Report della 3ª Scuola di Storia Orale nel paesaggio del Dragone | Montefiorino 29-30 agosto 2020
di Antonio Canovi, Chiara Paris, Rossella Roncati, Andrea Tessitore, Giulia Zitelli Conti
Pubblichiamo la prima parte di un report collettivo frutto della terza Scuola di Storia orale nel paesaggio del Dragone. Per costruirlo ci si è avvalsi di una ricca ed eterogenea documentazione prodotta dai partecipanti, la cui autorialità è stata indicata nelle didascalie o nelle note. Si ringraziano in particolare Roberta Biasillo, Davide Costoli, Roberto Labanti, Rino Montanari e Antonella Zecchini che hanno messo a disposizione del gruppo video, fotografie e registrazioni audio.
Accoglienza nella valle del Dragone
Vitriola, frazione di Montefiorino, ci accoglie in una giornata uggiosa di fine agosto. È il terzo appuntamento annuale di AISO su questo versante dell’Appennino modenese (per approfondire vedi qui l’edizione del 2018 e qui un report collettivo dell’edizione 2019). A ospitare l’eterogeneo gruppo di partecipanti – donne e uomini di diverse età, con professionalità, bagagli culturali e interessi che spaziano dalla storia all’antropologia, dalla geografia alla didattica – è il movimento de l’Erbalonga, un “progetto conviviale per la conoscenza del paesaggio attraverso il cammino lento tra storia, geografia e memoria della terra”1.
La Scuola, dedicata al tema della cura culturale del paesaggio, è stata organizzata dall’Associazione Italiana di Storia Orale in collaborazione con Trame 2.0 e Eutopia Ri-Generazioni Territoriali, con il patrocinio di Comune di Montefiorino, Res-Rete Economia Solidale, AIAB-Associazione Italiana Agricoltura Biologica, Slow food Modena, ANPI Modena, ARCI Modena e il contributo di Torte Gualmini, Macelleria e Gastronomia Le Boucher, Azienda Agricola Fontana Marco, Caseificio Sociale Rio San Michele, La Sorgente-Fabbriche del Benessere.
A introdurci alla cura culturale del paesaggio è Antonio Canovi, geostorico e socio AISO, che ha ideato la proposta formativa assieme ad Antonella Zecchini, promotrice del movimento de l’Erbalonga2.
Antonio Canovi, La cura culturale e l’orma interpretabile, 30_08_2020
Relazioni culturali, appaesamento/spaesamento, interpretazioni e memorie della terra: questi alcuni dei concetti che incontreremo nelle due giornate della Scuola, rapportandoci con testimoni e mediatori e facendo esperienza di cammino nel paesaggio.
La cura culturale e l’orma interpretabile, Video di Davide Costoli
Geostoria e narrazioni del paesaggio della Valle
Il percorso da Modena verso l’Appennino si mostra da subito ricco di suggestioni riguardo quanto emergerà dalle narrazioni successivamente trattate: possiamo notare, forse per la loro estraneità rispetto all’ambiente circostante, vari edifici industriali, diversi dei quali in stato di abbandono. Tratto d’unione con il distretto delle ceramiche di Sassuolo che la nostra strada ha attraversato, gli stabilimenti non hanno apparentemente “attecchito” presso l’ambiente montano. È un primo indizio di quella ingenuità e poca lungimiranza che, ci verrà raccontato, l’amministrazione avrebbe riservato al territorio, il quale si dimostra refrattario ad adeguarsi alle nuove funzioni che la modernità avrebbe relegato all’ambiente montano, nel tentativo di renderlo nuovamente vivo e fervente.
Siamo alloggiati in un ostello recentemente rimodernato, prossimo a una pieve che è un piccolo gioiello romanico. Gli ampi spazi della residenza e le sue eccellenti condizioni cozzano con l’evidente spopolamento del casolare; un alloggio perfetto per una meta che, per lo meno di fronte ai circuiti del turismo, è di fatto inesistente. Dopo il breve spostamento sino al borgo di Vitriola, dove ha inizio la nostra visita, e l’accoglienza presso i partner de l’Erbalonga, arriva il momento di percorrere le strade dell’abitato e raccogliere le prime interviste.
Vitriola nelle voci dei suoi abitanti: intervista a Giuseppe Umberto Perini e Annamaria Tonelli
Se la pioggia battente ci ha permesso un apprezzamento solo parziale degli esempi architettonici osservabili tra le vie del borgo, tra cui si distinguono per imponenza le case-forti/torri-casa risalenti al XII-XIII secolo, non frena invece l’entusiasmo di Giuseppe Umberto Perini3 nel trasmetterci la sua appassionata opera nel descrivere e tramandare le tradizioni e le bellezze della valle.
Spunto e pretesto per la sua narrazione è una scultura in pietra arenaria del Dragone che campeggia sullo spiazzo in cui ci siamo riuniti. Il nostro testimone, originario del borgo di Savoniero, prossimo a Vitriola, ci presenta l’opera che avrebbe redatto riguardo l’autore di essa, il picchiarino-scultore Gaudenzio Geminiano Sassatelli, nato a propria volta a Savoniero nel 1863 e venuto a mancare prima della metà del XX secolo. Attraverso il racconto inerente l’artista-artigiano emergono e vengono rinnovate le memorie delle attività e degli usi della valle, venutisi a perdere col trascorrere del tempo.
Perini apre la trattazione raccontandoci del toponimo del centro abitato, derivante apparentemente dalle acque vitree del fiume; poi accenna alla storia del luogo, nelle alterne vicende che lo hanno visto, nel corso del medioevo, prima opporsi a Modena sotto l’autorità dell’abbazia di Frassinoro, e poi sottomettersi a quel Comune al volgere dell’epoca, per sfuggire alla signoria dei Montecuccoli. Questi si erano insediati a Montefiorino già nel XII secolo, ove avevano edificato la rocca. La digressione sull’importanza, ricchezza agricola e forza del luogo in epoca medievale e la passione di Giovanni Umberto per la storia culturale ed artistica della Valle, lo portano a lanciare un ammonimento verso il rischio di una dolorosa perdita della memoria dei luoghi.
