Il docufilm SanPa sta facendo discutere anche dentro AISO. Un nostro socio ci ha segnalato questa recensione che discute i vincoli e i limiti di un prodotto cinematografico basato su interviste. Invece Enrico Ruffino, socio AISO e dottorando in Scienze Politiche presso l’università di Roma III, ci propone questo suo articolo, che è un piccolo saggio sulla memoria.
di Enrico Ruffino
La docu-serie prodotta da Netflix sulla storia della comunità di recupero di San Patrignano ha riacceso un infuocato dibattito su vicende e personaggi – quella di San Patrignano e della figura del suo fondatore, Vincenzo Muccioli – sopiti nella memoria pubblica e quindi sconosciuti alle generazioni successive alla fine degli anni Settanta e degli inizi degli Ottanta1. A vedere le reazioni a «SanPa» – questo è il titolo del prodotto divulgativo – non può infatti che ritornare in mente il tapis roulant della memoria, metafora con cui Mario Isnenghi, introducendo i Luoghi della memoria, intese spiegare il funzionamento circolare delle memorie nello spazio pubblico:
«Avete presente – una volta si chiamava tapis roulant – il nastro trasportatore dei bagagli all’aeroporto? Mi figuro il viaggio delle memorie molto simile a quello. Proprio come valigie e borse, le memorie di un popolo vengono caricate dagli addetti, messe in movimento e poi spariscono per tunnel misteriosi, ricompaiono, compiono tratti diritti, traiettorie e curve visibili o segrete…»2.
A tal proposito, mi pare emblematica la prima pagina del quotidiano «Il Foglio» dell’11 gennaio 2021, riguardo la riemersione nel discorso pubblico italiano della figura di Vincenzo Muccioli e della vicenda di San Patrignano. In essa, infatti, si titolava, in riferimento alla figura del commissario straordinario all’emergenza Covid Domenico Arcuri: «il Muccioli della pandemia»3. Al di là della metafora e del giudizio di valore attribuito al personaggio, è interessante notare che questa intestazione a prima pagina avveniva solo dieci giorni dopo la pubblicazione della docu-serie e nel bel mezzo di un profluvio di dichiarazioni (anche politiche) e scontri molto accesi sulla vicenda e sul personaggio4. Semioticamente parlando, la prima pagina di un quotidiano serve a catturare l’attenzione del lettore e i titolisti sono istruiti a sintetizzare temi, problemi e formule espressive dominanti nel discorso pubblico per rendere più efficace (e quindi più vendibile) il prodotto informativo. In altre parole, venti giorni prima il titolo del quotidiano sarebbe risultato inefficace mentre, in quel momento, risultava dirompente: la figura di Muccioli, infatti, era stata reimmessa e risignificata nel discorso pubblico dagli «addetti ai lavori» dopo che, da molto tempo, si era dileguata sul tapis roulant. Questo articolo non intende riflettere sulla docu-serie in sé ma proprio su questa ricomparsa, tentando di compiere un esercizio interpretativo su ciò che essa rivela. Lo proverò a fare a partire da un’esperienza di intervista, e dagli eventi successivi ad essa, svolta a Roma nel novembre 2018 ad un ex militante di Autonomia operaia organizzata.
Un’intervista comune, una microstoria della memoria.
