Intervista di Federica Martinato [1].
Intellettuali, culture locali, archivi orali: questo il tema del corso di Storia orale del 2019 all’Università di Venezia; al centro c’era l’idea che la storia orale in Italia sia stata, per alcuni decenni, un movimento largo, che ha mobilitato una generazione di intellettuali “diffusi”, attivi anche al di fuori dei circuiti e dei luoghi più noti, che dagli anni Ottanta in avanti hanno condotto ricerche, scritto libri, fondato associazioni, spesso registrato e conservato interviste.
Di loro sappiamo poco. Li siamo andati a cercare. Gli abbiamo chiesto di raccontarci le loro traiettorie di vita e le loro ricerche. E di dirci che cosa è rimasto dei loro archivi, dei documenti che hanno raccolto, e a chi pensano di consegnare la loro “eredità materiale” fatta di nastri e cassette con le mille voci che hanno ascoltato. Ne sono usciti degli incontri singolari, illuminanti, talvolta toccanti.
Dopo Rosarita Colosio, incontriamo Camillo Pavan, intervistato da Federica Martinato, studentessa di storia.
Ho incontrato Camillo Pavan nel tardo pomeriggio del 26 aprile 2019, nella sua casa a Treviso, in zona Santa Maria del Sile. Quando arrivo è Laura Martinello, la moglie, a darmi il benvenuto, e poco dopo arriva anche Camillo. Fin da subito mi accoglie come una persona vispa, gioviale, e da subito si schermisce: dice di non capire che cosa uno studente possa imparare da lui, o cosa possa ricavare da un’intervista sulla sua esperienza di storico.
Il nostro colloquio dura un’ora e quarantacinque minuti, tempo che Camillo impiega per fare un racconto essenzialmente autobiografico, tanto che, scherzosamente, definisce la nostra chiacchierata come «una seduta psicanalitica». Del resto, il suo lavoro di ricerca storica sembra essere il filo conduttore di una parte considerevole della sua vita, oltre che della nostra intervista; e nel suo racconto, anche le esperienze di vita precedenti il suo incontro con la storia sembrano preparare il terreno per quest’ultima. Si sofferma quindi a parlarmi della giovinezza, dell’esperienza del giornalismo, dell’incontro con le idee del ’68, dell’addio alla carriera giornalistica e dei tanti impieghi che ne seguirono, dell’inizio delle ricerche in archivio, del primo libro su Sant’Angelo e sul Sile e poi di tutti gli altri temi di ricerca: Caporetto; il radicchio di Treviso; i partigiani; poi ancora dell’incidente mentre raccoglieva ciliegie, della necessità di salvaguardare in qualche modo il materiale raccolto, e dell’uso del web come archivio.
Camillo Pavan si può inserire tra gli storici orali della generazione successiva a Nuto Revelli: è infatti negli anni ’80 che inizia a dedicarsi alla storia. La sua scoperta della storia orale si deve, tuttavia, all’incrocio con un altro ambito di interesse di quegli anni: la storia locale. È il fortuito incontro con il laureando Mauro Pitteri, e il contatto con un gruppo di storici dell’università Ca’ Foscari che, rifacendosi alle «Annales», si occupa di storia del territorio, che risveglia in Camillo l’interesse per la storia del suo paese. Ma la scintilla vera e propria scatta quando, leggendo il lavoro di uno di questi storici, Camillo vi trova delle interviste utilizzate come fonti storiche. A lui, che ha fatto il giornalista, che ama il contatto umano, non sembra vero, «prima cosa che ho fatto, sono andato a sentire i vecchi contadini».
Così, la sua personale biografia (e quindi questa stessa intervista) si può considerare come il tassello di un contesto più ampio: l’esperienza di Camillo fa parte di una più ampia e diffusa reazione ai repentini e profondi cambiamenti della società degli anni ’70-‘80, che crea in molti l’esigenza di porre l’attenzione su quella realtà in mutamento, impegnandosi dal punto di vista civile e culturale, e che vede affiancarsi alle risposte accademiche anche lavori di storici e intellettuali “dilettanti” sparsi nel territorio[2]. In Camillo, quest’esigenza trova modo di esprimersi nella storia orale.
