di Stefano Bartolini
L’uscita della ricerca di Gabriele Proglio, Bucare il confine. Storie dalla frontiera di Ventimiglia (Mondadori, 2020), è una gradita novità editoriale, ed è un libro importante. Lo è per diverse ragioni: l’Autore rivendica la possibilità di fare la storia del presente e ci mette di fronte ad un passato recentissimo, denso di significati, che si inserisce in una storia che resta ancora aperta, pur avendo già una sua periodizzazione interna che possiamo iniziare ad apprezzare – soprattutto in relazione ai movimenti politici e sociali che hanno insistito sulla frontiera occidentale italiana; ha il merito di mettere per iscritto, e quindi di scolpire sulla carta, una storia che altrimenti rischierebbe di scomparire, insieme a tante altre che già stanno andando incontro a questo destino; mette in relazione i luoghi, gli spazi, con le persone, gli spostamenti, i racconti, costruisce cioè una storia orale inserita in un paesaggio, nesso su cui all’interno dell’AISO stiamo proficuamente riflettendo; pone l’accento sulla soggettività, e quindi sui punti di vista, le letture, le interpretazioni, degli attori sociali, dei testimoni, con le loro diversità tracciate lungo la linea Europeani (per gli attivisti con la cittadinanza europea e fruitori dei “privilegi” derivanti dal Trattato di Schengen) e Shebab (per i migranti di ogni provenienza che si affollano intorno alla frontiera), ed infine dello storico, per la precisione dello storico orale – come ci tiene a dichiararsi l’A. – che concorre in maniera intersoggettiva a costruire il dialogo con i propri testimoni e la storia che poi ci racconta; ci richiama, di conseguenza, alla non neutralità dell’operazione storiografica, come dice Tommaso Detti, «non va mai dimenticato che la stessa funzione politica della storia è sempre stata un tratto costitutivo dell’impresa storiografica»[1], e per questa via a un afflato attivista rivendicato come legittimo senza per questo inficiare la scientificità del lavoro dello studioso, un nodo sempre all’ordine del giorno ma oggi tornato di stringente attualità, basti pensare agli svariati modi in cui ci sta chiamando in causa il movimento Black Lives Matter.
Devo ammettere che nel momento in cui ho iniziato a leggere il libro, con l’intento di recensirlo, mi sono trovato a condividere la stessa posizione di “compartecipe” in cui è venuto a trovarsi Proglio. Anche io sono stato a Ventimiglia con i migranti (termine insoddisfacente nella sua pretesa di unificazione, ma che dovrò qui usare per motivi pratici). Anche io, come tanti e tante, nell’estate del 2015 ho risposto spontaneamente al richiamo solidaristico e politico che proveniva dagli scogli “occupati” sulla frontiera e sono andato, in buona compagnia, lì, ai Balzi rossi, al presidio autorganizzato No border di Europeani e Shebab, un’esperienza durata alcuni mesi e che costituisce uno snodo cruciale del libro. Anche io ho cucinato, mangiato, bevuto, dormito, fatto il bagno, giocato a pallone con chi aveva scelto di accamparsi lì, ho ascoltato i racconti, cercato di decifrare attraverso le intonazioni e il linguaggio del corpo storie a volte espresse in idiomi a me incomprensibili, sentito ripetere più volte la parola araba muschkila (problema), percorso il “passo della morte” per giungere in Francia non visto. E ci sono stato proprio dal 24 al 26 luglio, giornate raccontate in questo libro, durante le quali si svolsero assemblee, seminari e una manifestazione a ridosso della frontiera. Leggendo il libro affioravano di continuo i ricordi di quei giorni, rivivevo quell’esperienza, ben sapendo che questa storia mi riguarda, mi chiama in causa, non è possibile nasconderlo, e poi perché mai dovrei farlo? Mi ritrovo dunque ad essere al tempo stesso attivista, testimone e studioso, dimensioni distinte ma intrecciate. E, nella posizione di recensore che occupo in questa circostanza, a dover fare i conti con i rischi che comporta, come il finire a scrivere la mia testimonianza senza discutere il libro, o a cedere alla tentazione di mettermi a confrontarmi da testimone/attivista in merito alle criticità che ricordo di quell’esperienza, su questa o quella valutazione politica che mi accomuna o mi differenzia da questa o quella testimonianza riportata. Devo pertanto trovare un punto di equilibrio tra queste due dimensioni della mia soggettività, il mio essere coinvolto in questa storia – così vicina e aperta da non lasciare i margini di cui si può usufruire quando ci troviamo nella stessa condizione ad affrontare un passato più sedimentato – e l’approccio da storico che discute il lavoro di un collega. Un equilibrio che proverò a ricercare qui di seguito.
