di Tommaso Rebora
Quando conobbi Jessica Matteo era il 2018 e ci trovavamo a Milano per la scuola di formazione organizzata da Aiso, “Il ’68 e la digital oral history”. In un momento di pausa tra una sessione e l’altra iniziammo a parlare delle nostre ricerche e scoprimmo di esserci laureati entrambi con una tesi di storia orale sui movimenti degli anni Settanta. Condividemmo così le nostre esperienze non solo dal punto di vista metodologico e storiografico, ma anche rispetto agli esiti a cui eravamo giunti durante la stesura dei nostri lavori. Ci accorgemmo quasi subito che entrambi avevamo percepito una distorsione nel ricordo collettivo dei nostri intervistati, che confliggeva con la memoria pubblica della “stagione dei movimenti” soprattutto quando questa toccava il nervo scoperto della violenza politica e della sua rappresentazione giornalistica e storiografica. In particolare, notavamo una certa resistenza rispetto alle narrazioni sulla strage di piazza Fontana, e al suo utilizzo relativo alla cosiddetta retorica sulla “perdita dell’innocenza” della sinistra extraparlamentare.
Quando mi è stato chiesto di recensire il libro di Jessica Matteo, Parole pubbliche e memorie private. L’antifascismo militante a Roma negli anni Settanta (Polis SA Edizioni, 2020, 218 pp.), ero quindi davvero curioso di scoprire quali fossero le conclusioni a cui era giunta nel suo lavoro. Il volume, infatti, è la riproposizione della tesi di laurea discussa nel 2013 all’Università di Roma “Sapienza”, aggiornata nella bibliografia ma rimasta sostanzialmente immutata nella struttura originaria. Come ho già accennato, l’opera si presenta come il frutto di una ricerca condotta attraverso la metodologia della storia orale, ma che allo stesso tempo dialoga a stretto contatto con le fonti scritte. Queste ultime sono rappresentate dagli articoli del giornale Lotta Continua tra il 1970 e il 1976, negli anni in cui le parole d’ordine dell’”antifascismo militante” diventavano pervasive della pratica politica della sinistra extraparlamentare. Le parole pubbliche, come ben esplicitato dal titolo del libro, sono infatti le fonti privilegiate per il primo capitolo, e servono all’autrice per delineare la grande centralità assunta in quegli anni dallo scontro tra neofascisti e antifascisti, e il conseguente clima di forte tensione che caratterizzava in particolare la città di Roma, vero e proprio campo di battaglia “conteso” nello scontro tra le due fazioni (pp. 47-56).
Roma, con la sua vasta estensione territoriale e la divisione identitaria – spesso nettissima – tra quartieri “rossi” e “neri”, è il teatro perfetto per lo scontro di strada. Si tratta di una lotta serrata che spesso si trasforma in una vera e propria disputa per il controllo del territorio e che, nel culmine dell’antifascismo militante, legittima persino la “percezione di essere in guerra” (p.118) da parte di coloro che ne prendono parte. Le emozioni, i resoconti e le narrazioni da cui Jessica Matteo trae queste riflessioni sono quelle dei suoi intervistati, di cui tredici incontrati singolarmente e altri tre in gruppo, durante un’intervista collettiva. Sono le loro memorie private a costituire il fulcro del secondo capitolo del volume, e a rappresentare la vera ossatura (nonché l’aspetto più innovativo) di tutta la ricerca.
Tutti i testimoni sono uomini, coinvolti in prima persona nelle attività antifasciste di tre diversi gruppi (Lotta continua, Potere operaio e Autonomia operaia), anche se al loro interno si distinguono due diverse generazioni: la prima, nata tra il 1943 e il 1951, all’epoca dei fatti è composta per lo più da studenti universitari e lavoratori, a loro modo già “veterani” della Nuova sinistra e facenti parte in buona parte delle strutture dirigenziali delle organizzazioni. La seconda comprende i nati tra il 1953 e il 1958, tutti studenti delle scuole superiori nei primi anni Settanta e protagonisti “in prima linea” nelle azioni antifasciste, soprattutto nelle zone di Roma nord maggiormente contese e controllate dai neofascisti. In questa divisione si nota un deciso richiamo alle “due generazioni del Sessantotto” delineate da Francesca Socrate – che fu relatrice di tesi di Jessica Matteo e oggi cura la prefazione del volume –, in particolare nel momento in cui si fa riferimento ai diversi registri del linguaggio utilizzati: il “noi” impersonale dei dirigenti politici lascia infatti posto al racconto in prima persona dei militanti “di base”, i veri protagonisti dell’antifascismo militante da un punto di vista non solo pratico ma anche emotivo.