Nel novembre 2018 ero da pochi mesi laureato magistrale in storia. Forte dei temi, dei problemi e delle incompletezze della mia tesi di laurea mi ero messo alla ricerca di ex militanti di Autonomia Operaia, l’organizzazione rivoluzionaria nata dalla frattura politica di Potere Operaio e dominante nelle vicende politico-giudiziarie della fine degli anni Settanta. Parlando con un’amica intima venni a sapere che i genitori avevano frequentato molti ex militanti di AO e che con uno di questi erano ancora in ottimi rapporti di amicizia. Chiesi di poter avere un contatto per intervistarlo. Incontrai Memmo5 pochi giorni dopo: invitò me e la mia amica a casa sua e, alla presenza anche della moglie, svolgemmo l’intervista. Fu un momento piacevole che terminò con un invito in pizzeria dove aveva già dato appuntamento ad alcuni amici. Come spesso accade nelle interviste, il rapporto che s’instaura durante l’intervista ha immediate ripercussioni nei momenti successivi ad essa. Quando ci trovammo in pizzeria, Memmo, sciolto dal vincolo del registratore, cominciò a raccontare una cascata di aneddoti relativi alla militanza: picchetti, occupazioni, manifestazioni ma anche relazioni intime e drammatiche coi «compagni». Tutte cose che, davanti al microfono, non aveva raccontato. Lo rividi settimane dopo, a casa dei genitori della mia amica. Parlammo di altre questioni relative alla sua esperienza militante. In quel momento, i genitori della mia amica si inserirono in un discorso che, evidentemente, sentivano loro. Il padre, Gianni, figlio di un tecnico chimico e di una casalinga, aveva conosciuto Memmo, figlio di un tappezziere e di una casalinga, da ragazzino, a Ciampino, dove entrambi erano cresciuti. La madre, invece, Anna, figlia di un funzionario statale e di una casalinga, lo aveva conosciuto quando aveva iniziato a frequentare il futuro marito intorno ai 22/23 anni. Mi accorsi di essermi trovato intorno ad una conversazione generazionale: Memmo è nato nel 1952. I genitori della mia amica nel 1957 e nel 1959. Interessante notare come la narrazione sui primi anni Settanta aveva degli immaginari diversi e non convergenti a seconda di chi prendeva la parola: Memmo e Gianni parlavano di una Ciampino pasoliniana, in fermento, tutta fatta di personaggi del sottoproletariato urbano con soprannomi e storie degne di Ragazzi di vita6. Anna, invece, parlava di figli di avvocati di fede fascista che imperversavano nei quartieri della borghesia capitolina. Le narrazioni, poi, andavano invece a convergere sulla fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, quando le loro storie di vita s’incrociarono. Fu in quella convergenza narrativa che finirono per parlare di droga e tossicodipendenze. Il tono della conversazione cambiò repentinamente registro. Non fui solo io a rimanere impietrito dai racconti ma anche e soprattutto la mia amica che, per la prima volta in vita sua, aveva appreso della tossicodipendenza di persone che sin da piccola aveva visto entrare ed uscire da casa. Spesso mi capita di incontrare Memmo a casa di Anna e Gianni: ogni volta i racconti aumentano, soprattutto sul versante della «droga» e delle tossicodipendenze. Mi è capitato spesso di riflettere sul motivo per cui in 26 anni di vita la mia amica non avesse mai saputo di queste circostanze e soprattutto sulla motivazione per cui questo circuito della memoria fosse stato riattivato a seguito della mia intervista. Credo che la risposta stia in un privilegio della storia orale: questo tipo di pratica storiografica permette non solo di costruirsi la fonte ma anche di poter osservare empiricamente il grande e complesso lavorio della memoria sociale. Usare, sì, la fonte, ma osservando quello che succede dopo che essa è stata costruita. Quando andammo a cena dopo l’intervista, Memmo più volte raccontò i suoi aneddoti di militanza rivolgendosi al sottoscritto e spesso concluse le sue frasi rimarcando la mia affidabilità: «Oh, guarda che lui è uno che pensa co’ la testa sua, n’è uno che giudica ma che cerca de capì!». Non solo ero interessato alla sua vita ma cercavo dunque di capirla e non di giudicarla7. In questo modo ero diventato uno di quegli addetti al nastro trasportatore di cui aveva parlato Mario Isnenghi, riattivando in piccola scala un circuito memoriale e avendo il privilegio di esserne anche osservatore. Da questo osservatorio particolare mi sono infatti reso conto che la tematica delle tossicodipendenze durante gli anni Settanta e Ottanta è un punto delicato della memoria su quegli anni. Così delicato da esserne troppo spesso taciuto e riattivato solo se sollecitato. Nel paragrafo successivo cercherò di ragionare, senza pretesa di esaustività, sulle origini di questa memoria dormiente.
La costruzione sociale della figura del «drogato»
In un volume uscito nel 2018, la storica Vanessa Roghi ha scelto di ragionare in termini di storia culturale sul consumo e sulle tossicodipendenze da eroina a partire da una esperienza biografica: la vicenda della tossicodipendenza del padre e il suo arresto per spaccio nel 19878. In questo denso saggio, strutturalmente simile ad Autoritratto di gruppo di Luisa Passerini9, la storica grossetana amplia l’indagine di quello che era stato un suo iniziale articolo sul sito «minima&moralia». In questo articolo, raccontando il percorso che l’aveva spinta ad occuparsi di eroina, Roghi scrive:
«Quando le cose accadono a me io non so come raccontarle. Per questo faccio la storica, racconto le cose che accadono agli altri, eppure questa di mio padre voglio raccontarla, così inizio a parlarne con gli altri, ma solo all’università, quando mi sento ormai protetta dalla distanza, ne parlo e ne parlo, e una giovane storica senza immaginazione si domanda se sono matta ad andare a dire in giro che mio padre si è fatto eroina»10.