L’incontro con la storia orale
Camillo Pavan inizia la sua storia raccontandomi com’era la sua vita prima di dedicarsi alla storia orale. «Ero già molto avanti con gli anni che ho cominciato a occuparmi di questa» mi dice. Camillo è nato nel 1947 a Sant’Angelo di Treviso, da Pietro Pavan (1909-1981) e Olga Ceccato (1915-1996). Di famiglia contadina, si considera egli stesso un contadino, vergognandosene un po’ perché, dice, «non so potare le viti, né mungere le mucche». Quel che colpisce della sua vita sono l’energia e l’intraprendenza con cui l’affronta, sempre alla ricerca di una passione da perseguire che, anche se tarda ad arrivare, non rinuncia a cercare. A scuola non va bene, non ha voglia di studiare, viene bocciato più di una volta, e allora, per dimostrare (e dimostrarsi) che vale qualcosa, organizza nel 1963, a Santa Maria del Sile, una squadra di atletica leggera, un’iniziativa inusuale per l’epoca, e che riscuote un certo successo. È qui che sviluppa i contatti che gli permettono di entrare nel giornalismo, e inizia a scrivere articoli sportivi per il «Gazzettino»:
Io andavo con la mia bicicletta, andavo su un posto che ritenevo che potesse essere valido, facevo un articoletto e lo portavo in redazione e mi pagavano le buone 300 lire, 100 lire, 200, e avevo una soddisfazione enorme che me lo pubblicavano sai, vedere il tuo nome scritto, mi sentivo un grande, anche perché allora non c’erano tutti questi giornali, c’era solo il «Gazzettino», e quindi questa era una grande soddisfazione.
Il giornalismo è un’esperienza appagante, ma di breve durata. È il ‘68 e Camillo, fino ad allora democristiano, si avvicina alle idee degli studenti, si sposta verso sinistra. Un po’ troppo per il «Gazzettino», che gli fa capire che non è più il benvenuto. Così lascia il giornalismo, e inizia a fare «i mille lavori che si fanno, che si potevano fare allora, perché bastava mettere fuori il dito e si trovava». Fa il portiere d’albergo di notte, il facchino ai piani, poi il supplente annuale di educazione fisica. Ma sono tutti lavori temporanei, fatti per tirare avanti, scelti perché meno impegnativi di altri, perché gli lasciano il tempo di fare altro. Nel frattempo, incontra Laura, e riprende gli studi.
A Laura, Camillo riconosce un ruolo fondamentale nella sua vita. È Laura, con il suo senso pratico, a rimetterlo in carreggiata, a «tiragli le orecchie» bonariamente (anche durante l’intervista, quando Camillo inizia a divagare, Laura interviene: «lei ti aveva chiesto come hai cominciato la tua storia, stai parlando d’altro»). È sempre Laura che lo spinge a trovare un lavoro più stabile, che lo induce ad accettare un impiego come istitutore nel convitto nazionale Marco Foscarini, dove scoprirà la sua passione per la storia locale, e quando inizia a scrivere libri è ancora Laura che gli fa da editor, che lo aiuta a superare le impasse, che gli corregge le bozze e gli dà un primo parere sul libro:
Nei libri è fondamentale perché quando facevo qualche libro a un certo punto io andavo in tilt, non sapevo più come proseguire, allora interviene lei che mi dice anche da un punto di vista, proprio come editor è il caso di dirlo, nel senso che non solo mi corregge le bozze, perché l’italiano non lo conosco molto bene, traduco sempre in contemporanea dal dialetto all’italiano, ma guarda il complesso del libro e dice: “no, guarda che è meglio non mettere questo capitolo”, e quindi è una fortuna.
