“Come abbiamo fatto a viverci?” è un estratto della tesi di laurea di Mariantonietta Bastione dal titolo “L’Italsider di Bagnoli. Dalla storia (1910-1998) alla memoria del territorio” (laurea triennale in Storia, Antropologia, Religioni presso Sapienza – Università di Roma, a.a. 2021-2022; relatrice prof.ssa Lidia Piccioni). L’autrice ha raccolto 8 storie di vita di ex operai dello stabilimento Italsider di Bagnoli (Napoli) intrecciando queste narrazioni con la bibliografia disponibile e con altra documentazione proveniente dal territorio. Un esempio di una ricerca ben avviata che con piacere proponiamo a chi pratica la storia orale.
Camminando per le strade di Bagnoli è inevitabile incontrare le mura che circondano quello che resta dell’Italsider, come del resto è impossibile non posare lo sguardo sulle rovine degli impianti dello stabilimento che si impongono sul paesaggio naturale. La presenza della fabbrica, ormai entrata nella quotidianità, è dunque una componente fondamentale della realtà non solo del quartiere, ma di tutta la città di Napoli. Ed è per dare conto di quanto tale presenza fosse stata, e sia ancora significativa, che ho deciso di intervistare alcuni ex lavoratori dello stabilimento, sia operai che impiegati.
Lo stabilimento di Bagnoli era uno stabilimento siderurgico a ciclo integrale, cioè nella fabbrica si partiva dal minerale grezzo per poi affrontare tutte le fasi di lavorazione dell’acciaio fino ad arrivare al prodotto finale. Fu inaugurato nel 1910, ma pochi anni dopo venne chiuso a causa di difficoltà economiche e finanziarie dell’azienda Ilva. La fabbrica riaprì nel 1924, ma poi dovette affrontare la crisi del ’29, alla quale però sopravvisse senza gravi conseguenze, grazie a modifiche e rinnovamenti. Durante la Seconda guerra mondiale subì bombardamenti e razzie, ma subito dopo la Liberazione, riprese a funzionare grazie alla dedizione degli operai che, con i pochi mezzi a loro disposizione, aggiustarono gli impianti al meglio delle loro possibilità. Gli anni ’50 e ’60 possono essere considerati anni d’oro, non solo da un punto di vista produttivo, ma anche per l’intenso attivismo degli operai, che portò a significativi miglioramenti nella vita di fabbrica. La crisi del 1973 innescò una serie di eventi che alla fine portarono alla chiusura definitiva dello stabilimento, la quale avvenne nel 1994.
Indagare e riscoprire l’Italsider sembra essere ancora più significativo in questo momento, considerato che il 25 ottobre 2022 è stato dato il via a una gara di 269 milioni di euro per la progettazione e la realizzazione di una bonifica ambientale e infrastrutturale della fabbrica.
Dalle interviste è emerso che lo stabilimento non è stato un mero agglomerato d’impianti, ma che nell’esistenza, nell’identità e nella visione del mondo di chi ci lavorava, ha sempre rivestito un ruolo primario e vivo. Nella fabbrica infatti, operai e impiegati hanno sviluppato una coscienza di classe e rapporti interpersonali che superavano ampiamente quelli semplici e asettici tra colleghi di lavoro. Inoltre, i dipendenti dell’Italsider hanno avuto anche la possibilità di approfondire il proprio rapporto con il quartiere, svolgendo un ruolo fondamentale nel forgiare la sua identità.