Intervista a Giuseppe Umberto, estratto n.1, 29_08_20204
Intervista a Giuseppe Umberto, estratto n.2, 29_08_20205
Prosegue poi la descrizione dell’opera di Gaudenzio, che da spaccapietre si fece scultore, autodidatta, ispirato dai fregi medievali presenti sulle strutture e le pievi della Valle. Non è solo il Medioevo ad emergere, ma anche spaccati delle attività e usi degli abitanti del monte durante la prima metà del secolo scorso. La Valle è descritta come una “terra di emigrazione” che scopriamo essere particolarmente legata alla Corsica, luogo d’approdo per i braccianti della zona, a causa di un tragico incidente, avvenuto nel 1927, in cui morirono 12 boscaioli nativi di Piandelagotti, frazione di Frassinoro.
La digressione finale sulla necessità di restauro presentata dalle opere dell’artista induce l’oratore ad amare riflessioni inerenti l’interesse dei valligiani per la tutela del loro patrimonio monumentale e immateriale, su cui incentra la sua produzione scrittoria; vi è tuttavia un’apertura speranzosa nel momento in cui viene affermato come le proprie opere abbiano suscitato interesse a Modena, segno che forse dal capoluogo si levino sguardi meno indifferenti di quanto gli abitanti della valle credano verso i territori del monte.
Invitato a scendere nel dettaglio sulle tradizioni cui viene fatto riferimento, Giovanni incomincia da una delle più note e diffuse in tali zone.
Intervista a Giovanni Umberto, estratto n.3, 29_08_20206
Chiude l’esperienza del pomeriggio (prima del ritorno presso l’Erbalonga dove ci aspetta un’ottima cena a base di prodotti e erbe locali) l’incontro con la signora Annamaria Tonelli, discendente di una famiglia di proprietari terrieri del luogo, che ci attende sotto la grande tettoia del podere di famiglia. Prende la questione di petto, affrontando subito alla radice le proprie preoccupazioni: “Questi paesi stanno scomparendo, la gente non fa che vendere e andarsene, e tutto muore, io faccio quel che posso ma da soli molto non si può fare”.
Intervista a Annamaria, estratto n.1, 29_08_2020
Il suo impegno per contrastare l’abbandono umano e materiale di queste aree si è concretizzato nel recupero del terreno di famiglia, per ragioni certamente nostalgiche radicate in molteplici motivazioni, che emergono lentamente nel corso della narrazione, dice: “[l’ho fatto] in memoria anche del nonno, che ci teneva al suo lambrusco. Ho detto: “Facciamo un sacrificio, rimettiamola un po’ in sesto”.
Emerge come la problematica fondamentale legata al recupero e alla rinascita del territorio non possa ricondursi unicamente alla diretta responsabilità di chi lo abita o delle amministrazioni pubbliche: è conseguenza di un processo più lungo e articolato, un segno del cambiamento dei tempi, cui è più difficile infatti trovare diretto rimedio:
intervista a Annamaria, estratto n.2, 29_08_20207
Il tema dell’amore per la terra e delle necessarie fatiche a esso contestuali ricorre nella narrazione di Annamaria tornando l’indomani nelle interviste di altri testimoni, sorta di inevitabile sentire comune attorno a questo tema. L’altra problematica che viene esplicitata, nelle parole di Annamaria e della figlia, è la difficoltà presente di rapportarsi con mondi e realtà che all’apparenza risulterebbero permeate di passato a livello intrinseco, difficilmente amalgamabili con il vivere odierno:
intervista a Annamaria, estratto n.3, 29_08_20208
Si interseca così il tema degli impedimenti burocratici con quello di un amore per la terra che non è il trasporto emotivo degli hippy e della new age verso gli spazi verdi e la natura, ma l’amore per la terra coltivata, sapientemente ammaestrata. È una tensione che non si esaurisce nella contemplazione estetica e atemporale, come immobile, di un paesaggio, ma che si tinge invece del desiderio di vedere un ambiente tornare a essere pulsante e vivo. C’è, in fondo, la consapevolezza che non dimentica e anzi non può prescindere dalla consapevolezza che ciò che nell’ambiente della montagna è venuto a perdersi è soprattutto il vivere umano ivi esistente, il tessuto sociale fremente, a posteriori dei profondi mutamenti economico e sociali innescati dal Boom economico. [Nel corso del secolo passato], l’esistere e l’abitare sembrerebbero aver alienato certi modi di vivere e certe pratiche, desuete, a fronte dell’affermarsi di una nuova quotidianità.
intervista a Annamaria, estratto n.4, 29_08_20209
Le voci raccolte durante la Scuola ci descrivono un paesaggio specifico e le sue trasformazioni, ma sono anche, e forse prima di tutto, storie di vita. A questo punto dell’incontro, la narrazione si sposta inevitabilmente alla dimensione personale che i ricordi di una terra e una temporalità diversa, chiusa nel passato, hanno evocato.
intervista a Annamaria, estratto n.5, 29_08_202010
Ci parla di un mondo che forse si reggeva anche su diseguaglianze che la società succedutagli non ha più voluto accettare; al contempo sembra suggerire come i moderni mezzi tecnologici possano in parte riempire il vuoto di quanto in passato era possibile attraverso più o meno riconosciute forme di sfruttamento. La narrazione si sposta poi sulle vicende prossime al suo esistere nell’infanzia, alla radice della conformazione attuale della proprietà:
intervista a Annamaria, estratto n.6, 29_08_202011
La narrazione si sposta poi sulla guerra.
intervista a Annamaria, estratto n.7, 29_08_202012
Spopolamento, agricoltura, guerra, ma anche emigrazione. Annamaria ci racconta infatti del suo “attraversamento del Po”, paragonando la vita torinese alle radici montane:
intervista a Annamaria, estratto n.8, 29_08_2020. mp313
Reduci della reclusione subita per ragioni di prevenzione contro lo spandersi della pandemia, è inevitabile ritrovarsi e condividere riflessioni di questo genere, segno forse che i rapporti tra il vivere cittadino e quello in campagna sono ad oggi tutt’altro che fossilizzati e anzi passibili di futuri cambiamenti.