Il convitto Marco Foscarini è decisivo per l’inizio della sua passione per la storia. Camillo lo descrive come «un’esperienza terrificante»: lui, che nel frattempo si è orientato verso idee anarchiche, deve mantenere la disciplina tra i ragazzi del convitto. Rivelandosi inadatto per quel ruolo, il preside deciderà poi di spostarlo in biblioteca. L’esperienza è comunque fondamentale perché è qui che, nel 1982, conosce un laureando in storia, Mauro Pitteri, che lo avvicina alla storia locale:
E lui mi ha insegnato, mi ha detto guarda che sto facendo per conto del comune di Quinto di Treviso, sto facendo una ricerca sul Sile, pensati un po’, sul Sile […] perché, era stato commissionato in occasione della nascita di questa Oasi di Cervara […] e hanno incaricato questo professor, questo studente, giovane studente come te, Pitteri, di fare una ricerca, pagata fra l’altro, con mio sommo stupore, e ha prodotto un bellissimo libro, che si chiama Segar le acque[3], […] e io mi sono entusiasmato di sto fatto, perché? Perché io, avendo frequentato un po’ così, gli ho chiesto: “ma c’è qualcosa su Sant’Angelo?”, “Madonna, certo ghe no, in archivio, vien vien”, e sono andato a vedere, e ho trovato queste mappe antiche, figurati, e vedere scritto Sant’Angelo…
Così Camillo inizia a interessarsi di storia, si occupa della storia del suo paese, inizia a fare ricerca negli archivi e nei catasti, si avvicina a questo gruppo di storici – di cui, oltre a Pitteri, fanno parte il professor Marino Berengo, il professor Gaetano Cozzi, il professor Claudio Povolo, Gianpier Nicoletti e Francesca Meneghetti – e legge i loro lavori. È leggendo un libro del professor Povolo, riguardante l’evoluzione dell’agricoltura, che Camillo scopre la storia orale: non esistono solo le fonti archivistiche, per fare storia si possono usare anche le interviste, «e io ho sempre avuto la passione, perché avendo fatto il giornalista, insomma mi piaceva parlare con la gente […]. Prima cosa che ho fatto sono andato a sentire i vecchi contadini».
Giornalismo, storia del proprio paese e agricoltura: la storia orale mette insieme le principali passioni di Camillo. Nel 1984, a 37 anni, inizia a fare le sue prime interviste, e le organizza in un libro sulla vita dei contadini a Sant’Angelo. Inizialmente vuole intitolarlo I contadini di Sant’Angelo, facendo un evidente riferimento a «Les Annales»[4], ma poi cambia il titolo in Drio el Sil, in base a considerazioni di carattere più pratico: da poco in pensione, nelle sue intenzioni il libro dovrebbe servire anche ad arrotondare, oltre che a soddisfare la sua personale sete di conoscenza, e Drio el Sil è un titolo più accattivante per il potenziale pubblico dei suoi concittadini.
Poco tempo dopo viene indetto un concorso di storia locale a San Donà di Piave[5]. Il premio è di cinque milioni di lire. Camillo partecipa e, con sua sorpresa, vince. Il suo libro acquista così una certa visibilità, che d’altro canto lo espone anche a critiche. Camillo ricorda, con un po’ di rammarico, il giudizio di uno storico “militante”, Livio Vanzetto, secondo il quale l’opera sarebbe stata funzionale al potere dell’epoca, la Democrazia Cristiana[6]:
Cosa che era quanto più lontano da me, può darsi che inconsapevolmente io avessi fatto, insomma io avevo fatto del mio meglio, purtroppo non avevo una visione complessiva delle cose, è quello che mi manca infatti, non ho studiato i sacri testi, e lo dico non con orgoglio.
