di Gabriele Ivo Moscaritolo
Per scrivere questa recensione ho ripreso a leggere il libro L’Aquila oltre i sigilli. Il terremoto tra ricostruzione e memoria nel bel mezzo di una eccezionale emergenza mondiale della quale non ancora si conoscono confini spaziali e temporali. Lo dico subito, non è stata una lettura semplice. Scorrendo le vicende e le riflessioni scaturite dal 6 aprile 2009 inevitabilmente si sovrappongono immagini ed esperienze personali di questi giorni e uno sguardo lucido e attento è più difficile da tenere. Certo un terremoto e una pandemia sono due fenomeni con origini totalmente diverse eppure, dal punto di vista delle scienze sociali, sono accomunati da alcuni tratti rintracciabili nelle varie definizioni del termine “disastro”: perdite umane, situazioni di stress collettivo, impedimento di tutte o alcune funzioni essenziali della società, sconvolgimento delle attività quotidiane, impatto differenziato su gruppi e segmenti diversi della società ecc [1]. Non è certo questa la sede per tentare una concettualizzazione di questi fenomeni ma è giusto sottolineare come oggi, nella cosiddetta “emergenza coronavirus”, ci troviamo di fronte ad una sospensione dell’ordinarietà riscontrabile nel contesto dei disastri e ciò può aver sicuramente influenzato la scrittura di queste righe. Dal punto di vista della storia orale poi, possiamo facilmente immaginare le conseguenze su corsi individuali e collettivi che questo momento avrà. Sono già molti in Italia e nel mondo i tentativi di raccolta di testimonianze e percezioni relative a questo periodo e, come nel caso di un terremoto, molto probabilmente assisteremo ad una ristrutturazione dell’esperienza individuale e collettiva, ad un prima e un dopo. Ma per questo è necessario attendere un po’ di tempo, che i contorni di questa emergenza si definiscano meglio, che si possa riflettere con un minimo di distacco e lucidità, che l’esperienza possa sedimentarsi nelle memorie e nei vissuti.
Credo opportuno inoltre dichiarare un ulteriore elemento di coinvolgimento personale che sicuramente avrà influenzato le mie parole. Il testo qui presentato è il frutto di un lungo percorso di studi del quale ho conosciuto da vicino molte tappe. Con l’autrice ho infatti fatto parte dello stesso dottorato di ricerca: mentre lei studiava il sisma dell’Aquila, io mi dedicavo al terremoto della Campania e della Basilicata del 1980 e insieme abbiamo condiviso esperienze formative, letture, dubbi, momenti difficili e soddisfazioni. Come studioso appartenente ad una stessa “scuola” avverto una profonda sintonia riguardo approcci, riflessioni e punti di vista. Sono questi aspetti che non possono essere celati e che, uniti alla sincera amicizia personale, sono sicuramente rintracciabili fra queste righe.
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Il terremoto di magnitudo 6.3 che la notte del 6 aprile 2009 ha colpito la città dell’Aquila costituisce un evento di notevole rilevanza nella recente storia italiana. Si è trattato infatti di un sisma che ha interessato una città con una popolazione di diverse decine di migliaia di abitanti (l’esperienza analoga precedente è la catastrofe di Messina del 1908) e l’inagibilità delle costruzioni ha provocato uno dei più imponenti trasferimenti di popolazione dal secondo dopoguerra. Il terremoto è stato inoltre il primo disastro italiano dell’«era di internet» a ricevere una copertura mediatica 24 ore su 24 e infine, nella gestione dell’emergenza, marginale è stato il ruolo delle comunità locali poiché l’approccio adottato da parte delle autorità è stato, in contrasto con le esperienze precedenti, di tipo top-down. Di fronte a queste dinamiche e improvvise trasformazioni, nelle scienze sociali italiane si è assistito ad un vero e proprio tsunami di discorsi e la produzione scientifica sul tema si è sostanzialmente allineata con il trend internazionale di crescita.