Più avanti, la storica riporta un altro episodio emblematico. Decisa ad affrontare la vicenda e convinta di trovare un interlocutore disponibile al dialogo, Roghi decide di contattare Nanni Balestrini, il quale però glissa sull’argomento e la congeda con una promessa: «risentiamoci magari mi viene in mente qualcosa e le dico». «Trent’anni per pensarci», commenta ironicamente la studiosa11. Questi due episodi mi sembrano esemplificativi di due questioni portanti che sottendono la memoria sulle tossicodipendenze: la costruzione sociale della figura del «drogato» e il trauma che la questione ha prodotto nelle generazioni della contestazione. Mi muovo per ordine. Se infatti la «giovane storica senza immaginazione» ritiene che solamente parlare dell’esperienza della tossicodipendenza del padre significhi danneggiare in primis se stessi, lo fa in virtù dell’immagine sociale che si è costruita attorno la figura del tossicodipendente. Nel 1976, lo psichiatra Giovanni Jervis parlava, dalle pagine dei «Quaderni Piacentini», di una «ideologia della droga» che è «stabilita, diffusa, resa egemonica da chi non ha mai introdotto nel proprio organismo «droghe» né leggere né pesanti (a parte le droghe lecite come l’alcool) e non sa neppure bene cosa siano» e che «ha creato e diffuso del «drogato» un’immagine particolare» che «s’identifica con quella del capellone pittoresco, squattrinato e vagabondo». Una ideologia per cui, quindi, il concetto di droga non «è affatto riconducibile a un insieme di sostanze chimiche: è piuttosto un virus, una infezione contagiosa. Anzi, più che questo, uno stato di possessione»12. Questo articolo nasceva a commento polemico della legge antidroga promulgata negli ultimi mesi dell’anno 197513 e definita dallo psichiatra «mistificante e contradittoria, assolutamente non liberale» e «specificatamente psichiatrizzante»14. Egli, inoltre, polemizzava con il collega Franco Basaglia definendo la linea di insieme della sua argomentazione in materia «del tutto inaccettabile» in quanto «egli parla sempre de la «droga» e del «drogato» in generale, prendendo per buoni questi termini: respinge in modo liquidatorio la separazione fra «droghe pesanti» e «droghe leggere» e soprattutto perché egli «non spende una parola per entrare nel merito della nuova legge, né per criticare la sua impostazione, e meno che mai per criticare la «cura» coatta dei «drogati» che essa prevede»15. Al di là di alcuni suoi accenti ideologici, l’argomentazione di Jervis mi pare molto importante per il tentativo di entrare nel vivo della costruzione di figure e temi sociali emergenti16: un tentativo che, inoltre, sembra spiegare ante litteram i successi mediatici di San Patrignano e soprattutto la stessa figura di Vincenzo Muccioli. Per Jervis, infatti, è stata imposta «un’immagine del tossicomane come di un soggetto che va difeso contro se stesso: ed è inevitabile qui il disprezzo (appena nascosto da uno strato di bontà cristiana, appena laicizzata) per chi, a differenza di colui che esprime il giudizio, non si è saputo gestire e ora è vittima di un destino maligno» per cui «non c’è salvezza senza pentimento, ravvedimento, adesione ai valori dominanti, e riconoscenza; non c’è redenzione senza itinerario pedagogico che la prepari; la cura richiede che il malato s’infantilizzi, e il curante spanda su di lui (ed esibisca ai quattro punti cardinali) il suo impegno vocazionale – e la sua abnegazione – di liberatore»17. Non c’è solo Vincenzo Muccioli in questa definizione ma qualcosa di più fondante: una cultura sociale che produce uno stigma. Vengo qui al secondo punto, quello relativo al rapporto tra generazioni della contestazione e sostanze stupefacenti.
Una semantica intergenerazionale.
