di Laura Longo
Ogni anno a Pozzuoli, in occasione del 2 marzo, si ripete un rituale, una celebrazione, attorno a quello che la comunità era, e che oggi non è più. Lo si tiene nelle stanze messe a nuovo, ristrutturate in colori accesi, del rione Terra, centro cittadino della Pozzuoli antica e, oggi, nelle parole degli amministratori locali e delle pagine di giornali, futuro volano di sviluppo turistico ed economico. I giorni di convegni, manifestazioni culturali e tavole rotonde si riferiscono ad un quartiere che oggi possiamo rivedere con lo sguardo dell’immaginazione: è stato murato il 2 marzo del 1970, per pericolo di bradisismo, un fenomeno di lento abbassamento ed innalzamento della terra che, in territori vulcanici, così come è la grande caldera dei Campi Flegrei, non dà luogo solo a scosse, ma può generare eruzioni di letale pericolosità[1].
Gru sul rione visto dal basso, fotografia dell’autrice
Dobbiamo immaginarlo, dunque, color tufo, a picco sul mare, senza le gru che, da anni ormai, campeggiano a segnalare lavori in corso. È la parte più elevata della città, da cui si gode un meraviglioso panorama sul golfo di Pozzuoli, verso le isole di Procida, Ischia e Capri. Deve il suo nome, si dice, all’usanza antica dei pescatori che, di ritorno verso la darsena, urlavano: “Terra!”, raggiungendo con la vista l’altura, pregustando il ritorno a casa. In uno sforzo ulteriore, che dal campo visivo si estende a quello uditivo, dobbiamo pensare ad un vociare confuso e allegro, a volte rissoso, spesso bonario: dobbiamo pensare al rione popolato da persone, mentre oggi ci appare vuoto, aperto per i turisti e per chi, anche dai quartieri periferici di Toiano e Monterusciello, decide di seguire la funzione religiosa della domenica nel Duomo restaurato. E così, lo vediamo come era un tempo, collegato al resto della città con numerose porte e scale, percorse quotidianamente dai suoi abitanti che rappresentavano una profonda commistione sociale, tra esponenti di un’aristocrazia in via di decadenza e il popolo, artigiani, sarte, pescatori e disoccupati, nuclei familiari numerosi costretti nei bassi umidi e cavernosi – cavità che nascondevano la storia della città, dalla sua fondazione fino al periodo di splendore romano, lasciando le persone incoscienti d’essere sedute sulla storia archeologica della Puteoli del passato.
Quando mi ci sono accostata con l’interesse della ricerca, ormai dieci anni fa, avevo in mente il corso di Storia e Memoria seguito all’università con la prof.ssa Gribaudi, e mi affascinava l’idea di ritrovare le storie minute[2] di quel luogo a me, ed alla maggior parte della cittadinanza, ancora precluso – il Duomo, prima parte del quartiere ad essere nuovamente fruibile alla cittadinanza, sarà riaperto solo nel maggio 2014. «Lo spazio è fatto di strade e di case, ma su questo spazio concreto si elabora un’identità costruita a partire da cose immateriali, il linguaggio, gli odori, la memoria»[3], e allora potevo avventurarmi, con una penna ed un quaderno e l’immancabile registratore, nella mia prima esperienza di storia orale. Non mi aspettavo di trovare tante persone con la necessità di raccontare. Ogni volta mi si presentava una versione diversa della storia, rafforzando la convinzione che ogni storico orale conosce bene: non esiste un’unica storia, ma tante storie quante sono le persone che le raccontano. E tutti, a Pozzuoli, avevano la propria storia su quel luogo. Un familiare, un amico, loro stessi ci avevano vissuto, e il 2 marzo era stato «perdere un po’ le nostre radici» (Maria C, 1944). Ho capito, solo nell’interazione quotidiana, a tratti commovente, con gli sfollati del rione, che l’antica rocca è scrigno di memoria antica per Pozzuoli, luogo di disfacimento delle ambizioni identitarie e, allo stesso tempo, simbolo di una ferita, ancora aperta, nella configurazione dello spazio urbano e sociale, che sta lì, immobile e pulsante.