Una ciclovia nella valle del Dragone per pedalare sentieri storici
Prima che la giornata si concludesse con la cena conviviale, abbiamo incontrato Enrico Panini – architetto che si occupa dello sviluppo delle vie ciclabili in chiave turistica, di riqualificazione e recupero del territorio attraverso segni quali strade storiche e antichi insediamenti – invitato a presentarci un progetto di ciclovia pensato per valorizzare la valle del Dragone.
Qui la brochure completa del progetto di ciclovia: BROCHURE completamento ER13
La domanda di fondo chiamava in causa che tipo di modernità si possa progettare, oggi, per un paesaggio come quello circostante al fiume Dragone. Ci chiediamo se sia davvero arrivato il momento in cui poter immaginare una modernità sostenibile che investa sulla viabilità ciclabile: se il Novecento è stato il secolo delle automobili, possiamo auspicare che questo diventi il secolo della bicicletta?
Enrico ci ha mostrato dapprima la geografia delle piste ciclabili di grande percorrenza a partire da alcuni dei progetti di matrice europea che investono anche il territorio italiano: i tracciati della Eurovelo 7, la Eurovelo 8, la Ciclovia del Sole e la VenTo (Venezia-Torino). Poi il campo si è ristretto sul contesto appenninico.
La proposta, che interessa nello specifico il territorio della valle del Dragone, consiste in un’operazione di raccordo tra la ciclovia che corre lungo il fiume Secchia e la via ciclabile che arriva fino al Tirreno. L’obiettivo è di collegarsi alla via Francigena valorizzando strategicamente il Dragone come tratto di connessione funzionale a “scollinare” l’Appennino. Si tratta di 39 chilometri mancanti che interesserebbero proprio il territorio della valle del Dragone e che permetterebbero di dare continuità ai percorsi tra Nord e Centro Italia: passano per Palagano, Montefiorino, Frassinoro.
Ma lo spunto di maggiore interesse di questo progetto è nell’intenzione di attivare il recupero di percorsi storici di viabilità che Enrico ci ha mostrato facendo riferimento ad antiche mappe geografiche: la carta Carandini del 1821 che rappresenta la prima rappresentazione cartografica di tipo scientifico del Ducato di Modena, una carta seicentesca relativa al Ducato di Reggio, entrambe conservate presso l’Archivio di Stato di Modena).
Le vie storiche in oggetto sono:
– Sulla direttrice Modena-S.Pellegrino, alta sul crinale e tangente ad est la Valle del Dragone: la Via Vandelli. Una strada oggi praticamente dimenticata, progettata tra il 1740-1750 dall’abate ingegnere e topografo Domenico Vandelli al servizio del duca Francesco III d’Este, come conseguenza dell’unione delle casate che governavano i ducati di Modena e Reggio, di qua dell’Appennino, e, aldilà, il Ducato di Massa .
– Sulla direttrice da Rubbiano a S. Pellegrino, alta sul crinale che funge da confine ad ovest della Valle del Dragone: la Via Bibulca. Una strada molto antica che nel ‘700 prende il nome di via Ducale e che sovrasta l’andamento del fiume incrociando gli abitati di Montefiorino e Frasssinoro.
– Sulla direttrice fluviale da Monte Stefano a Riccovolto, passando per Vitriola che fungeva da storico “granaio”: la Via del Mercato di Sassatella. Una via di fondovalle, utilizzata per lo più a scopi commerciali, costellata di mulini e molto usata dagli abitanti dei paesi limitrofi.
Il valore aggiunto, come ben illuminato dalla presentazione di Enrico, sta proprio in questa operazione di recupero e nella valorizzazione di un patrimonio esistente, non più utilizzato e che di conseguenza rischia di essere del tutto rimosso dalla memoria di questi luoghi e dai possibili sviluppi che qui si potranno sperimentare.
È con uno sguardo al futuro che abbiamo concluso questa “esplorazione” accompagnati da Enrico: ipotizzando altri scenari di evoluzione a partire dal tratto di raccordo ciclabile. Il recupero di parti di patrimonio incontra così una nuova intraprendenza e ci lascia immaginare delle ricadute positive in termini di turismo sostenibile sui borghi e sulle frazioni toccati da questa realizzazione: luoghi di accoglienza per i turisti, itinerari di promozione e progetti di ospitalità diffusa, forme nuove e imprevedibili di vitalità.
Geoesplorazione tra le valli Dolo e Dragone
Da Vitriola [Giulia]
La giornata inizia con una geoesplorazione: due gruppi si muovono partendo da Vitriola e da Rubbiano, accompagnati rispettivamente da Antonella Zecchini e Antonio Canovi e da alcuni “interpreti” del paesaggio locale. Destinazione comune il Cervecchio, dove avremo occasione di sperimentare la storia orale raccogliendo interviste in una suggestiva radura boschiva.
Il primo gruppo di “viandanti” parte da Vitriola. Questo piccolo borgo dalla storia antica si trova a poco meno di 600 metri sul livello del mare e a un paio di chilometri di cammino dal comune di Montefiorino, del quale fa parte. Ci troviamo in una valle bagnata dai torrenti Dragone – che segna il confine tra Montefiorino e Palagano – e Dolo – frontiera tra le provincie di Modena e Reggio Emilia -. Il terreno scende verso il fiume o, in diversa prospettiva di osservazione, risale in direzione degli Appennini. Si tratta di una terra fertile e ben esposta al sole: caratteristiche che, nei secoli, hanno favorito la coltura della vite.
