistema”, anzi, come serie di sistemi in rete: memoria semantica, procedurale, di lavoro episodica, vivida o flash bulb memory, e come processo plastico di elaborazioni complesse e successive, per cui ciò che ricordiamo è plasmato sia dal significato che viene individualmente attribuito all’esperienza originaria connessa al ricordo, sia dalle circostanze sociali del recall. Specularmente, ha visto definitivamente eclissarsi l’assunto della memoria come contenitore dei ricordi dati, ordinato archivio di esperienze vissute e depositate nel cervello o nella mente: come se bastasse premere un pulsante play per recuperane i contenuti. Allo stesso modo, della memoria, ha messo in discussione anche l’idea reificata: come se fosse appunto una cosa, oppure un’essenza astratta dai legami mondani che la avviluppano.
Ragionare su tutto questo è una sfida titanica e audace è anche solo provarci. Ma non mancano ragioni per farlo. Questi incontri puntano, come ho provato a spiegare qui, a una commistione e contaminazione di prospettive.
Da un lato c’è la prospettiva delle neuroscienze, una branca del sapere oggi trionfante, che si è applicata anche a studiare i processi biologici e neuronali del ricordare, come essi si sviluppano nel cervello, come possono essere mappati in modi sempre più fini e rappresentati con nuove metodiche di ottenimento e produzione di immagini; scienze che sono arrivate sul ciglio della possibilità di intervenire su questi processi (rimando per questo alla presentazione dedicata a questa stessa serie di incontri fatta da Andrea Lavazza della SINe, e pubblicata a sua volta sul portale FGF).
Dall’altro c’è la prospettiva della storia, una disciplina accademica di cui non si fa che commentare la ritirata, a favore di altri vettori del sapere di storia (il turismo e l’industria dello heritage, i musei, la televisione). Ma che è forse quella attrezzata a capire come dalla somma di memorie individuali possa emergere nel tempo una memoria collettiva che è altro dalle memorie individuali (o più che non la somma di quelle), e a dare spiegazioni di questi processi.
Se la prima prospettiva apre la nostra conoscenza a che cosa succede nel singolo cervello quando ricordiamo, ma tralascia i processi sociali del ricordare e le rappresentazioni collettive del passato che esistono fuori dalla mente, la seconda guarda a questi con attenzione, ma ne ignora le dinamiche organiche e psicologiche.
A questo appello al confronto con le neuroscienze sulla memoria ha risposto l’Aiso, ossia l’associazione che riunisce alcuni studiosi che, nel fare storia, tengono in una particolare considerazione, tra le altre fonti del passato a loro disposizione, anche quelle che chiamano le fonti orali, ossia le testimonianze in prima persona, l’espressione in forma narrativa della memoria autobiografica sollecitata dall’incontro diretto e dialogico con il ricercatore, nella forma dell’intervista in profondità, della raccolta della storia di vita di qualcuno/a che ha avuto parte in particolari eventi, processi, snodi periodizzanti.
Gli storici orali sono certamente interessati al che cosa viene ricordato dal testimone, ma anche a che cosa dentro la testimonianza viene soppresso, al come e perché il passato viene ricordato in un determinato modo piuttosto che in uno diverso, al significato di ciò che viene ricordato e, ultimo ma non ultimo affatto, al contesto (di tempo e di spazio) in cui viene ricordato (memoria di chi, memoria di che cosa, rievocata per chi, quando, dove, come e perché, ossia a quale fine).
Gli storici orali coltivano un’idea di storia contemporanea definita dal problema del presente, ma che non dà affatto per scontato che i problemi dell’oggi non possano essere studiati mettendo in gioco prospettive temporali diverse da quelle del presente; eppure, sfidano uno degli assunti impliciti del lavoro storiografico, ossia la nozione di distanza storica, proprio perché sono del tutto consapevoli che l’allora e l’adesso nella testimonianza sono sempre mescolati. A maggior ragione perché queste testimonianze sollecitate, per emergere, hanno spesso avuto bisogno di tempo a loro volta. Credo che molti storici dell’oralità condividano un concetto di storia contemporanea come basato sul bisogno di interpretare il presente alla luce di cesure inattese. E penso che nessuno eluda confronto con il lavoro della conoscenza storica sottratto all’opinione pubblica e quindi volto a capire “che cosa il passato consente e che cosa non consente”.