Nel 1975, Marco Lombardo Radice pubblicò su «Ombre Rosse» un articolo intitolato I giovani e la droga. Prendendo atto che «ormai militanti e dirigenti delle organizzazioni rivoluzionarie […] sono convinti di guardare più a fondo nel misterioso problema della droga», egli intendeva portare un contributo a questa cogente tematica di movimento18. Psichiatra anche lui e in procinto di pubblicare lo “scandaloso” romanzo Porci con le ali con Lidia Ravera19, l’intellettuale, a differenza del collega Jervis, non intendeva analizzare le ideologie e le costruzioni sociali che sottostavano al discorso sulla «droga» ma intendeva «tracciare la storia di tutti quei giovani – e sono tanti – per cui l’uso della droga, e soprattutto il mondo che ad esso si crea, costituisce un momento centrale dell’esistenza, una ricerca e una speranza di capire i perché e il senso di quella scelta e della sconfitta irrevocabile che per molti prima o poi deriva»20. In altre parole, se Jervis intendeva analizzare la «ideologia della droga», Lombardo Radice voleva soffermarsi sull’«ideologia dei gruppi dei drogati»21. Si capisce bene che un simile intento sarebbe entrato in conflitto con quello che Jervis avrebbe criticato l’anno successivo. Lombardo Radice applicava lo stesso modello generalizzante che Jervis imputava agli ideologhi della droga, facendo un uso sconsiderato dei termini «droga» e «drogato». Pertanto, l’«ideologia dei drogati» finiva per entrare nella semantica dell’«ideologia della droga». Ciò si vede bene, ad esempio, nella spiegazione che egli dà dell’ideologia dei drogati: secondo lo psichiatra essa era infatti ascrivibile, in sostanza, ad un rifiuto totale dell’esistente che rendeva evidente il «bisogno di comunismo» da parte di questi giovani ma finiva per essere funzionale ad un progetto di perfezionamento del sistema capitalistico attraverso cui «con la tossicomania il nostro sistema sociale ha raggiunto e superato i migliori prodotti della tecnologia odierna: i suoi pezzi sbagliati, quelli che non potrebbero cooperare e anzi sarebbero fonte di problemi, si autodistruggono e scompaiono dalla scena, senza che esso debba sprecare con loro le sue forze, i suoi poliziotti, i suoi tribunali»22. Pertanto, il «drogato» diventava un soggetto autodistruttivo, un marginalizzato dalla riorganizzazione del Capitale su scala mondiale, un soggetto spinto fuori dal mondo sociale. Credo però che questa poca consapevolezza intellettuale derivi anche da uno shock generazionale. Lombardo Radice apparteneva ad una generazione di militanti cresciuti nella consapevolezza dei «tempi della politica», una concezione della politica, cioè, orientata ad una programmazione a lungo termine dell’azione rivoluzionaria, cosciente della “tattica” indotta e modificata dall’osservazione dei mutamenti sociali (quella che in gergo militante veniva chiamata «composizione di classe»). A partire dal 1975, l’ingresso di una nuova generazione della contestazione – quella dei nati alla fine degli anni Cinquanta – finisce per ribaltare questa concezione. L’identità sociale di questa nuova generazione militante si sviluppava dall’accrescersi della disoccupazione, dalla prospettiva, dunque, di un futuro non pensabile e in cui la politica diventava una sorta di pratica dell’imminenza23. Mentre altri intellettuali di quella generazione sembravano cavalcare avanguardisticamente questo bisogno, uno degli intellettuali-militanti più lucidi, Sergio Bologna, registrava – a partire dal disastro di Seveso – proprio un mutamento del rapporto coi tempi della politica per cui «la crescita di lunga durata, traguardo e serie di traguardi, lascia il posto a una nozione del tempo che è accumulo di morte e rende più disperato e violento il bisogno di comunismo, di felicità, qui e subito, oggi»24. La centralità della “nuova gioventù” era dominante nei dibattiti della nuova sinistra in quegli anni. Basti pensare, ad esempio, che l’articolo da cui è tratta la precedente citazione nasceva proprio dal tentativo di entrare nella testa di un giovane militante. Vi erano infatti discussioni incentrate proprio sulla nuova composizione di classe nata da queste “nuove” soggettività militanti: l’operaio sociale – categoria analitica con cui si constatava la piena socializzazione della produzione – nasceva anche da questa osservazione empirica, come da questa osservazione nascevano numerosi articoli nelle riviste della nuova sinistra. «Ombre Rosse» sembra essere stata la rivista su cui maggiormente questo sguardo sul mondo giovanile si posizionò25 ma, generalmente, si potrebbe affermare che questa attenzione fu tanto una necessità politica quanto uno shock generazionale creato proprio dall’accelerazione dell’agire politico: le generazioni precedenti misero in moto