La storia del rione Terra è la storia di Pozzuoli: primo insediamento di coloni, centro importante durante l’epoca romana, cade in disgrazia nel Medioevo e riacquista valore grazie all’opera di Don Pedro Alvarez di Toledo, a cui oggi è intestata la biblioteca locale. Negli anni ’60, il rione è malandato, carico di persone ma povero di servizi, una piaga non sanata, come la definiva il giornalista Mario Sirpettino sulle pagine de Il Mattino[4]. L’ultimo censimento sui suoi abitanti è stato condotto dalla F.U.C.I., Federazione Universitari Cattolici Italiani, che, porta per porta, animati dagli scritti di Don Milani e spronati dalla loro guida spirituale locale, il sacerdote Angelo D’Ambrosio, avevano sottoposto un questionario a tutti i puteolani con residenza nel rione. Lo scopo era di impiantare una scuola popolare proprio lì, dove pareva ci fosse meno scolarizzazione e più dispersione scolastica[5].
Il problema che gli abitanti lamentavano e, allo stesso tempo, temevano, era la bonifica non più rimandabile di un territorio considerato insalubre, e non di certo il bradisismo, una parola che si sentiva poco o niente pronunciare:
«A quell’epoca, per noi, il termine bradisismo era sconosciuto. Per cui quando qualcuno più, diciamo, acculturato ne parlava e ci veniva detto che il suolo si stava innalzando, cioè, eravamo increduli…» (Domenico P, 1946)
«Secondo me, c’era cognizione che il terreno si alzava e si abbassava, punto. Non c’era cognizione che quell’abbassamento poteva determinare il cambiamento della loro vita» (Oscar P, 1948)
Con questo retroscena, si arriva al 2 marzo 1970: una giornata grigia, nella memoria di molti, e dai tempi concitati, per tantissimi. Lo sgombero viene annunciato da una camionetta, mentre il sindaco, Angelo Nino Gentile, punto di riferimento per i cittadini, è a Roma con la maggior parte della sua amministrazione per discutere proprio con il governo centrale, e non sa che la sua Pozzuoli sta per subire lo sgombero che ne segnerà la storia. Gentile viene raggiunto telefonicamente, e ricorderà:
«Come si può, nel giro di ore, evacuare un’intera città? Così all’improvviso? Perché non mi hanno informato? Il bradisismo è un fenomeno lento, come può la terra essere impazzita d’un colpo? Potevano, se sapevano, informarmi. E a mia madre? I miei? Che fare? Ho il cuore in tumulto, la testa è un vulcano. Ma ho ancora un cervello?»[6]
Lo sgombero era stato ordinato direttamente dal Prefetto di Napoli, contattato dall’allora direttore dell’Osservatorio Vesuviano, Giuseppe Imbò: i Campi Flegrei non erano una zona monitorata ma le avvisaglie della terra non potevano essere ignorate. Il suolo si era alzato, e i pescatori puteolani, i primi a segnalarlo, se ne erano resi conto tornando dalla pesca e dovendo abbassare la testa per poter passare sotto il ponticello d’accesso alla rientranza dove lasciavano le barche. Un gesto inconsueto e, apparentemente, incomprensibile: si alza l’acqua? O si abbassa la terra?
Fotografia di Antonio Grassi, dall’archivio personale di Eleonora Puntillo, giornalista de L’Unità nel marzo 1970
Di fronte allo sgombero, le reazioni dei puteolani sono di spavento non tanto per il rischio che effettivamente la popolazione stava correndo, in particolare nella parte più fatiscente dell’abitato, ma di terrore per quello che non comprendevano: perché scappare? Per quanto? Verso dove? Perché camionette delle forze dell’ordine, in tenuta antisommossa, per uno sgombero di civili inermi?
«Una baraonda, l’esercito, la polizia, i carabinieri, non sapevano che dovevano fare, sì, dovevano sgomberare, ma come? Non c’era stato proprio una prova generale, niente, niente, vabbè…» (Raffaele G, 1939)
«Non è che eravamo felici di andarcene dal rione Terra, perché non sapevamo dove ci portavano, perché so’ venuti i militari, hanno preso la roba, hanno messo sui camion, e con destinazione… quale era poi?» (Giuseppina C, 1949)
In poco più di un giorno, il rione Terra viene sgomberato, rimane senza abitanti e viene murato per evitare possibili ritorni. I puteolani sono sfollati, con le poche masserizie possedute, in alloggi provvisoriamente disponibili, nelle immediate vicinanze – in Comuni come Licola, Giugliano, Marano – oppure nell’ospedale psichiatrico Frullone, a Napoli. Trascorrono circa sette anni nelle abitazioni provvisorie, in attesa dei nuovi appartamenti a Toiano, chiedendosi se lo sgombero fosse in realtà necessario, dal momento che nessun terremoto, tanto meno eruzione, si era verificato, e il rione Terra rimaneva immobile e inaccessibile a chi, un tempo, ci viveva.