Proglio ci introduce alla storia “lunga” del confine italo-francese e delle vicende che lo hanno letteralmente “attraversato”, almeno a partire dall’Unità d’Italia. Dopodiché la lente si sofferma sull’ultimo decennio, con un accavallarsi di incontri, anche di natura opposta (ci sono le voci di chi è ostile ai migranti, di chi è apertamente razzista), di racconti e di storie, che l’A. raccoglie con una sentita partecipazione umana che lo porta a empatizzare, a schierarsi, a infrangere consapevolmente la barriera del distanziamento che in un primo momento si era dato. Il dipanarsi delle vicende si articola intorno a quello che appare uno spartiacque, il movimento del 2015, il momento più intenso e spontaneo tra le diverse mobilitazioni politiche succedutesi a Ventimiglia, iniziato con l’occupazione da parte dei migranti degli scogli davanti alla frontiera nel giugno, da cui poi ha avuto origine il presidio ai Balzi rossi, nella pinetina accanto alla scogliera, la cosiddetta “Bolla”, termine che ne evidenzia il carattere intimo, uno spazio ed un tempo come separati e sospesi dal circostante che mi rimanda al concetto di TAZ, le zone temporaneamente autonome di cui parlavamo molto negli anni Novanta[2]. Il termine “bolla”, originatosi nell’ambiente degli attivisti, è azzeccato. Effettivamente anche io lo ricordo proprio così il presidio, come una “bolla” che mi riportava alle esperienze fatte prima e durante il movimento No global. In quei giorni arrivavano ai Balzi rossi, per strade diverse, migranti e attivisti, dando vita a un presidio orizzontale dove erano assenti le organizzazioni, indipendentemente dal livello di istituzionalizzazione o di strutturazione, oppure erano presenti in maniera molto defilata, come la Croce rossa che ogni tanto portava alcuni generi di prima necessità o alcune realtà del circuito dei centri sociali che portavano suppellettili di vario tipo, fra cui il necessario per allestire una cucina da campo. Alla fine della “bolla” seguono repressioni e “deportazioni” di migranti verso il sud Italia, nuovi tentativi di costruire presidi, all’interno di uno scenario più vasto che vede tutte queste vicende inserirsi nelle trattative che coinvolgono Italia, Francia e Unione Europea, con le istituzioni italiane locali che portano avanti a loro volta una propria politica. Uno scenario complesso e in continua mutazione, in cui agiscono figure oscure, passeur, trafficanti, dove a rimanere ferma e solida è solo la frontiera.
L’A. la analizza in maniera approfondita. Affronta il confine non solo come linea di demarcazione fra due stati, un semplice reticolato, la frontiera appunto, ma anche come meccanismo biopolitico violento di controllo e di potere, capace di soggettivare le persone loro malgrado ed attorno a cui si articolano separazioni, scale dei diritti, relazioni ineguali, costruzioni di identità (noi, loro). Il confine esclude ed include in maniera differenziale, agendo a partire dalla fisicità della persona: «La collocazione dei corpi, attraverso l’inclusione differenziale, avviene con un processo di posizionamento in gerarchie sociali, economiche e politiche basato sulle caratteristiche con cui il corpo stesso viene descritto dalle istituzioni e da altri soggetti normativi (per esempio, in base al genere, al colore, alla provenienza, all’etnia, ecc.)» (p. 48). Ed ancora:
«Il confine non è solamente un luogo fisico o simbolico, è un dispositivo che costruisce la società, segmentandone le gerarchie e moltiplicando i posizionamenti di ciascun individuo in base al genere, alla classe, alla razza, al luogo d’origine, all’identità culturale e religiosa. Ma è anche vero il contrario, ossia che le società, loro stesse, determinano confini attraverso le leggi, l’uso della forza […] e le sentenze dei tribunali. Inoltre, i confini non sono generati unicamente dalle istituzioni, ma anche all’incrocio di relazioni nella sfera pubblica e privata» (p. 53).