La geoesplorazione si conforma come una ricca esperienza di cammino, osservazione e dialogo. Attraversando un paesaggio inizialmente nebbioso che pian piano si apre in un’umida ma soleggiata giornata di fine agosto, incontriamo erbe spontanee, alcune delle quali ormai ben riconosciamo, arbusti e alberi di antica memoria. Ascoltiamo Antonella, Gianni Dan e Mario Rossi raccontarci storie locali, guidandoci su un sentiero che percepiamo come vissuto. In particolare, due elementi, due manufatti umani attraggono la nostra attenzione: i muretti a secco che costeggiano la stradina e la Torre del Pignone. Quest’ultima è una casa-torre medievale, probabilmente di origine Duecentesca, che, oltre alla funzione abitativa, aveva lo scopo, come tante altre sue sorelle disseminate nella Valle, di conservare il raccolto e difenderlo da lupi e ladri.
Entriamo nel Cervecchio per primi, la distanza da percorrere era minore, attraverso un sentiero boscoso di luci e ombre che si apre su un campo umido, ma soleggiato: il palcoscenico delle nostre interviste che contribuiremo a rendere ancora più fiorito di quanto già appare ai nostri occhi.
Da Rubbiano [Antonio]
Rubbiano la riconosci per la Pieve di matrice romanica, il primo avamposto storico della Chiesa in queste contrade d’Appennino. La Pieve, almeno fino a quando la demografia non ha franato a valle, fungeva da baricentro e piazza di un classico insediamento “diffuso” in queste montagne. Oggi, nonostante lo spopolamento, attorno alla Pieve continua a mobilitarsi un discreto numero di volontari: per garantirne le aperture festive, accompagnare visitatori, curare la raccolta-museo a carattere etnografico organizzata dentro la vecchia canonica, offrire ospitalità presso l’ostello realizzato in una bella casa in sasso che è sempre parte del patrimonio parrocchiale. L’ottimo rapporto qualità-prezzo, va detto, ha consentito in quest’anno funestato dal Covid 19 di progettare con relativa tranquillità la III edizione della Scuola.
Quella di concentrare (in camere opportunamente distanziate) il grosso degli iscritti presso l’ostello è stata una scelta derivata dalla decisione di predisporre una “geoesplorazione a crocevia” mirata sul vecchio campo del Cervecchio, oggi il geo-agro-laboratorio de il movimento de L’Erbalonga. Da Vitriola (sede de l’Erbalonga) sarebbero arrivati portando i rifornimenti, per vie storiche e da alcuni già camminate nell’edizione precedente della Scuola. Da Rubbiano, che sta più distante, dovevamo procedere per cammini oggi poco adusi, finanche nell’ultimo tratto “battendo” una via riaperta per l’occasione con l’ausilio del volontariato GEM (Gruppo Escursionisti Montefiorino). In buona sostanza, a quanti hanno scelto di partire da Rubbiano abbiamo proposto di compiere un cammino con spiccata valenza di geoesplorazione camminata in una successione di paesaggi: quello sacro della Pieve, cui siamo stati introdotti da Matteo Munari con grandissima cortesia e generosità; quello addomesticato del Lago Alberto, un piccolo invaso artificiale creato negli anni del turismo su quattro ruote “fuori porta”; quello agreste del bosco con il suo habitat di erbe spontanee.
Il cammino è stato accompagnato da Francesca Bagatti, erborista, educatrice, nativa di Rubbiano. La pioggia estiva a scrosci ha fatto sorridere l’allegra brigata, chiacchierona e molto curiosa di tutto, ma una volta addentratici nel bosco oscuro ci ha fatto temere per la realizzazione della seduta di interviste “en plein air”. Poi è successo come nelle favole: ancora sgocciolanti per la pioggia, nell’istante in cui ci siamo affacciati al Cervecchio, il campo ci ha accolto nel chiarore soffuso delle goccioline trapuntate dal sole. Le voci dell’altro gruppo si sono levate in saluto, sono apparsi i volti ancora da conoscere dei testimoni da intervistare, è spuntato qualche guizzo bambino (ci sono sempre bambine e bambini, al Cervecchio). Lì abbiamo cominciato a osservare nel paesaggio: quello primario del bosco da tempo abbandonato, oggi un paesaggio ai più celato, ove a saperle riconoscere si manifestano rare presenze autoctone; quello secondario del campo seminato, in questo caso a fiori, per scelta insieme ecologica ed estetica de l’Erbalonga; e il paesaggio terzo, quello che non si fa classificare, spontaneo e cangiante, disordinato perché generativo. Questo terzo paesaggio si è meritato un progetto dedicato di “cura culturale” da parte de l’Erbalonga: vale qui almeno la citazione.
Tre interviste nella radura del Cervecchio [Chiara]
La passeggiata si è conclusa nella radura del Cervecchio. Ad aspettarci c’erano sei testimoni invitati a raccontare le loro storie di vita in relazione al paesaggio che ci circondava. Per ragioni di tempo non abbiamo avuto modo di svolgere le interviste con i testimoni in maniera consecutiva, ascoltandoli uno dopo l’altro. Abbiamo dunque scelto di dividerci equamente tra gli intervistati, registrando contemporaneamente le loro testimonianze per poterci scambiare, in un secondo momento, i nostri resoconti, impressioni e commenti. Seguendo una pratica già sperimentata da AISO durante la 1° Scuola di Storia Orale nel paesaggio del Prosecco superiore, abbiamo formato piccoli gruppi di intervistatori cercando di mescolare ricercatori più esperti con studiosi meno collaudati nella storia orale.
Dunque, formati tre gruppi di intervistatori e trovato un angolo di radura accogliente, abbiamo iniziato a sollecitare le loro narrazioni.
Veniva “su dai boschi” a cavallo: Intervista alla signora Ostiglia Scansassiani
L’Intervista alla signora Ostiglia, accompagnata dal marito che le sedeva accanto, inizia così:
Nora: [ci racconti] la sua storia, la sua vita, in questo posto meraviglioso.