Ed è proprio nei momenti in cui la memoria si esprime come “una forma della soggettività”, riprendendo la preziosa riflessione di Luisa Passerini, che il ricordo dei protagonisti assume una forza dirompente nella narrazione e trasforma in modi anche imprevedibili gli esiti della ricerca. L’obiettivo dell’autrice è quello di verificare se sia esistita una “specificità” (p.21) dell’antifascismo militante e delle sue conseguenze sulle storie di vita dei testimoni, al di là degli studi che lo hanno indentificato come la causa scatenante della lotta armata di fine anni Settanta e che qui vengono messi in forte discussione. Il confronto con le soggettività dei protagonisti dell’epoca si rivela fondamentale per provare a rispondere a questo interrogativo, che percorre sottotraccia tutto il libro e si esplicita soprattutto nel terzo capitolo, nel quale si assiste al confronto (e in certi caso allo scontro) tra le parole pubbliche e le memorie private. Si percepisce, nel corso della lettura, un crescente conflitto tra la rappresentazione dell’azione antifascista (quasi sempre violenta, a volte anche armata) e il percorso soggettivo degli intervistati. Questi ultimi non rinnegano mai il proprio percorso politico (pur riconoscendo la tragicità di alcuni errori, come nel caso del rogo di Primavalle) ma giungono a un’esplicitazione dei propri conflitti interiori che rappresenta, a ben vedere, il frutto più autentico di questo intenso lavoro di ricerca.
Se infatti nel primo capitolo emergono con maggiore forza le modalità di rappresentazione e di narrazione dello scontro, con il tentativo sempre più esplicito da parte di Lotta Continua di autorizzare e pubblicizzare il ricorso alla violenza politica richiamando i valori della Resistenza e ricollocandoli nei luoghi dello scontro urbano (i quartieri, le piazze, le scuole), dal secondo capitolo queste narrazioni ricadono sul vissuto diretto dei testimoni. Pagina dopo pagina, il lettore si trova sempre più coinvolto nel flusso di ricordi dei testimoni, che ripercorrono le azioni di cui si resero protagonisti ma anche i riferimenti culturali e politici che li spinsero a praticare l’antifascismo militante, raccontato a più riprese come una vera e propria necessità. In questo senso si percepisce a fondo come l’autrice, dopo un’iniziale diffidenza che rischiava di porre fine anzitempo alla ricerca, abbia infine stretto un rapporto intersoggettivo con i testimoni che è andato ben al di là delle pure necessità metodologiche.
Lo si percepisce ancora di più quando la morte inizia a fare breccia nelle narrazioni, diventando un vero e proprio “motivo di riflessione sull’antifascismo militante” (p.133). Qui le memorie si fanno più esitanti, lasciando spazio alla riflessione sul costo politico e umano delle scelte fatte in quegli anni e amplificando l’intreccio tra il tempo del racconto e il tempo del presente. Ripercorrere gli episodi in cui il ricorso alla violenza politica ha portato all’uccisione di una persona pone infatti diversi gradi di interrogativi, che cambiano a seconda degli intervistati e degli eventi narrati. Se per molti la violenza è intesa come “autodifesa” e per altri come una necessaria forma di attacco, quasi sempre emergono dei dilemmi di coscienza che “mettono in discussione non tanto l’ideologia, quanto l’appropriatezza del mezzo che si sceglie per affermarla” (p.122).