L’idea di fare le interviste è nata perché mio nonno ha lavorato nello stabilimento per circa vent’anni, e questo mi ha aiutato, poiché grazie a lui e ad altri familiari, sono riuscita a conoscere gli otto lavoratori che hanno preso parte a questa ricerca. Grazie a questa conoscenza personale ho instaurato un rapporto familiare con tutte queste persone, tant’è che la maggior parte delle interviste si sono svolte nelle loro case. L’unica eccezione è stata l’intervista congiunta di tre lavoratori che si è svolta al Circolo Ilva, un’associazione sportivo-culturale costituita da ex dipendenti Italsider, pertanto un posto molto significativo essendo la sua storia imprescindibile da quella dello stabilimento, e che ancora oggi opera attivamente sul territorio. Tutti gli intervistati mi hanno accolto caldamente, e nei loro racconti sono stati generosi e appassionati, perché contenti di parlare di una parte della loro vita così importante, e anche orgogliosi di condividere la memoria di diversi momenti vissuti nella fabbrica, tant’è che hanno tutti acconsentito tranquillamente che io registrassi. Inoltre, è stato proprio per tale propensione alla condivisione, che le interviste si sono svolte in maniera simile: all’inizio hanno tutti spontaneamente parlato della loro vita in fabbrica e dei loro ricordi. Successivamente ho fatto domande per approfondire questioni che ritenevo importanti per la mia ricerca – tra cui ad esempio quali fossero i loro ricordi delle lotte operaie degli anni ‘60 e quale fosse stata la loro reazione alla chiusura e dismissione – e anche per ritornare su fatti ed eventi che avevo trovato interessanti.
Questo mi ha permesso di esplorare diverse tematiche, tra cui quella di cui parlerò in questo articolo, e cioè di che tipo fosse il rapporto che intercorreva tra chi lavorava nello stabilimento e il quartiere. Cercherò di dare un’attenzione particolare al modo in cui tale rapporto si sia trasformato nella seconda metà degli anni ’70 e al perché.
Per analizzare cosa fosse cambiato, ho cercato di capire quale fosse il rapporto con il territorio prima che sopraggiungesse la crisi del 1973. La maggior parte degli operai e impiegati che ho intervistato per la mia tesi aveva iniziato a lavorare nello stabilimento prima che la crisi siderurgica si abbattesse sull’industria italiana. Per tale motivo tutti ricordavano che, prima di questo evento, da un punto di vista economico il territorio beneficiava molto della presenza della fabbrica. E infatti quando ho domandato che tipo di rapporto ci fosse con il quartiere, tutti mi hanno parlato del fatto che i lavoratori sostenessero le attività presenti nei dintorni della fabbrica. Questo aspetto mi è stato raccontato in modo particolare da Giovanni Del Vecchio, il quale ha lavorato all’Italsider dal 1969 al 2001.
Giovanni Del Vecchio:
Quando c’era lo stabilimento in attività a Bagnoli ci guadagnavano tutti. Io ricordo i primi anni che ho lavorato non con l’ILVA, io ho lavorato anche con delle ditte, e si entrava da via Coroglio, da via Cattolica, c’era l’entrata delle ditte. Avresti dovuto vedere i vari venditori che si mettevano prima dell’ingresso: c’era chi vendeva i panini, c’era uno che vendeva il brodo di polipo con la ranfa di polipo dentro; ma c’era di tutto là fuori, gente che vendeva attrezzi, utensili, cose… Ma la stessa cosa succedeva qua a via Nuova Bagnoli, all’ingresso principale. Quando era giorno di pagamento, non ti dico bugie, dall’uscita fino a piazza Bagnoli tutte bancarelle a vendere di tutto e di più. […] In piazza c’erano vari bar che lavoravano perché poi è facile che quando esci o un poco prima di entrare ti vai a prendere un caffè, mangi un cornetto… Poi non ti dico le salumerie: c’era una salumeria e una trattoria a Coroglio, chissà se ci sono ancora, facevano panini a piazza Bagnoli, quindi ci guadagnava il salumiere, ci guadagnava la tabaccheria, ci guadagnava il bar, ci guadagnavano questi qua con le bancarelle che vendevano.
In un primo momento il territorio era generalmente favorevole alla presenza dello stabilimento. Questo sentimento non era causato solo da ragioni meramente economiche, ma anche dal fatto che molti abitanti di Bagnoli avevano la percezione di partecipare e contribuire in maniera fondamentale alla vita economica non solo della città, ma anche dell’intera nazione. E quindi nel quartiere e nei lavoratori era presente un intenso sentimento di appartenenza e di orgoglio per la realtà di fabbrica. In diverse interviste è emersa tale emozione, ma me ne ha parlato soprattutto Guido Prisco, che ha lavorato nello stabilimento dal 1968 al 1998.