Come riconosce che gli mancano le basi per considerarsi un vero contadino, così sostiene che gli manchino le nozioni basilari per potersi considerare un vero storico. Camillo si è avvicinato tardi alla storia, non ha letto i libri fondamentali, non padroneggia completamente gli strumenti, non ha una visione d’insieme, neanche oggi, perché nonostante abbia i «sacri testi» sulla libreria, non li ha ancora letti. Questa reticenza a inscriversi in un ruolo definito è una costante che attraversa tutta la sua narrazione: non è stato uno studente modello, ma non dice che, infine, è riuscito a prendere il diploma magistrale (vengo a saperlo grazie a un intervento di Laura); non si considera un “vero” storico, ma i suoi libri vengono citati, viene contattato da laureandi in cerca di informazioni, e i suoi lavori più recenti sono stati pubblicati dall’Istresco. Questo trovarsi a metà tra due culture, senza sentirsi completamente parte di nessuna delle due, sembra riconducibile a una frattura tra la cultura ufficiale, appresa durante gli studi, e l’ambiente di provenienza di Camillo, una situazione piuttosto comune fra quelli della sua generazione, e che spesso si risolve nello studio del proprio ambiente[7].
Con il premio del concorso Camillo si improvvisa editore e pubblica il suo libro. Ne risulta un libro semplice, accattivante, in brossura e carta riciclata. Bisogna però anche venderlo, e così Camillo prende il tavolino in formica della moglie e si mette in Calmaggiore, nel centro di Treviso. Il libro si vende bene, tanto che dall’8 dicembre a Natale del 1986 Camillo esaurisce tutte e mille le copie stampate, e con i soldi guadagnati lui e Laura comprano casa. A quel primo libro ne seguiranno altri, frutto di ricerche su temi sempre cari a Camillo: ancora un libro, più approfondito, sul Sile, e poi il radicchio di Treviso, la Prima guerra mondiale, i partigiani.
Buone pratiche, strumenti e procedure
Camillo Pavan è una persona al passo con i tempi. Nonostante dica di essere negato con la tecnologia e ripeta più volte di usarla solo perché obbligato, ne fa ampio uso: non solo usa un registratore digitale e trascrive al computer, ma è anche molto presente sul web. Mi mostra il registratore con cui ha cominciato a fare le interviste e che l’ha accompagnato per venticinque anni: un registratore a cassette Sony, avvolto nello scotch da un lato per non premere inavvertitamente il pulsante sbagliato. Inizialmente, mi racconta, erano cassette da mezz’ora, comode soprattutto per la trascrizione, ma a volte troppo corte, ragion per cui passa alle cassette da un’ora:
Un’ora ti trovi bene insomma, però io di solito facevo un quarto d’ora, mezz’ora, 20 minuti, dipende dal signore, perché erano tutte persone anziane, non è che tutti avessero voglia di parlare, insomma, dovevi tirargliele fuori dalla lingua, certi, “no no, mi no parlo, sior cossa diseo, cossa…”
La trascrizione invece inizialmente avveniva a macchina, ma già nell’estate del 1986 Camillo compra un Macintosh. Tuttavia, abituarsi al computer è difficile, e la qualità della stampa è pessima (mi mostra una trascrizione a stento leggibile), per cui non passa subito e definitivamente alla scrittura a computer, ma continua a battere a macchina una parte delle interviste. L’ultimo strumento da lui utilizzato è Internet: è uno dei primi a crearsi un sito web (già nel 2000), un blog (tuttora in funzione), a sperimentare il commercio online, a digitalizzare i suoi libri, per diffondere il suo lavoro e farsi conoscere. «Andavo a vendere in piazza, a maggior ragione venderò in questa piazza, no?», mi dice.
Così Camillo prende il suo registratore, monta in bicicletta e percorre la restèra (la strada d’alzaia), battendo a tappeto il Sile, per trovare i suoi testimoni: ferma la gente per strada, suona i campanelli, confronta quel che ha appreso dagli archivi con le testimonianze orali. Li intervista dove li trova, lì sul campo, mentre lavorano, con a fianco il cane che abbaia. Se hanno fiducia e lo invitano in casa, gli chiede di poter fare una fotografia e si fa mostrare foto, vecchi documenti personali, luoghi cari:
Tutto materiale prezioso che completa e che rende unica l’esperienza dell’intervista e rende unica e affascinante la storia orale. Con l’intervista noi andiamo a scavare anziché nelle montagne di vecchie carte d’archivio, nella vita vissuta delle persone (nella loro carne, “nel loro sangue”… siamo insaziabili).