È in questa nuova ondata di studi sui disastri che si colloca il testo di Sara Zizzari – L’Aquila oltre i sigilli. Il terremoto tra ricostruzione e memoria (Milano, Franco Angeli 2019) – che trova spazio sul sito dell’Associazione Italiana Storia Orale per il particolare approccio alla tematica che si concentra sulla dimensione della memoria attraverso un ampio ricorso alle testimonianze orali.
Come l’autrice dichiara già dalle prime pagine, il primo obiettivo del lavoro, che fa da cornice al secondo, è quello di esplorare le trasformazioni sociali, spaziali e culturali della città a seguito del sisma. Il secondo intento è invece quello indagare le rappresentazioni soggettive della catastrofe e dei mutamenti generatisi successivamente, portando alla luce le plurime memorie che emergono dalle testimonianze «avanzando il tentativo di ricomporre il ventaglio delle percezioni, come in una sorta di sceneggiatura in cui ogni attore entra ed esce dal palco recitando un ruolo ben preciso» (p. 13). Fra questi due obiettivi, che corrispondono a due diversi sguardi sulla città e sul post-sisma, Sara Zizzari riesce a muoversi con grande disinvoltura accompagnandoci in un’affascinante esplorazione dei mutamenti che possono innescarsi a seguito di un terremoto distruttivo.
Scorrendo l’intensa ma agile lettura ci si muove fra un livello macro (la dimensione urbana) e uno micro (il rapporto degli abitanti con lo spazio vissuto e la dimensione domestica) e contemporaneamente fra un prima e un dopo, due temporalità diverse fra le quali il sisma fa da confine, ma è anche unico momento di congiunzione che può dare senso e spiegare entrambe. Molto utile per orientarsi fra queste coordinate si rivela il «percorso della memoria» adoperato dall’autrice: «un modello spazio-temporale che assume l’evento shock come break-point, che definisce un “prima” e un “dopo” rispetto ai quali si orienta l’intera narrazione» (p. 12). In base a questa schematizzazione ritroviamo una memoria lunga del passato (che rimanda a tempi e luoghi mitizzati dal ricordo), l’attimo interminabile della scossa (in cui sono particolarmente vivide le immagini della catastrofe), una fase breve (che corrisponde alla primissima emergenza) e una fase corta (relativa ad uno stato di emergenza prolungato che dura fino alla messa in opera dei primi interventi di ricostruzione). L’utilizzo di questo schema ci aiuta a comprendere come la struttura del racconto biografico raramente corrisponda alla ricostruzione storica degli avvenimenti o alle rappresentazioni mediatiche e dunque in che modo l’esperienza individuale subisca una forte ristrutturazione a seguito di un evento traumatico.
Attraverso i brani delle testimonianze scopriamo dunque come nella memoria del periodo precedente il sisma la città venga mitizzata e descritta come sicura, tranquilla e vivibile in totale contrapposizione con la situazione attuale. Ma questa polarizzazione del ricordo non sembra riguardare la dimensione domestica rispetto alla quale «gli intervistati fanno riferimenti sfuggenti sul rapporto con gli spazi […], ci si sofferma prevalentemente invece sui ricordi al momento del disastro. […] L’oblio manifesto è l’unica strategia per far pace con il presente» (p.76). È proprio sulla dimensione domestica che si concentra il racconto dell’«attimo interminabile». La scossa, giungendo nel cuore della notte, sorprende quasi tutti nelle proprie abitazioni e dai racconti emerge una vera e propria personificazione del disastro: sono gli oggetti, la loro disposizione e il loro movimento, a significare il dramma. Il terremoto si sente (i rumori dei crolli) e si vede (gli oggetti che si spostano). Qui ritroviamo molti racconti drammatici, immagini delle sensazioni provate, ma anche le reazioni immediate di chi cerca di prestare aiuto ritrovandosi nel doppio ruolo di vittima e soccorritore. Con la lenta presa di coscienza della catastrofe si avviano le altre due fasi, «breve» e «corta», che corrispondono alle fasi dei soccorsi e dell’assistenza alla popolazione. L’intervento della Protezione Civile e dei vigili del fuoco nel 2009 è stato particolarmente immediato ed efficiente ma al conforto provato inizialmente da parte dei