Le fonti orali quindi sono notoriamente “diverse” sotto tanti profili dalle altre fonti frequentate dagli storici (sono fonti sollecitate, non spontanee; sono una fonte contemporanea alla ricerca appunto e non agli eventi oggetto della ricerca, sono fonti volontarie anche se contengono indizi involontari e molte informazioni inintenzionali, sono fonti orientate ad uno scopo). Ma gli storici orali sono i primi a riflettere su che cosa fare di/con questo tipo di evidenza, sulle difficoltà del maneggiarla, sul guadagno di comprensione che deriva dalla raccolta della memoria e insieme sulle trappole, le insidie, gli ostacoli (procedurali, etici, epistemologici) che essa include. Quello che fa la storia orale è considerare la memoria allo stesso tempo come un dato di ricerca e come un oggetto di ricerca, con un’operazione critica centrata sulla “messa in prospettiva” temporale del contenuto e della forma della memoria (accettandone pienamente l’accezione di elaborazione) che viene raccolta attraverso la testimonianza sollecitata dallo storico.
Gli storici orali lavorano con una disciplina che ha radici lunghe, ma che si è anche radicalmente trasformata negli ultimi decenni. In questa evoluzione, la storia orale ha coltivato relazioni privilegiate e strette con molti altri campi delle scienze umane e delle scienze sociali (dalla narratologia, alla linguistica e alla psicoanalisi, dall’antropologia, alla sociologia). Ma non con le scienze dure e neppure con le cosiddette scienze della vita, come in questo caso.
Per conto di Aiso, quello che proviamo a fare in questi seminari è chiarire sul come noi, da storici orali lavoriamo sulla memoria; che cosa facciamo con il materiale primario che raccogliamo, quali difficoltà incontriamo nel farlo; che cosa guadagniamo dall’incontro con la memoria; quali sono le insidie procedurali, epistemiche, etiche che attendono gli storici che si affidano alla memoria del testimone.
Gli incontri dedicati dalla Fondazione Feltrinelli alla memoria ci propongono quindi due obiettivi (o meglio una duplice occasione).
Il primo obiettivo è quello di ragionare su un’idea di memoria non come contenuto (come ricordo), ma invece come ricerca/operazione che la memoria stessa fa, in quanto lavoro di elaborazione continua, e sulle opportunità di conoscenza che dalla memoria emergono. Questo avendo coscienza di tutte le sue fragilità, fallacie, bias e selezioni, ma anche dei suoi punti di forza e delle sue irriducibili ambizioni veritative, le quali sono così palpabili quando i testimoni difendono con forza categorica la propria esperienza di vero e chiedono che venga riconosciuta. Ma è del resto proprio la memoria come ricerca (e la comprensione che ne deriva) che merita impegno a salvaguardarla da strumentalizzazioni capziose e violente, nelle giunture più critiche e drammatiche della storia.
Il secondo obiettivo è quello di ragionare sulla ricerca che si fa sulla memoria: come capacità di esercitare un dubbio critico sistematico e ordinato; la capacità di “dipanare il vero, il falso, il finto”, una capacità che oggi viene sfidata in modo inatteso, da una società che, rispetto alla conoscenza prodotta nei luoghi istituzionali del sapere, reagisce in modo impulsivo e insieme sospettoso, che non si fa convincere, ma che vuole convincere.
Se tutto ciò serve da premessa, spero di potere rendere conto, in un prossimo contributo, di come questo esperimento di dialogo tra storici orali e neuroscienziati si sarà effettivamente dipanato e quali nuove intuizioni potrà aprire per chi lavora con la memoria in prospettiva storica.