«Dopo tanti anni non cadde nessuna casa. Tanti e tanti anni dopo, cadde qualche cosina, ma perché c’erano state le infiltrazioni d’acqua, ma perché nessuno curava… ma nessuna casa era caduta per questo, per il movimento sismico» (Domenico M, 1946)
«La mia casa, prima che venisse abbandonata forzatamente da mio padre, non aveva una lesione. Là c’erano i muri maestri di circa cinquanta centimetri di larghezza, non aveva avuto una lesione» (Giulio G, 1960)
Questo genera uno strappo ad oggi non sanato, tra amministrazione e scienza, da una parte, e popolazione, dall’altra: la mancanza di fiducia non ha permesso alla narrazione scientifica di farsi spazio nelle consapevolezze dei puteolani che, scettici, pensano con nostalgia caricata dai ricordi alla vita nel rione Terra, e a quello che pare un grande inganno perpetrato ai loro danni. Forse i puteolani sentivano, in quella paura istintiva, che non sarebbero mai più tornati nelle loro abitazioni, e il tempo ha dato loro ragione. Il rione Terra, con la Legge Speciale per Pozzuoli, la 475 del 19 luglio 1971, viene dichiarato patrimonio indisponibile del Comune di Pozzuoli, tutelandola rispetto ad eventuali speculazioni. Si stabilisce lo stanziamento di fondi per costruire un quartiere in un territorio limitrofo al centro storico, quello che oggi è conosciuto come Toiano, ed in cui, allora, sorgeva la campagna. La rottura con il passato comunitario è totale: gli spazi si dilatano, gli edifici sono anomici, le maglie della società si allargano per far spazio alla modernità.
Il 2 marzo 1970 Pozzuoli è un paese smemorato[7] e il bradisismo coglie tutti di sorpresa: cittadini, amministratori e scienziati sono impreparati. Quando quel giorno, spartiacque della storia locale, il rione Terra viene sgomberato, in maniera frettolosa e con una decisione presa dall’alto e mal comunicata alla maggioranza della popolazione, la comunità si disgrega: si configura un evento traumatico non per il disastro che ci si aspettava, dal momento che l’eruzione non avvenne, ma per un altro tipo di catastrofe, sociale e comunitaria. Il disastro, qui, rivela tutta la sua complessa e sfaccettata natura[8]: non solo evento fisico, ma soprattutto processo multidimensionale, che abbraccia diverse sfere del vivere dell’uomo e ne modifica sostanzialmente l’esistenza nel tempo. L’evacuazione forzata segna la storia locale e il trauma ingenerato: un trauma individuale e comunitario, sociale ed urbanistico, che apre un lutto silente nella comunità e segna una perdita, tanto più grande quanto minore è lo spazio dedicato ai ricordi, alla rivitalizzazione della memoria degli sfollati, che non trovano occasioni pubbliche in cui cauterizzare le ferite con il racconto.
Arriviamo al 2 marzo 2020. Si parlerà del passato del rione Terra, attraverso mostre fotografiche ad hoc e tavole tematiche[9], ma è al futuro che l’amministrazione guarda, per mettere a sistema quanto finora fatto, in maniera ancora non sufficiente per dare una risposta al territorio: i lavori sono ancora incompleti e, ancora oggi, cittadini e turisti vivono solo per limitati spazi di tempo gli stretti vicoli della rocca. Al momento, è possibile seguire la funzione religiosa nel Duomo e ammirarne il restauro conservativo, che rende visibile le colonne del Tempio di Augusto, di epoca romana, su cui oggi sorge. Oltre a ciò, si entra nel rione per visitare gli scavi archeologici ed il Museo Diocesano, unici poli culturali, oltre a Palazzo Migliaresi, accessibili in determinate fasce orarie. Eppure ci sono soprattutto anziani, tra quelle strade, che si fermano davanti a case oggi anonime e ne ripercorrono la vitalità. Nei loro occhi la stessa voglia di raccontare e ricostituire il tessuto dei ricordi che ho visto io, giovane studentessa di storia orale. Ancora adesso ricordo con gratitudine quei testimoni, in grado di restituire bellezza e intensità ad un luogo che, seppure silente, grazie a loro, parla[10].