Intervista a Ostiglia, estratto n.1, 30_08_202014
Il tema dello spopolamento di questi territori dell’Appennino modenese fa il suo ingresso nella narrazione già dai suoi primi passi. Si impone nell’ordine delle rilevanze di Ostiglia. Il racconto condensa in sé una serie di temi di assoluta rilevanza mentre si svolge linearmente, in ordine cronologico, attraverso le varie tappe esistenziali del percorso di Ostiglia. Sappiamo che la sua famiglia ebbe in gestione un mulino per vent’anni – dal 1950 al 1970 – e che lei in quel periodo viveva ben integrata in un sistema familiare improntato all’autosussistenza, prestando lavori di scarico e consegna di cereali e farina. Le immagini dell’infanzia che Ostiglia evoca in occasione del nostro incontro la raffigurano felice e spensierata, in un rapporto armonico con il contesto naturale tutto attorno. Nel corso dell’intervista la sua figura di giovane ragazza viene ricordata da Antonella che, presente nel nostro cerchio di intervista, interviene a descrivere l’anomalia positiva di cui si faceva portatrice quando con i pantaloni e una treccia lunghissima “faceva un’entrata emozionante” venendo “su dai boschi”, a cavallo.
Così ci racconta qualcosa della sua infanzia in relazione all’ambiente circostante:
Intervista a Ostiglia, estratto n. 2, 30_08_202015
Lo spopolamento dell’Appennino si riverbera anche nel piccolo della sua storia familiare. Lei, ultima di sette sorelle e sei fratelli, racconta la disgregazione del nucleo: dalla partenza del fratello più grande, andato a lavorare in una miniera in Belgio, alle successive partenze di tre delle sorelle, dirette tutte verso Milano. Lei stessa, dopo essersi sposata a 22 anni, si trasferì con il marito a Fiorano per lavorare nel settore della ceramica.
Il tema della disgregazione sociale si traduce poi, nel corso della narrazione, in alcune immagini caratterizzare dal senso di abbandono quando Ostiglia ci racconta la fine della stagione del mulino, che va a rappresentare un cambio di paradigma generale: da una società improntata all’autoconsumo, in cui le tecniche di agricoltura erano meno invasive e meglio integrate alla “naturalezza” dello spazio selvatico, ad una realtà ingigantita e accelerata dai ritmi dello sviluppo, in cui i circuiti economici di piccola scala iniziavano a non garantire più delle possibilità di esistenza dignitose.
Intervista a Ostiglia, estratto n. 3, 30_08_202016
Ma il rapporto con questo contesto di origine non si sfilaccia mai del tutto. Dopo dieci anni a Fiorano, Ostiglia e il marito tornano a vivere nei pressi di Vitriola e significativamente è in questo periodo, dopo l’esperienza del trasferimento in un ambiente urbano, che Ostiglia ci racconta di aver sviluppato una passione per lo studio delle piante spontanee. Un sapere che probabilmente aveva trovato terreno fertile in lei che era cresciuta in un contesto agricolo, montano. È Antonella a suscitare l’emersione di questo tema, riconoscendo a Ostiglia un ruolo fondamentale nel suo avvicinamento alla pratica di raccolta delle erbe spontanee.
Intervista a Ostiglia, estratto n. 4, 30_08_202017
Da qui, l’intervista va poi lentamente sfumando in una riflessione condivisa sulla possibilità che si creino dei canali di trasmissione con persone appartenenti a un’altra generazione e non necessariamente parenti tra loro. Eredità e condivisione dei saperi sono le parole chiave per descrivere il movente che porta Antonella a dedicarsi al suo territorio, attraverso una serie di iniziative promosse in seno al movimento de L’Erbalonga. Altrimenti perché farlo? Per questo motivo: portare delle persone a contatto con il paesaggio, cercare un dialogo il più immediato possibile con il territorio.
Un rapporto con il paesaggio attorno, che nell’esperienza di Ostiglia è caratterizzato significativamente anche da un senso di libertà:
Intervista a Ostiglia, estratto n. 5, 30_08_202018
(Link alla seconda parte)
Note:
Questo è un gruppo, lo dico per i nostri intervistati anzi intervistandi – non ancora intervistati -, che è arrivato – poi ognuno se ha voglia si presenta – con l’idea di fare insieme un lavoro di ascolto innanzitutto e di osservazione. Abbiamo parlato in questo caso di cure culturali del paesaggio. Quindi diciamo ascolto, con la storia orale si fa questo, è un ascolto che provoca memoria, da lì si parte, e osservazione perché ci crediamo che la storia orale provoca la memoria in luoghi e in questo caso paesaggi. E allora di nuovo torniamo su questa cosa: perché cura culturale del paesaggio? Perché come già Antonella vi ha presentato, non ha fatto altro che raccontare degli “spazi tra”, quindi delle relazioni. Questa è la differenza con altre operazioni che si possono fare che non sono cure culturali del paesaggio, ma magari sono cure agronomiche. Quindi hai un bel campo di questo tipo, tiri una bella linea precisa, poi fai un campo diverso e ne fai un altro ancora… Qui invece, come notate, ci sono delle sospensioni anche che uno può decidere come interpretare. Allora non si può fare lavoro nel paesaggio se non si fa interpretazione. E questo forse è il verbo che manca. C’è un’immagine molto bella di Emilio Sereni, torno sempre alle strutture no?, c’è un punto in cui lui dice: “che cos’è il paesaggio?” Dice è “l’orma visibile”. In realtà è l’orma interpretabile. L’orma visibile andava benissimo 60 anni fa e più avanti lo diranno altri suoi seguaci, però noi proviamo a interpretare, non abbiamo già una risposta predeterminata. È chiaro che in queste orme ci saranno delle orme che ricalcano esattamente comportamenti noti e anche animali noti – abbiamo qui chi segue le orme del lupo – […]. Però appunto poi ci sono anche orme che lasciamo in vario modo. La nostra osservazione è un passaggio: tu transiti all’interno di un paesaggio e lo modifichi. Qui, lo vedete, abbiamo un boschetto che probabilmente il contadino voleva radere al suolo perché non si capisce a cosa serva, il tema invece è che non deve per forza servire nell’immediato […]. Da qui anche tutto il lavoro, direi anche epistemologico, sul terzo paesaggio che ci permette di dare uno statuto ai luoghi transitori.