Guido Prisco:
[…] Perché quando il rapporto con l’azienda diventa intimo proprio, e io ti parlavo non a caso che nascevano i rioni, rioni di case legate a quell’azienda: “Dove abiti?” “Alle case dell’Ilva”; era l’orgoglio, ma anche il commerciante: se tu andavi dal commerciante e dicevi “Mi serve questo però in questo momento non ti do i soldi”, c’era il concetto non più della paga oraria e quella giornaliera, c’era già il concetto della paga quindicinale e mensile. C’era proprio quest orgoglio di appartenere, c’era l’orgoglio di appartenenza e nasceva sempre dal fatto che c’era un rapporto intimo col territorio […] era una cosa banale, ma quando si usciva era un personaggio importante nel territorio, quindi ci si ritrovava al bar al mattino alle 7:00 perché magari smontava dalla notte prima di andare a casa dalla moglie, andava al bar e si intratteneva, quindi c’era questa appartenenza.
In altre interviste, alla mia domanda sul rapporto con il territorio, è emerso poi un ulteriore fattore importante da tenere in considerazione quando si esamina la relazione tra lo stabilimento e il quartiere nel periodo precedente alla crisi. Negli anni ’60 lo stabilimento aveva raggiunto l’apice del numero dei lavoratori impiegati, di cui la maggior parte veniva da Bagnoli o comunque da quartieri limitrofi, e perciò vivevano sul territorio assieme alle loro famiglie, come mi ha detto Guglielmo Santoro che ha lavorato nell’Italsider dal 1974 al 2005, e il cui padre è stato a sua volta un operaio dello stabilimento.
Guglielmo Santoro:
Comunque la partecipazione c’era, perché quasi tutte le famiglie tenevano qualcuno che lavorava all’Italsider. I commercianti si mantenevano con questo flusso di operai che arrivavano con la metropolitana, la cumana, quindi chi comprava o pan’, chi a maglietta…
Per chiudere questa parte in cui si racconta di prima della crisi – cioè quando il territorio aveva un’opinione generalmente favorevole della presenza dell’Italsider – è molto interessante riportare un aneddoto che mi è stato raccontato da Francesco Iorio – il quale ha lavorato allo stabilimento dal 1959 al 1990 – per rispondere alla domanda di che tipo fosse il rapporto con gli abitanti di Bagnoli. Questa piccola considerazione rappresenta non solo quanto gran parte degli abitanti vedessero in maniera positiva l’esistenza dello stabilimento, ma anche di quanto prendessero parte alla realtà della fabbrica con orgoglio.
Francesco Iorio:
Allora ci stavano negozianti, imprese che campavano, però diciamo che gli abitanti specialmente le donne… Tu pensa che all’epoca, una mamma che aveva una figlia come te, la spingeva verso l’operaio dell’Italsider, perché si sistemava. Tu pensa che io quando ero giovane e conoscevo una ragazza: «Che lavoro fai?», «Faccio il rappresentante», nun dicevo mai che stavo all’Italsider, mai! Ma non perché mi vergognavo, ma perché poi eri l’obiettivo […].
Cosa cambia allora negli anni ’70? I due fattori principali sono in primo luogo quello che ho già menzionato – cioè lo scoppio di una forte crisi nel settore siderurgico in tutta la Comunità Economica Europea – e poi in secondo luogo la nascita della consapevolezza della questione ambientale dovuta all’inquinamento marino, atmosferico e acustico di cui lo stabilimento era causa. È importante sottolineare che esisteva un forte nesso tra questi due fattori, e che, prendendo in considerazione la storia dello stabilimento, queste questioni fossero intrecciate. Per far sopravvivere l’Italsider di Bagnoli alla crisi infatti, nella seconda metà degli anni ’70 le dirigenze industriali e il governo avevano convenuto che la soluzione migliore fosse ristrutturare lo stabilimento per rendere i suoi impianti tecnologicamente più avanzati ed adeguati alla domanda del mercato. Questo però si scontrava con una parte della cittadinanza bagnolese e con alcune associazioni ambientaliste, in particolare Italia Nostra e il WWF[1].