terremotati fa da contraltare la sensazione di un’invasione da parte di estranei, di una città militarizzata e di una dispersione di cittadini e commercianti al di fuori del nucleo urbano. È a partire da questi momenti che si avvia l’odissea di molti sfollati attraverso tende, alberghi e successivamente il progetto C.A.S.E. Quest’ultimo, il complesso dei nuovi quartieri destinati ad un utilizzo durevole, viene realizzato a chilometri di distanza dal centro abitato e i cittadini dispersi su di una vastissima area. Il progetto C.A.S.E. non si trasforma così in uno «spazio praticato» (p. 98), i «quartieri dormitorio» amplificano la sensazione di disorientamento post-sisma e difficile è l’adattamento a questa nuova realtà. L’attenzione alla dimensione domestica chiarisce bene questa sensazione di disagio attraverso la resistenza alla personalizzazione degli spazi, il rapporto con gli oggetti che consentono di recuperare stabilità del sé nel tempo, la difficile convivenza in spazi ristretti, lo sconvolgimento dei ruoli famigliari consolidati da anni. Le preziose e profonde testimonianze raccolte dall’autrice ci rivelano come la ricostruzione e la ripresa post-sisma non corrispondano affatto ad un oggetto (un tetto, una casa) ma vadano considerate come un processo, una serie di risposte a dei bisogni che si presentano gradualmente.
Un’ultima tappa che Sara Zizzari aggiunge a questo percorso riguarda l’attenzione a quanti sono riusciti dopo anni a rientrare nelle proprie abitazioni. Si tratta di un passaggio per certi versi riconciliante ma non privo di criticità: «si possiede la casa ma non la vita precedente […] una casa restituita è una casa ricostruita o riparata, […] ma tutto intorno il silenzio, il vuoto, la paura, la solitudine, la dimenticanza. Tutte sensazioni e stati d’animo che emergono tra coloro che sono rientrati nella propria casa» (pp. 101-103). La sensazione di disorientamento verrà rielaborata, ma non cancellata e sono i racconti a far emergere la complessità del rapporto che le persone intrattengono con lo spazio vissuto, una relazione che una catastrofe naturale e gli interventi di ricostruzione mettono a nudo e che la memoria ci aiuta ad indagare.
Un ulteriore aspetto evidenziato nel testo è quello relativo alle rappresentazioni dell’evento e dell’emergenza. Nel caso dell’Aquila infatti si è trattato del primo sisma italiano a ricevere una copertura mediatica praticamente totale che, come sottolinea l’autrice, ha visto fronteggiarsi due posizioni principali: quella istituzionale (riprodotta dai vecchi media, rassicurante e tesa al consenso politico) e una dal basso, formatisi attraverso i social network in cui emergevano aspetti critici dell’emergenza (una città transennata e presidiata dai militari, modalità di costruzione discutibili, centinaia di cittadini ancora sfollati). Questa contrapposizione rende bene l’idea del ruolo della comunicazione nei confusi contesti post-disastro tuttavia, nel caso della diffusione e moltiplicazione dei punti di vista attraverso il web, è spesso possibile parlare di una sorta di effetto Rashomon[2] in cui la verità, almeno inizialmente, è difficile da stabilire. Un ultimo aspetto importante ad emergere – e che mette in luce l’attualissima problematica del complesso rapporto fra scienza e popolazione – è la condizione di dissonanza cognitiva sperimentata da buona parte degli abitanti la sera del 5 aprile. Com’è noto infatti la forte scossa della notte fu preceduta da uno sciame sismico che aveva allertato gli abitanti ma al quale la Commissione Grandi Rischi non aveva dato molta importanza confermando l’assenza di un pericolo. Così, quella sera, di fronte alle informazioni discordanti (la “parola di scienza” da un lato e il sapere derivante dalla cultura sismica del luogo dall’altro) in molti hanno provato sensazioni di disorientamento e incertezza. A parti invertite, è questa una situazione analoga a quella verificatasi nelle prime fasi dell’emergenza “Covid-19” dove di fronte agli appelli degli scienziati in favore di una drastica diminuzione dei contatti sociali, in molti, almeno inizialmente, hanno conservato le quotidiane abitudini in assenza di un pericolo visibile e tangibile.