Io ho scritto due libri su questa valle e mi interesso di storia locale perché secondo me i nostri usi e costumi e le tradizioni di queste zone stanno scomparendo
Io mi domando questa gente quando si sveglierà, prima o poi, quando non avrà più niente, avrà perso tutto, le case-torri tutte crollate, la nostra cultura ibridata, sinceramente mi dispiace tantissimo.
Dovete sapere che c’erano tradizioni, come il Maggio, per esempio, di un’importanza incredibile, altro che teatrale. Il Maggio era una rappresentazione che ricorda gli avvenimenti delle crociate, della Gerusalemme Liberata, e viene espresso in una radura, con i personaggi tutti quanti vestiti con gli abiti di allora, suonando la fisarmonica, cantando le strofe rimate. Viene dalla Toscana e infatti è molto più sentito nelle zone alte della montagna, Frassinoro, Rovolo… però anche da noi veniva rappresentato, ed era una cosa molto bella… scomparsa! Poi, cerimonie religiose: dovete pensare che quando si sposava qualcuno, gli amici dello sposo andavano a casa della sposa per convincerla a donare dei soldini o delle derrate alimentari per fare poi loro baldoria dopo lo sposalizio. Partivano in processione con davanti uno che suonava la fisarmonica, e dei giullari che rallegravano la compagnia. Tradizioni di una bellezza incredibile che adesso non esistono quasi più. Poi [esistevano] le rogazioni: cerimonia religiosa, in cui ci si fermava a ogni piccola maestà – e qui ce n’erano tantissime – e si chiedeva la grazia che non venisse la tempesta, o pestilenze. Religiosità popolare che non era seconda alla religione ufficiale dei vescovi, una religiosità di una profondità incredibile. E vi racconto ancora questa: a San Pellegrino in Alpe – se voi ci andate c’è ancora – c’è una pietraia immensa, sapete perché? I pellegrini portavano in spalla a piedi, il sasso pesante quanto era grande il peccato che avevano commesso: il giro del Diavolo.
Solo che il solito problema è che qua non trovi più nessuno; le cura G. finché ce la fa, ma con 83 anni non so per quanto ce la farà; tocco ferro che possa andare avanti per degli anni, non si trova nessuno che sappia lavorare, un anno ho avuto l’idea di affidarmi a un vivaista della bassa modenese, ma quando è stata ora di tirare il vino era imbevibile; i giovani non ne han voglia perché la terra è fatica, non è che si può fare tutto a macchina, il problema è di trovare persone che lavorino e ti aiutino; persino a potare le siepi, tenere in ordine lo stradello che va giù. La questione qui è più trovare manodopera, non è solo questione di costi.
Poi certe cose van fatte in quel momento, in quei giorni lì, puoi aspettare un giorno o due, ma quando è l’ora di legare le viti o dare il verderame glielo devi dare. È più quello che si regala, non è che si faccia per venderlo, con quello che costa potrei bere champagne. Come viene viene, non ci sono aggiunte, infatti non è mai uguale tutti gli anni. Nonostante le teorie moderne le botti sono ancora in legno, i vecchi tini del nonno, abbiamo fatto il tentativo con le botti di acciaio, non bolliva, le abbiamo dovute fasciare con le coperte, non è che posso accendere la stufa in cantina, e non veniva a bollire. È stato uno di quegli anni che, per le teorie moderne, l’abbiam buttato. Bisogna farlo alla vecchia perché la maggior parte delle viti sono quelle del nonno, bisogna mantenere la lavorazione di una volta, le cose moderne le puoi fare se hai tutto pronto per la lavorazione moderna. L’anno scorso non ha reso bene, c’è stata quella grandinata, l’uva era molto piccola, abbiamo fatto 23 casse, l’anno prima ne avevamo fatte 48. Sono uve miste, l’uva lambrusco non è che ci sia. Non c’è nessuno che abbia un po’ di iniziativa: non vuoi piantare le viti? Fà qualcos’altro, non lasciare andare ‘sti terreni a boscaglia. Nessuno vuol far niente, piantate, chessò, della menta: sono terreni un po’ umidi? Fate la coltivazione della menta; e della lavanda nei terreni secchi, adesso che si torna tanto al biologico. Le cose o le tieni bene o sennò allora vendi a qualcuno che abbia la disponibilità e la passione. Sono terreni che se sono coltivati bene danno i frutti, se li curi e dai quello che ci va non è che danno niente. Vanno corretti e vanno seguiti, con niente viene niente. I giovani non si adattano, non sanno da che parte cominciare, ma non c’è nessun che si fa un corso, va a imparare, comincia con poco. Manca questo attaccamento alla terra, ritornare alle coltivazioni di un tempo, non si può star sempre in ufficio. Se penso a Vitriola di quando ero ragazza, che c’era di tutto: campi coltivati a frumento, prati, mucche, stalle, maiali. L’agricoltura di quando ero bambina, se ci penso mi viene malinconia, vedo tutta boscaglia… C’è da piangere, li fanno diventare stupidi con tutti gli adeguamenti che ci sono adesso, mani legate, burocrazia all’infinito. Se ci devo vivere, fare qualcosa in più, diventa mostruoso, bellissima idea ma ti mettono in croce sulle normative, preparazione, sterilizzazione, alla fine dici “lasciamo perdere”, lo fai per te, cose piccole. Ti dispiace vedere andar giù questi pezzi di storia, tutta la parte culturale che si potrebbe fare, ci sono talmente tante tappe bellissime da poter fare, ma se non ti danno una mano in nessun modo è difficile da fare.
L’idea di un agriturismo c’era. Sono due anni che il ristorante lì a corte ha scritto “vendesi”. Ma possibile che non ci sia nessuno che lo voglia rilevare? Giorgio, che ha il negozietto in paese, sono mesi che vuole andare in pensione ma non riescono a darlo via, e meno male che c’è lui, sennò qui se ti serve qualcosa devi andare a Montefiorino, a Ceredolo. Due anni o più che è lì, con scritto vendesi. Dispiace, diventa davvero invivibile qui, io da sola, non guidando più l’auto, qui non posso più vivere, se chiude Giorgio come faccio? La corriera passa a orari impossibili, diventa impossibile, non c’è più niente.