Per decostruire questa struttura, questo apparato, anche discorsivo, che domina sulle vite, l’A. ricorre a tre strumenti: l’intersezionalità, che tiene insieme le diverse componenti che intercorrono nel definire una persona (genere, classe, colore, cultura ecc.); il concetto di comunità immaginata, che include ed esclude; e l’archivio post-coloniale, ovvero un insieme di saperi depositati nelle istituzioni ma anche nella società, originatosi nell’epoca coloniale, attraverso cui sono lette e categorizzate le persone esterne alla comunità nazionale.
La pratica investe direttamente anche lo storico, che comunque si trova posizionato in questa struttura, che non si lascia decostruire facilmente, serve quindi far ricorso alla pratica decoloniale, mettendo in discussione il proprio sapere. Qui ritorniamo al tema sollevato da Portelli all’inizio degli anni ’90 con il suo C’è sempre un confine, che rifletteva proprio sul suo lavoro di storico orale, bianco e benestante, nel dialogo con una coppia nera americana, un ex minatore e la sua moglie dedita da tutta la vita al lavoro domestico, dove l’essere solidali non bastava ad abbattere il confine, c’era sempre una doppia linea di demarcazione, di colore e di classe, a separarli[3].
Il confine che diventa linea di separazione fra le persone richiama anche il concetto di confine “mobile”, che ho avuto modo di conoscere in relazione a un altro confine italiano, quello orientale, dove serve non solo a evidenziare i numerosi spostamenti che la linea frontaliera ha subito tra ‘800 e ‘900 ma anche il suo riprodursi continuamente – in quello che è da sempre un territorio a composizione mistilingue con la presenza di diverse identità nazionali – nelle città, nei paesi, sul lavoro, a scuola, nelle famiglie, senza restare mai fermo, ridefinendosi continuamente, anche in relazione ai “salti” di appartenenza che lì avvengono, ma restando sempre a separare e ordinare. Qualcosa di simile, pur con dinamiche diverse, accade sul confine occidentale, dove il confine entra dentro Ventimiglia, nei bar, nelle strade, e si insinua tra le persone. Non è più solo il confine tra Italia e Francia ma è il confine tra bianchi e neri, tra cittadini e clandestini, ed anche all’interno del movimento, tra Europeani e Shebab. L’A. destruttura queste dinamiche, le rende leggibili e quindi evidenti. Bucare il confine allora non è più soltanto passare dall’altra parte, in Francia, ma riuscire ad abbattere questo meccanismo che si riproduce e si riadatta senza sosta, un’azione resa possibile dal fatto che il confine ai suoi margini genera continuamente resistenze e conflittualità. È una pratica che appartiene anche ai movimenti politici che si muovono sul crinale di queste lotte, che contiene in sé un punto di forza e una debolezza, per raccogliere la domanda che l’A. si pone alla fine del testo sulle possibili ricadute politiche del suo lavoro. Il punto di forza è la capacità di leggere il contesto, le relazioni verticali e gerarchicamente ordinate, i meccanismi di potere, l’artificialità della costruzione, destrutturandone l’impalcatura invisibile per restituirla nella sua crudezza. La debolezza è che non basta destrutturare, prendere coscienza, svelare i meccanismi, liberare spazi, evidenziare la nudità del Re per far crollare l’impalcatura. Il confine una volta costruito è reale, tangibile, agisce, e lo fa anche dal basso, diventa una realtà che non si lascia rigettare con la denuncia, non è eludibile nella sua sedimentazione profonda e nel suo operare, diventa un elemento del campo di gioco con cui fare i conti prendendone le misure.