Il libro L’Aquila oltre i sigilli, frutto di una ricerca della durata complessiva di circa cinque anni, costituisce sicuramente un riuscitissimo tentativo di applicare l’approccio qualitativo delle testimonianze orali allo studio di una catastrofe naturale e dunque al complesso rapporto uomo-ambiente. Particolarmente illuminanti sono le riflessioni espresse nella Nota metodologica dalle quali affiora la sensibilità antropologica dell’autrice: l’osservazione sul campo, la costruzione della rete dei testimoni e la conduzione delle interviste che «hanno seguito una struttura ricorrente, che si sviluppava in maniera naturale, quindi mai stabilita dal principio» (p. 17). Con grande delicatezza viene descritto il rapporto con i testimoni durante le interviste:
Ogni intervistato, pur cominciando il racconto ostentando grande lucidità e sicurezza nel riuscire a mantenere un certo distacco emotivo, giungeva ad un punto, il momento della narrazione dei secondi della scossa, in cui si interrompeva come ad avere un nodo in gola. In base al tipo di persona che avevo di fronte tentavo di comprendere quale fosse la modalità meno invadente per gestire quell’attimo, in cui il testimone si raccoglieva nei ricordi più dolorosi. In taluni casi spegnevo spontaneamente il registratore, in altri chiedevo all’intervistato se lo ritenesse opportuno. Per lo più rimanevo in silenzio dando il tempo all’interlocutore di riprendere la propria narrazione. Qualcuno si riempiva un bicchiere d’acqua, qualcuno provava a scusarsi con grande disagio «e comunque come vedi la partecipazione è tanta ancora, scusa!» altri nascondevano il proprio volto con le mani. Tuttavia da quel momento in avanti lo stato d’animo della narrazione subiva un cambiamento, veniva interrotto in virtù della frattura temporale dando vita così a «due differenti ritmi del raccontare, due espressività interiori profondamente diverse»[3]. Gli intervistati a questo punto mostravano apertamente la loro vulnerabilità. Come fa notare De Certeau questi racconti non esprimono delle pratiche, sono già delle pratiche; non dicono esattamente ciò che fanno, sono il gesto che significano (pp. 17-18)
Uno studio che senza dubbio occupa uno spazio di notevole importanza sia nell’ambito della ricerca sui disastri e sia negli studi che ricorrono alle interviste come fonte privilegiata. Condotto con grande passione e dedizione ci rivela come i racconti, la dimensione soggettiva e la memoria si rivelino indispensabili per una profonda comprensione di eventi che interessano ciclicamente la nostra storia.
Sul rapporto fra memoria, catastrofi e trauma si consiglia la lettura di Gabriella Gribaudi, La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi nel Novecento, Viella, Roma 2020.
Le immagini che seguono sono state gentilmente concesse dall’autrice
NOTE
[1] Mi riferisco ad alcune definizioni del concetto di “disastro” ormai divenute classiche nella letteratura scientifica internazionale. Ad esempio Charles E. Fritz, Disaster, in Robert K. Merton e Robert A. Nisbet (a cura di), Contemporary Social Problems, Harcourt, Brace, and World, New York 1961, pp. 651-694; Allen H. Barton, Communities in Disaster. A Sociological Analysis of Collective Stress Situations, Anchor, Doubleday, Garden City, New York 1970; Enrico L. Quarantelli (a cura di), What is a Disaster? Perspectives on the Question, Routledge, London-New York 1998.
[2] Il riferimento è al film del 1950 di Akira Kurosawa in cui l’uccisione di un samurai viene raccontata da quattro testimoni attraverso altrettante versioni contrastanti e alla fine non è ben chiaro quale sia la verità
[3] Giovanni Starace, Il racconto della vita. Psicoanalisi e autobiografia, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 63.