Avevamo la casa a Reggio Emilia, passavamo l’inverno lì per gli studi eccetera, si andava via da qui per i Morti, e come finivano le scuole a giugno si veniva qua, ricordo delle infanzie bellissime, salivo sul carro del fieno del contadino e mi sentivo una regina, coi buoi bianchi bellissimi. Ci sono dei momenti che non ritorneranno più, lo capisco, però coi mezzi moderni si potrebbe vivere bene ancora qua. Si viveva giù per le scuole, a parte la quinta elementare che avevo fatto qui, nel dopoguerra. Ci si divertiva con poco, si era più sereni forse, anche se il divertimento era saltare le siepi o i paracarri, un’altra epoca. Stare qui, se qualcuno avesse iniziative, io penso sarebbe l’unico, non avrebbe concorrenza, puoi fare i prezzi che vuoi. Abbiamo pascoli, boschi, una volta castagni, poi con la malattia dei castagni sono andati tutti. È una porzione ridimensionata della proprietà famigliare, ce n’era di più. Finché c’era stata la mezzadria si andava benissimo, fino alla quarta generazione di mezzadri con la mia famiglia si era una famiglia unica, le terre erano mantenute e coltivate, adesso è diventata boscaglia. Tacconi fa quel che può ma ne ha tantissima da lavorare, tutta Vitriola e Savoniero, ormai ce l’ha tutta lui perché ha una stalla enorme, gli serve avere del fieno. Andavamo a catechismo insieme, mi dice sempre “ricordo che l’arciprete mi tirava sempre le orecchie perché non sapevo la dottrina”, siamo venuti su insieme, lo fa per piacere, diciamo. Finché ce la facciamo, poi ci penseranno gli eredi, io ho fatto quello che potevo, ormai dovrò un po’ mollare il mestolo, largo ai giovani, basta che ne abbiano voglia. Qui, o lasciamo andare tutto alla malora, oppure bisogna… qui ragazzi, o si vende…
E’ il nonno, che era agronomo [nel corso della serata ci verranno letti dei passi della sua opera di descrizione della terra e dei suoi frutti, NdAutori], che ha un po’ comprato terreni. Chi la seguiva per tutti, si intendeva di terreni e aveva la passione, era mio nonno, seguiva i terreni degli altri fratelli, dopo che erano stati divisi. Poi a fine anno faceva il bilancio, gli altri erano professionisti e vivevano a Modena, lui viveva qui tutto l’anno, ci si scaldava con le stufe e i camini, col prete nel letto, non erano tempi facili eppure ci stava benissimo mio nonno, mia nonna un po’ meno. La mattina prendeva il suo cavallo faceva il giro dei terreni, poi prendeva la sua cipollina rossa, la mangiava col sale e un bicchiere di lambrusco e via, tutta salute, quando andava via il sole voleva andare a dormire anche se era presto, erano vite diverse. Tutti i terreni erano coltivati, a grano o a fieno o a vite, ora le viti ci sono ancora, ma solo quattro.
I tedeschi avevano requisito la casa, noi eravamo confinati nel solaio, arrivavano dopo aver razziato galline, carri e via, mia mamma doveva cucinare per tutti e suonare il pianoforte, loro a cantare. Mio nonno è morto di crepacuore, pover’uomo, perché ogni tanto prendevano mia mamma e altre due amiche di qua e le spedivano a portare i vitelli a Ceredolo, quelli che avevano rubato; mio nonno a vederlo si disperava, tre donne sole, pensate all’epoca. C’erano i tedeschi in casa, ma poi venivano i partigiani a chiedere vestiti, soldi, cibo. I tedeschi venivano coi mitra, mia mamma per dargli il tempo di scappare [ai partigiani] fingeva di essere in vestaglia, di doversi sistemare prima di aprire. Io ero l’ostaggio, se li trovavano un tedesco mi faceva fuori col mitra. Sono stati anni duri, non facili, comunque siamo qui a raccontarcela, non è poco, a me non han fatto fuori.
A Torino sono andata nel ’61, quando mi sono sposata, a 21 anni. Ho pensato bene di attraversare il Po! Ma per me la Casa con la C maiuscola è questa. Quando entro qua vedo la camera dei nonni, la mia da ragazza, non le ho mai cambiate. Io continuo a dormire nella mia camera da ragazza, non mi importa di dormire nella camera più grande, è proprio un salto indietro nel tempo, mi ricarico per affrontare il marasma della città. Torino non è più quella di una volta, c’è molta crisi anche a Torino come in tutte le città, per questo dico: tornate a vivere in campagna, che la campagna il mangiare ve lo dà. Il piacere della passeggiata non c’è più perché hai paura, non parliamo poi per gli anziani, a volte io il primo negozio che trovo se vedo qualcuno che mi segue entro: si ha paura a uscire, per carità, di gioielli non si porta più niente, e noi abbiamo casa in centro, e lì ci sono sempre o risse o cose; anche la persona più distinta, ti chiede il portafogli, non hai idea, ti si infila dietro quando prendi l’ascensore. Non è più una vita tranquilla, specialmente per me di una certa età, per uscire di sera dove vado? Tante cose sono cambiate, invece qui mi metto tranquilla, sento gli uccellini, le campane che sono le ore, nessuno ti segue, ti dà un’altra serenità. A casa non ce l’hai, la sera tiri giù la serranda, metti l’allarme. Qui, invece, “Ti ho chiamata ieri, eri sempre irraggiungibile” “Eh, si vede che non prendeva” “Lascia perdere lo chiamo poi domani”. Voi che siete giovani datevi da fare mi raccomando, non lasciate morire ‘sti paesi. È un peccato, sono paesi ancora belli, sia storicamente sia naturalisticamente, ci sono cose da vedere che meritano che siano mantenute. Un bel grattacielo moderno con le piante in verticale, sì, tanto bello, ma comunque un grattacielo con le piante in verticale, qui le piante le hai tutte attorno.