Sulla scorta di queste riflessioni su come funziona il dispositivo del confine e sul ruolo delle soggettività, l’A. arriva a ragionare sul modo stesso di fare storia, dichiarando che il libro ha volutamente uno stile di frontiera, introducendo una distinzione fra la storia collettiva e la storia corale. Mi sembra uno spunto interessante per il lavoro di noi oralisti. Per storia collettiva intende una storia costruita secondo gli stilemi classici, che rende omogeno il racconto riportando gli eventi nella loro successione, i passaggi, restituendo quel che accade in forma leggibile ma sacrificando la complessità. Si tratta per l’A. di un’operazione che riordina dall’alto, con un punto di osservazione da sopra. Adottandone uno più rasoterra le cose cambiano, ad esempio l’unità di intenti del movimento di Ventimiglia diventa meno compatta, emergono le differenze e la complessità.
«Se si cambia punto d’osservazione, e si adotta uno sguardo trasversale, proprio del rapporto tra soggettività, i confini tra chi è dentro è chi è fuori dalla comunità diventano labili. Anche le azioni collettive sono oggetto di discussione e dibattito. Il modello verticale, quindi, è indispensabile per definire i fatti e le cesure; ma per evitare un appiattimento del singolo e delle soggettività sul collettivo è fondamentale dotarsi anche di una visuale trasversale» (p. 131).
La storia corale per l’A. implica una rinuncia di potere da parte dello storico, «la rinuncia a essere il soggetto che “fabbrica la storia”» (p. 132) senza rinunciare tuttavia al piano intersoggettivo. É una storia che valorizza le diverse interpretazioni, gli errori, la complessità. E che in definitiva Proglio pone in antitesi con la storia collettiva. Per due ordini di motivi. Il primo riguarda lo stile di scrittura ed è condensato in una domanda: «Che senso ha, cioè, ricostruire la storia delle lotte No Borders producendo, in termini discorsivi e metalinguistici, quello stesso modello usato per esaltare la storia nazionale come icona intorno a cui riconoscersi italiani e italiane?» (p. 132). Il secondo porta alle conseguenze logiche le premesse della domanda:
«La storia collettiva fa parte di un modello codificato di raccontare il passato. É la storia di un noi che può essere ufficializzata. É un modello che in altri contesti – si pensi alle guerre nazionali – permette la sacralizzazione delle vicende, l’invenzione del mito. Non cancella solamente ogni dubbio, ogni contraddizione, ma anche chiede a tutti di sapere, di far conoscere, di aderire alla narrazione. Su queste basi si genera l’idea d’appartenenza, di un’identità nazionale, quando non nazionalista» (p. 196).
All’opposto per l’A. «la storia corale, attraverso l’uso dell’oralità, si muove in tutt’altra direzione. I frammenti, i silenzi, gli anacronismi: sono tutti elementi che non possono esistere nella storia collettiva. Sono i luoghi simbolici in cui si generano riconoscimenti non escludenti» (p. 132). La storia collettiva produrrebbe quindi appiattimento, fino al limite di rimuovere le increspature e le differenze, mentre la storia corale si muoverebbe sul filo del «diversi ma uniti da un medesimo passato» (p. 197). Per la storia collettiva la ripetizione sarebbe ridondante, per la storia corale una risorsa che amplia lo spettro delle interpretazioni. In definitiva la storia collettiva sarebbe escludente, la storia corale includente.
In realtà, così enunciata, questa contrapposizione così rigida mi lascia alcune perplessità. A partire da quest’ultima affermazione, diversi ma uniti da un medesimo passato, che calata nel contesto italiano corre, se generalizzata e decontestualizzata, proprio il rischio di subire torsioni nazionaliste: come non riconoscerla come frase che potrebbe essere tranquillamente sottoscritta dai fautori della memoria condivisa, volta a rimuovere la contrapposizione fascismo/antifascismo proprio a favore di una sacralizzazione della nazione?
Ma soprattutto, mi pare che l’A. usi il termine storia collettiva per indicare quella io chiamo storia nazionale e il termine storia corale per riferirsi a quella che io, solitamente, chiamo storia collettiva o, a seconda dei casi, storia orale. Il problema non è solo di denominazione, se fosse solo questo la questione sarebbe irrilevante, ma chiama in causa diversi aspetti. Prima di tutto proprio la definizione di storia orale, che non è solo un metodo per raccogliere le fonti basato sul dialogo intersoggettivo, ma una concezione dell’operazione storiografica che va a riflettere proprio sui nodi relativi all’autorialità, sulla complessità della memoria, sugli errori, sull’interazione delle varie soggettività, i diversi punti di vista contrapposti o in dialogo. In altri termini, la storia orale ha già una sua epistemologia, e quella che qui viene definita storia corale pare sovrapporvisi riducendo al tempo stesso la storia orale a semplice metodo di raccolta.