Non tutti hanno voglia di parlare, sono persone anziane, a volte bisogna tiragli fuori le parole di bocca: «parlavo in dialetto, […] così ti sentono al loro livello, io penso sia quello che mi apriva tante porte», comunque da nessuno riceve mai un rifiuto. Non ha mai chiesto il consenso alla registrazione, all’uso e alla pubblicazione della stessa, né lo fa ora, nonostante lo ritenga giusto e si renda conto che oggi, con Internet, i rischi sono maggiori che un tempo. Poi però ammette di chiederlo in certi casi, se si tratta di argomenti delicati, a voce o magari tramite email, così da averne traccia scritta, ma preferisce comunque non far compilare moduli. Non gli è mai capitato di avere problemi con gli intervistati da questo punto di vista. Invece, gli è capitato di avere problemi con una sua intervista, andata in onda nella televisione locale «Antenna Tre», che aveva reso disponibile online, poiché l’intervistatore gli ha espressamente chiesto di rimuoverla.
Trascrive anche in dialetto, poi nelle pubblicazioni a seguito del dialetto mette la traduzione in italiano. Trascrivendo si appunta tutti i dubbi e poi torna dall’intervistato per chiarirli: «eh ritornavo da loro, adesso ci sono i telefoni o le email, ma allora bisognava andare, andavo bene perché era del paese». Non fa mai una trascrizione letterale dell’intervista, che considera troppo dispendiosa in termini di tempo. Preferisce l’indicizzazione, per poter poi individuare agevolmente il punto della registrazione che gli serve.
È interessante come questo modo di lavorare Camillo non l’abbia appreso da altri storici orali, ma l’abbia elaborato da sé, un po’ partendo dall’esperienza del giornalismo, un po’ prendendo spunto da lavori di storia locale: «non c’erano metodologie, io sono sempre andato a occhio, a naso».
L’eredità materiale
Nel 2010, a 63 anni, Camillo ha un incidente: nell’intento di raccogliere delle ciliegie, cade da un albero, «ma non è tanto l’andar a prendere ciliegie, è che avevo la testa in altre parti, è quello che mi rovina». E solo grazie al tempestivo intervento di un vicino di casa che si salva. Sopravvive per miracolo, ha quarantadue punti in testa ed è costretto a portare il busto per tre mesi. È dopo questa esperienza che nasce in lui l’esigenza di salvaguardare e archiviare il materiale raccolto fino ad allora:
Si dà il caso che mio padre sia morto più o meno alla mia età quindi, io tocco sempre ferro, sono convinto di vivere cento anni, e vivo, lavoro come vivessi cento anni, mi comporto, però, tengo anche presente quella possibilità, per quello che faccio un largo uso di Internet, tutte le mie ricerche, le mie interviste, le metto su Internet, perché è comunque un deposito.
Circa un anno dopo la caduta, Camillo compra un convertitore e converte in file mp3 tutte le registrazioni che ha in cassetta, si procura un registratore digitale per non avere più supporti analogici, mette le trascrizioni delle interviste fatte sul suo sito e, quando chiude il sito, sul suo blog. Apre anche un canale YouTube, dove inizia a mettere le registrazioni. Il suo progetto sarebbe di dividere le interviste in spezzoni, per creare delle playlist di “pezzi” di interviste per argomento (per esempio tutti gli audio sulla legatura del radicchio, tutti quelli sulla macinazione a pietra, ecc.), in modo da renderle più accattivanti per chi ascolta. Ha dato del materiale anche alla S.m.s. Ernesto de Martino di Venezia, ma non gli piace come viene archiviato, perché poco fruibile a un pubblico che non sia del mestiere:
Hanno scritto nel loro bollettino e anche risulta nel loro archivio che c’è il fondo Camillo Pavan, sì, e uno chi se ne frega che ci sia il fondo, “cosa contiene?” “contiene interviste sul lavoro lungo il fiume, la maggior parte dedicate ai barcari” eh si, ma dentro cosa c’è? Capisci che se uno non è proprio un maniaco della storia locale deve andare a Venezia, si fa mostrare, si fa sentire con le cuffie, deve star lì. No, non va così, tu devi mettere in Internet oggi, abbiamo questo enorme mezzo, […] e quindi bisogna metterla, diffonderla, io la vedo così insomma, da ex venditore in piazza.