I morti, tra l’altro, sono comuni sia a sinistra che a destra, ma nelle interviste emergono diverse scale di valore a seconda che i caduti siano dall’una o dall’altra parte. Quando muoiono i “compagni” il sentimento prevalente è quello che rafforza la convinzione di dover continuare con l’antifascismo militante proprio per evitare che si ripetano eventi luttuosi. Questi eventi sono spesso centrali nelle narrazioni, soprattutto quando rafforzano l’appartenenza identitaria e vengono ricordati come vere e proprie cesure biografiche (come l’uccisione di Paolo Rossi nel 1966, o la strage di piazza Fontana). Ci sono però anche episodi che fanno vacillare le convinzioni dei militanti, come nel caso dell’omicidio di Walter Rossi nel 1977, che Jessica Matteo definisce il “punto di non ritorno della battaglia antifascista”. Allo stesso tempo, le uccisioni dei neofascisti non producono la medesima reazione: se in diversi casi prevale l’idea che la morte di un neofascista sia se non del tutto condivisibile, quantomeno inevitabile (come nel caso di Miki Mantakas, il neofascista greco del Msi raggiunto da due proiettili nel 1975), in altre occasioni si fa largo la consapevolezza che alcuni episodi abbiano segnato indelebilmente l’agibilità politica dell’antifascismo militante (oltre al caso Primavalle, vengono ricordati l’omicidio di Sergio Ramelli a Milano nel 1975 e l’agguato alla sede del Msi di Acca Larentia nel 1978).
All’interno di queste riflessioni diventa centrale il rapporto dei testimoni con il silenzio. Da un lato c’è un silenzio che viene rotto a quarant’anni di distanza grazie alle interviste dell’autrice, e che conduce i testimoni a ripercorrere determinati episodi della propria militanza, in certi casi per la prima volta. Diventa evidente in questo caso come il tempo modelli “esperienze diverse” (p.183), permettendo a parole rimaste inespresse per anni di poter diventare finalmente patrimonio collettivo. Questo aspetto, al di là delle liturgie metodologiche, è sempre bene che venga sottolineato quando ci si confronta con le testimonianze degli ex militanti degli anni Settanta, per i quali la stessa parola memoria ha rappresentato per troppo tempo un sinonimo di rimozione e privazione delle proprie storie di vita. In secondo luogo, emerge un significativo “dialogo a distanza” tra le fonti scritte e quelle orali, nel momento in cui l’autrice sottolinea i silenzi di Lotta Continua rispetto alla tematica della violenza agita. Il giornale, infatti, “sceglie il silenzio quando l’uccisione del nemico non ha una legittimazione morale”, privandosi così della possibilità di aprire un dibattito sull’antifascismo militante nei momenti in cui coloro che lo praticano si trovano più disorientati. Questo confronto si espleta grazie alle interviste, che anni dopo permettono a quegli stessi uomini di articolare un discorso autocritico ma non autocommiseratorio allo stesso tempo. Anche questo aspetto credo che rimarchi una volta di più la grande abilità dell’autrice nel tenere in costante equilibrio fonti tra loro così diverse.
Infine, voglio dedicare un’ultima battuta sugli esiti della ricerca, e sul dialogo che si innesta tra la memoria pubblica e la memoria privata della stagione dei movimenti. Prendendo in prestito le parole di Jessica Matteo, risulta evidente come la sinistra extraparlamentare abbia costruito con il tempo una “memoria collettiva della violenza politica volta a giustificarne l’uso”, che però si scontra con una memoria pubblica che condanna quella stessa violenza senza soffermarsi sul contesto nel quale si era sviluppata e sulle profonde differenze che ne avevano caratterizzato il ricorso. A mio modo di vedere continua ed essere questo il nodo irrisolto nella ricostruzione storica degli anni Settanta, un conflitto ormai esplicito tra modi differenti di intendere la narrazione di quegli anni che non può più essere lasciato a interpretazioni deterministiche. Non a caso, l’esito a cui giunge la ricerca è che esista non solo una specificità, ma una vera e propria autonomia dell’antifascismo militante. Questo sviluppo autonomo si nutre di riferimenti identitari espliciti, dal recupero della morale antifascista della Resistenza passando per la rivolta del luglio 1960, fino ad arrivare alla strage di Piazza Fontana. Ciò però non giustifica un’immediata aderenza dell’antifascismo militante con la lotta armata, né tantomeno con le interpretazioni che lo identificano come il primo sintomo dei cosiddetti “anni di piombo”. Se la retorica della violenza anticipa di molto tempo le bombe del 1969, come dimostrato oramai da diversi studi, è forse giunto il momento di restituire una storia dei movimenti degli anni Settanta che prediliga un punto di vista plurale e al contempo specifico anche su temi contestati come quello dell’antifascismo militante. Il merito della storia orale, e del libro di Jessica Matteo, in fondo è anche questo.