Vista dal rione oggi, fotografia dell’autrice
[1] Circa 40.000 anni fa viene datata l’eruzione della Ignimbrite Campana, mentre nel 1538 si ebbe l’eruzione che ha dato i natali al vulcano più giovane d’Europa, il Monte Nuovo: in entrambi i casi Pozzuoli rimase spopolata, con danni ingenti sul territorio. Per il primo caso, si veda: Mauro Rosi, Alessandro Sbrana, e Claudia Principe, The Phlegraean Fields: structural evolution, volcanic history, and eruptive mechanisms, in «Journal of Volcanology and Geothermal Research» 17 (1983), pp. 273-288. Per il secondo: Emanuela Guidoboni e Cecilia Ciuccarelli, The Campi Flegrei caldera: historical revision and new data on seismic crises, bradyseisms, the Monte Nuovo eruption and ensuing earthquakes: twelfth century – 1582 AD, in «Bulletin of Volcanology» 73 (2011), pp. 655–677.
[2] L’espressione è in Gabriella Gribaudi, Donne, uomini, famiglie. Napoli nel Novecento, L’Ancora, Napoli 1999.
[3] Alessandro Portelli (a cura di), Città di parole. Storia orale di una periferia romana, Donzelli, Roma, 2007, p. 7.
[4] Il Rione Terra di Pozzuoli il più popolato della Campania, datato 30 maggio 1958, si trova in Mario Sirpettino, Scritti ieri : i Campi Flegrei dal 1954 al 1975 : in 139 articoli pubblicati su Il Mattino, Azienda Autonoma di Cura, Soggiorno e Turismo, Napoli, 2004, pp. 69-70.
[5] Quanti, Dove, Come Vivono gli abitanti del Rione Terra?, censimento elaborato dai giovani della F.U.C.I. (Federazione Universitari Cattolici Italiani) di Pozzuoli, gennaio 1970. Il documento è consultabile sul sito bradisismoflegreo.
[6] Brano di una testimonianza del sindaco Angelo Nino Gentile (1981), pubblicata in Raffaele Giamminelli, Il rione Terra di Pozzuoli – cronaca dal 1970 al 1989, in «Quaderni dell’Ufficio Beni Culturali», 10 (2 marzo 1990), p. 86.
[7] Emanuela Guidoboni, Contro la previsione: la radice culturale del primo progetto di casa antisismica (1571), in Emanuela Guidoboni, Francesco Mulargia e Vito Teti (a cura di), Prevedibile/Imprevedibile. Eventi estremi nel prossimo futuro, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015, p. 341.
[8] Alfredo Mela, Silvia Mugnano e Davide Olori, “Vulnerable Italy”: between academic debate and a multitude of social and political actors, in «Sociologia urbana e rurale» 111 (2016), pp. 7-21.
[9] Degni di nota sono gli sforzi del consorzio tra università e associazioni locali, WAVE SPICE, che, con il coordinamento del vulcanologo Christopher Kilburn dell’UCL – Hazard Centre, tenta di ricostruire il filo del discorso che connette territorio, rischio e memoria. Allo stesso tempo, l’associazione culturale Lux in Fabula, con il prezioso contributo della giornalista Eleonora Puntillo, ha elaborato un archivio multimediale con immagini e video dell’epoca, bradisismoflegreo, già citato in precedenza e disponibile all’url https://bradisismoflegreo.wordpress.com/.
[10] Sul ricordo dello sgombero del rione Terra ho pubblicato Pozzuoli, 2 marzo 1970: lo sgombero del rione Terra nella memoria dei puteolani, in Giovanni Gugg, Elisabetta Dall’Ò e Domenica Borriello (a cura di), Disasters in popular cultures, Il Sileno, Rende (CS), 2019, pp. 58-75, open access. Sul bradisismo del ’70 e quello degli anni ’80 a Pozzuoli invece rimando al mio Vivere nel rischio. Popolazione, scienziati e istituzioni di fronte all’attività vulcanica nei Campi Flegrei (1970-1984), in «Quaderni storici» 3/2018, pp. 799-820.