C’è poi un altro aspetto su cui vorrei soffermarmi. Mi sembra che l’A. attribuisca alla storia collettiva un destino nazionalista che non necessariamente ha. Cioè la storia collettiva non esiste solo nella dimensione nazionalista, ed allargando il discorso gli stessi confini di inclusione/esclusione non sono solo quelli qui presi in considerazione e discussi, che potremmo definire di tipo imperialista. Occupandomi da diverso tempo di storia del lavoro e dei movimenti dei lavoratori non posso non pensare alle frontiere di inclusione/esclusione che i movimenti dei lavoratori della terra e operai hanno costruito sulla linea di classe, andando proprio a rompere la pretesa unità della nazione (non è un caso se i movimenti classisti sono da sempre invisi ai nazionalisti), dando perfino vita a comunità immaginate alternative a quelle nazionali. E la storia collettiva qui finisce per assumere un valore molto diverso, come ha evidenziato Clemente, quando ci ha raccontato di un’intervista svolta a più riprese, durata dal 1978 all’83, ad un’anziana mezzadra:
«Dina pensava il suo “libro fatto con la voce” come qualcosa per restare nella memoria, per trasmettere un’esperienza che era di suo padre, di sua madre, di suo marito, di suo figlio oltre che sua, ma in quanto tale era anche collettiva perché riguardava le donne e gli uomini di un’epoca e del mondo dei contadini mezzadri. Per Dina, come per tante donne e tanti uomini […] testimoniare aveva un senso pubblico»[4].
Qualcosa di analogo credo possa essere detto per tante ricerche microstoriche che vanno a indagare quartieri o comunità popolari. I subalterni quando prendono la parola costruiscono a loro volta i propri confini per definirsi, costruiscono dal basso identità e storie collettive con una natura diversa da quelle nazionali. Certo il femminismo prima e l’approccio intersezionalista poi, hanno criticato, e a ragione, le storie di classe concepite come monolitiche, ma seppur fuori moda esiste ancora la dimensione di classe, che continua ad essere una dimensione collettiva anche se sempre più di rado genera movimenti degni di questo nome come in passato (per adesso almeno). É una dimensione che non necessariamente appiattisce e omogeneizza, ma che può essere indagata, anche attraverso la storia orale, riportando la sua complessità, le sue differenziazioni interne. Insomma non tutto quello che è collettivo è nazionalista, il tema meriterebbe di essere maggiormente problematizzato, e quello che vale quando si studiano lotte come quelle di Ventimiglia, dove la costruzione dell’identità nazionale/europea muove contro quella di un’identità includente, dove la stessa creazione di un’identità collettiva del movimento è più sofferta, al limite sfuggente o irraggiungibile quale conseguenza di come opera qui il dispositivo del confine così come concettualizzato e descritto, non è detto che valga sempre per tutte le lotte. Molto dipende da come si articola la linea di frattura, perché ciò su cui viene costruito il confine non è mai irrilevante nel determinare i suoi meccanismi di inclusione e esclusione.
[1] T. Detti, Lo storico come figura sociale, in A. Giardina, M. A. Visceglia (a cura di), L’organizzazione della ricerca storica in Italia, Roma, Viella, 2018, p. 289.
[2] Cfr.: H. Bey, T.A.Z. zone temporaneamente autonome, Milano, Shake edizioni underground, 1993.
[3] C’è sempre un confine. Memoria storica, dialogo e racconto collettivo, in A. Portelli, La linea del colore, Roma, Manifestolibri, 1994.
[4] P. Clemente, L’antropologo che intervista. Le storie della vita, in Vive voci. L’intervista fonte di documentazione, a cura di M. Pistacchi, Roma, Donzelli, 2010, p. 67.