strumenti interpretativi, cercarono di dare spiegazioni, non nascosero il loro stupore dinanzi a queste nuove soggettività dimostrando la distanza generazionale che li separava dalla nuova generazione. Ma il trauma maggiore sembrò essere dato proprio dal potenziale distruttivo che queste nuove soggettività portarono in sé: se da un lato lo spirito imminente dell’azione politica aveva portato le formazioni armate ad ingrossare il proprio bacino di reclutamento, dall’altro aveva favorito la diffusione dell’eroina come strumento di alienazione, per «liberarsi dalla realtà»26. Chi era cresciuto nei miti, nelle speranze, nelle gioie della politica e nei grandi sistemi di pensiero politico del ‘68, finì per percepire questo periodo come un dramma che non era ascrivibile al solo fattore giovanile, ai crolli psichici e alla stagione giudiziaria ma anche e soprattutto al crollo delle «grandi narrazioni ideologiche»27. Ciò rappresentò, insieme ad altri fattori, la grande crisi della nuova sinistra della fine degli anni Settanta, ma credo anche il motivo per cui l’eroina rappresenta un tabù anche per quelle generazioni di militanti che pure non ne fecero uso. Ciò, oltre a spiegare l’atteggiamento di Nanni Balestrini e l’inclinazione a ridurre il consumo di eroina ad un complotto statual-capitalistico, spiega anche lo scarso successo in ambito storiografico del volume di Vanessa Roghi che è, allo stesso tempo, il motivo per cui la storiografia sul consumo di eroina negli anni Settanta e Ottanta è praticamente inesistente28: il tema dell’eroina rimanda ad una semantica intergenerazionale ascrivibile ad un trauma. A questo proposito, cerco di arrivare a delle conclusioni complessive e per niente definitive.
Conclusioni
Partendo dalla constatazione che la docu-serie ha rimesso in circolo nel discorso pubblico la figura di Vincenzo Muccioli e della comunità di recupero di San Patrignano mi sono chiesto cosa essa riveli. Ho iniziato a rifletterci da un’esperienza di intervista che mi ha permesso di constatare, in piccola scala, tanto la riattivazione di un circuito memoriale quanto una memoria taciuta sulla tematica della diffusione delle droghe pesanti durante gli anni Settanta o Ottanta. Mi sono chiesto, a questo punto, perché essa rappresentasse una sorta di tabù, tale da essere raccontata solo a chi fosse in grado di capirla. Partendo quindi dagli studi e dall’esperienza biografica di Vanessa Roghi ho cercato di rispondere attraverso due assi principali: la costruzione sociale della figura del drogato e il rapporto generazionale che coesiste tra consumo e diffusione di droghe pesanti e i militanti della nuova sinistra durante la fine degli anni Settanta. Nel primo caso, ho notato – attraverso lo studio di Giovanni Jervis – che durante gli anni Settanta e gli anni Ottanta si è imposta un’immagine della «droga» e del «drogato» che ha prodotto uno stigma sociale. Ragion per cui il testimone parla di quel periodo storico con cautela e, molto spesso, omettendolo dalla narrazione. Nel secondo, invece, ho osservato come la tematica rimandi in realtà ad una semantica precisa, quella intergenerazionale, riconducibile ad un periodo traumatico della loro storia e sfoci, molto spesso, o in un meccanismo di difesa che presuppone un grande sistema atto a distruggere le potenzialità dei movimenti politici, sociali e di classe o un silenzio che nasconde un trauma profondo. Un trauma che mi sembra ben visibile nella carenza di studi in materia da parte di chi, anche da militante, ha vissuto quella stagione. Mi sembra quindi che uno studio sulla memoria di questa complessa vicenda dell’Italia repubblicana debba tenere conto di questi elementi basilari, nel tentativo di decostruire anche quella che è stata la vicenda di San Patrignano e del successo mediatico del suo fondatore. Una vicenda che rimanda, tra le altre cose, ad una riflessione sul significato di “potere” e alla sua dimensione comunicativa29: senza una costruzione sociale della figura del «drogato» e del concetto generale di «droga», dubito che sarebbe potuta esistere la figura di Vincenzo Muccioli e della condivisione in larghissima scala dei suoi metodi e approcci nei confronti della tossicomania. Nel corso degli anni, infatti, Muccioli è diventato un personaggio potentissimo. Pressato dalla magistratura ma corteggiato dalla politica, appoggiato da una famiglia di petrolieri, apprezzato per il 92% dall’opinione pubblica, quasi ideatore di una legge sulle tossicodipendenze, è riuscito ad imporre nella memoria del Paese la sua figura lasciando in secondo piano una storia, quella delle altre comunità terapeutiche, ricca di spunti e suggestioni sociali. Era scomparsa da un po’, questa figura. Ma è bastato un documentario per riaccenderla.
Note