Abbiamo passato tutta l’infanzia là. Siamo andati a vivere lì che avevo 5 anni, venivamo da un paese lì di sotto e poi mio padre faceva il mugnaio in un altro mulino e dopo c’era questo mulino in vendita e allora mio padre ha pensato di comprare il mulino per conto suo, e siamo venuti ad abitare qui dal 1950. Allora c’era tanta gente, i paesi erano popolati da tantissime persone. Adesso penso anche che di là dal fiume sono quasi tutte case che adesso stanno ritornando ad abitare i nipoti… è passato un periodo che tutta la gente scappava verso la pianura, allora, da quando il lavoro era diminuito. Però adesso piano piano tanti nipoti stanno tornando a risistemare le case dei nonni e stanno tornando su. Tante sere guardo al di là dal fiume e vedo tante luci accese, e tutte case che… e guarda… là è tornato uno, là è tornato uno…
Prima ha detto che ha avuto un’infanzia bellissima…
Sì sì, siamo stati felici là giù. Perché poi c’erano altri ragazzi lì attorno e andavamo sempre nel fiume. – Mamma possiamo andare? – Aspettate un’ora! – E non facevamo mica a tempo a far passare un’ora che eravamo già nel fiume, quando eravamo piccoli [ride]. Perché la casa era proprio… il canale da là che passava sotto alla casa, sotto c’era il mulino, sopra c’era la casa che abitavamo e allora l’acqua passava sotto la casa, l’acqua era proprio vicino casa. Allora facevamo, andavamo sempre nel fiume a giocare, poi avevamo le pecore, stavamo con gli altri ragazzi, facevamo un grido e allora anche gli altri arrivavano, quelli più all’anti[ca], quelli di là dal fiume.
E avevate tanta libertà diciamo, eravate fuori, lì a giocare.
E il mulino?
Il mulino adesso è tutto malandato, ormai non ci si arriva neanche più perché poi con la neve son caduti gli alberi, sono caduti gli alberi sulla strada e non li taglia più nessuno. Ormai non ci si arriva più neanche a piedi
Quindi poi l’avete abbandonato dopo il ‘70?
Sì dopo il ‘70, dopo il ‘70, dopo che… poi era rimasto solo mio padre e mia madre. Mio padre era del 1900 e aveva settant’anni, mia madre aveva quattro anni di meno, ne aveva sessantasei. Poi la gente dopo, han’ cominciato a fare le strade, poi dopo sono arrivati i camion con i mangimi, erano poche le persone che portavano ancora il grano al mulino, proprio il grano, perché prendevano tutti i mangimi già pronti. Perché poi qui la gente coltivava, come diceva lei prima, il grano, l’orzo, tutto il miscuglio era chiamato per le bestie.
Ostiglia mi ha aiutato molto nel riconoscimento delle erbe e nella cucina. Perché io ho trovato pochissime persone qua nella nostra zona che sapevano riconoscere le erbe spontanee, veramente poche, quindi c’è proprio questo legame, insomma affettivo. A lei piacciono, mi ha fatto veramente un passaggio di conoscenza in questo senso
Adesso raccolgo solamente il tiglio la melissa, così
Ad esempio la romice io l’ho conosciuta in questo modo qua, perchè la romice non la conoscevo proprio
Raccoglievo i fiori, facevo seccare i fiori, le tisane
E com’è cominciato questo?
Perchè poi quando mi sono sposata con lui siamo andati dieci anni a Fiorano, abbiamo trovato, abbiamo comprato una casetta lì, abbiamo trovato lavoro qui e siamo venuti ad abitare qui, allora avevo più tempo quando abitavamo giù [a Fiorano], dopo mi sono più appassionata a guardare le erbe, poi ho preso un libro e ho cominciato a guardare e allora questo è questo e questo è questo e così ho imparato a conoscere tante cose
Quindi non è stata un’eredità della mamma?
La mamma anche lei conosceva tante erbe, faceva anche lei i tortelli, faceva seccare i fichi, i duròn, faceva seccare i duròn nel forno, poi li metteva in un sacchetto per quando non c’era più frutta fuori noi facevamo, poi l’appiccava in alto, noi facevamo un buco sotto il sacchetto [ride]. Un po’ alla volta… oppure metteva via le amarene con lo zucchero, metteva per le amarene c’erano delle bottiglie alte apposta con il collo grande e mettevano le amarene nella bottiglia con lo zucchero e poi le mettevano al sole e lo scuotevano ogni tanto […] solo che poi d’inverno non c’era tanta frutta e neanche tanti soldi da comprarla e allora la mamma metteva via tante cose, anche i pes, anche le pere, le mele.
E dopo lei invece ha approfondito, diciamo, si è comprata anche un libro?
E dopo ho comprato un libro e ho cominciato a studiare. Mia madre più che altro metteva la frutta così e dopo io ho cominciato anche ad appassionarmi un po’ alle erbe, ho cominciato a prendere i fiori per fare le tisane e tutte quelle cose lì.
E a Fiorano come si è sentita quando ha fatto questa piccola migrazione?
Ci sono stata però venivamo sempre su la domenica perché l’anima era rimasta qua [ride]. E allora eravamo lì, lavoravamo lì però il sabato e la domenica io venivo su, andavamo dai miei o dai suoi. Il sabato e la domenica venivamo sempre su.
E cosa le mancava di qua?
Non lo so. La libertà di dire vado fuori. E’ un altro mondo qui, un altro mondo. Su da noi, anche quando vado a Sassuolo, anche adesso dico – Qui si sta bene, c’è tutto comodo – però quando siamo qui noi, il nostro, il mio mondo è qua.
La parola libertà l’ha usata parec[chie], due, tre volte, la libertà di muoversi, la libertà di… no?
Io mi sento libera qui, se andassi a Sassuolo non avrei la libertà.