Mette anche in ordine le sue memorie, consegnando alla biblioteca di Treviso i suoi diari di campo. E così passa tre anni a digitalizzare, rendere disponibile online più materiale possibile, a organizzare le sue memorie. Poi si riprende del tutto, torna la voglia di scrivere, e quindi interrompe quest’opera di digitalizzazione per intraprendere altri progetti:
Ma è dal 2013 che sono fermo, però vorrei farli tutti così, di tutte queste voci, però mettere anche tutti i materiali che avevo raccolto insieme alle interviste, perché ho fotografie ormai scomparse, non le trovi più ste robe […]. In mente era questo, di fare tutto, uno l’altro st’altro, pum pam pam, ma bisogna aver tempo e non aver altro in mente, mentre adesso ho in mente di fare questa storia di partigiani.
Camillo Pavan dal punto di vista della conservazione è quindi un’eccezione: anche se non ha completato la sua opera di messa in rete del materiale raccolto, si è comunque assicurato non solo che questo venga conservato, ma che resti anche fruibile al pubblico.
Verso la fine del nostro incontro Camillo mi mostra il suo studio, zeppo di libri e materiali vari come ogni studio che si rispetti, mi mostra com’è organizzato il suo archivio online e mi fa ascoltare qualche spezzone di intervista. Poi arriva il momento di salutarsi, e mi rivolge quello che mi è sembrato una sorta di incoraggiamento a me e a tutti gli studenti che si avvicinano alla storia orale:
È una soddisfazione per una persona essere intervistata, in linea di massima, io penso, lo storico, cioè il ricercatore orale dovrebbe convincersi e superare… io vedo che poi sono contenti insomma, mi ricordo che vedevo che erano contenti, anch’io sono contento di aver parlato.
NOTE
[1] Intervista di Federica Martinato a Camillo Pavan, Treviso, 26 aprile 2019; e-mail di Camillo Pavan a Federica Martinato, 5 maggio 2019; e-mail di Camillo Pavan a Federica Martinato, 7 maggio 2019. La registrazione dell’intervista e le e-mail citate sono conservate presso l’autrice.
[2] Francesca Cavazzana Romanelli, Lionello Puppi, Storia locale e storia regionale: il caso veneto. Atti del convegno di studi, Treviso, 12 marzo 1994, Vicenza, Neri Pozza, 1995.
[3] Mauro Pitteri, Segar le acque. Quinto e Santa Cristina al Tiveron – Storia e cultura di due villaggi ai bordi del Sile, Quinto di Treviso (TV), Comune di Quinto di Treviso, 1984.
[4] Camillo si riferisce probabilmente a: Emmanuel Le Roy Ladurie, Les Paysans de Languedoc, Paris, Imprimerie nationale, 1966, apparso in italiano come I contadini di Linguadoca, Bari, Laterza, 1970 (con traduzione di Silvia Brilli Cattarini, a partire dall’edizione ridotta Paris, Editions Flammarion, 1969).
[5] Prima edizione del Premio nazionale dei giovani sulle culture locali, San Donà di Piave, 1986.
[6] Livio Vanzetto, Intellettuali di Paese Drio el Sil e dintorni, «Venetica», n. 6 (1986), 152-160. Vanzetto riconosce che l’organizzazione del libro come raccolta di interviste lo rende accessibile a un ampio pubblico, e che Pavan ha proposto una ricostruzione realistica, che non cade nel nostalgico. Tuttavia, critica la metodologia (di Drio el Sil come di altre pubblicazioni simili), sostenendo che il rischio insito nella stessa è che, mimetizzandosi dietro i suoi personaggi, l’autore ne riproponga acriticamente e astoricamente valori e ideologie.
[7] Ibid.