La vicenda della questione ambientale dell’Italsider di Bagnoli ripropose il nodo problematico dell’alternativa tra inquinamento e disoccupazione, tra salute e lavoro. Questa questione è molto presente nelle interviste che ho condotto: in tutte infatti, parlando del rapporto con il territorio, emerge chiaramente il problema dell’inquinamento. A Bagnoli tale problema fu particolarmente grave e sentito perché, sin dalla sua inaugurazione nel 1910, non c’era stato coordinamento tra gli ampliamenti dello stabilimento e l’espansione urbanistica del quartiere che lo ospitava. Ciò aveva portato al fatto che moltissime case si trovarono ad essere estremamente vicine agli impianti, e di conseguenza le condizioni di chi vi abitava, soprattutto a causa dell’inquinamento atmosferico e acustico, erano particolarmente difficili. Emblematiche sono le case rosse a causa delle polveri, e il fatto che queste ultime arrivassero fino ai balconi, non permettendo alle donne di stendere i panni ad asciugare. Tale immagine è stata rievocata da tutti gli intervistati per rispondere alla mia domanda su quale fosse l’entità dell’inquinamento sul territorio, ma specialmente da Giovanni Del Vecchio.
Giovanni Del Vecchio:
Quando c’era il deposito minerario, il deposito minerario era lungo la strada di via Nuova Bagnoli, dove c’è un muro, là c’era la torre del deposito minerario per l’agglomerato, e tutte quelle abitazioni che stanno lungo via Nuova Bagnoli, adesso qualcuna si vede ancora, erano diventate tutte rosse; e poi non potevano aprire balconi e finestre perché tutta quella polverina, tutto il minerale quando tirava vento se lo trovavano tutto sui balconi e sui davanzali delle finestre
Mi sembra fondamentale sottolineare che nessuno degli intervistati abbia negato la gravità della situazione ambientale, ma tutti hanno espresso delusione per la gestione di tale problematica. In questo senso è significativo quello che mi ha raccontato Antonio Bonanni, che ha lavorato nello stabilimento dal 1962 al 1987, e che ha annoverato tra le cause della chiusura dello stabilimento le proteste delle associazioni ambientaliste.
Antonio Bonanni:
[…] Fino al 1992 lo stabilimento almeno ha funzionato, poi ci fu la crisi dell’acciaio dovuta a problemi politici innanzitutto, problemi di inquinamento: quelli là che abitavano sopra Posillipo rompevano l’anima, ogni tanto, quelli là con Italia Nostra, scendevano e facevano gli scioperi. A questo punto, non lo so vennero parecchi ministri in fabbrica: “Noi promettiamo…” e poi la chiusero, fu un fatto pure politico, perché in Europa non volevano. Però nel frattempo loro costruirono Taranto, che è il doppio di Bagnoli, lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa. Che poi ha inquinato mezza città. Perché Bagnoli sì inquinava un po’, però…
Non è questo il contesto in cui discutere se la questione ambientale sia stata o meno un fattore fondamentale nella chiusura dello stabilimento – o se lo sia stato affatto. La cosa che trovo interessante è che, come ho già detto, pur essendo consapevoli di quanto la fabbrica inquinasse, tutti i lavoratori che ho intervistato hanno espresso la convinzione che il problema si poteva risolvere senza che la fabbrica dovesse chiudere. Questo anche perché, come emerge dalla letteratura storiografica dedicata[2], e come hanno ricordato anche alcuni intervistati per rispondere alla mia domanda su quale fosse stato il costo ecologico della fabbrica per il territorio, ci furono effettivamente degli investimenti per diminuire l’impatto ambientale dello stabilimento napoletano. Di questi interventi mi ha parlato soprattutto Giorgio Buzzo, che ha lavorato all’Italsider dal 1961 al 1994.
Giorgio Buzzo:
La questione ambientale è stata presa in carico dalla società diciamo negli anni ’80, più o meno. Allora le faccio un esempio. Io avevo una macchina con la quale andavo in cantiere. L’atmosfera del cantiere era talmente corrosiva, che alle volte qualcuno rischiava di trovarsi seduto a terra perché si arrugginiva la macchina, tanto per dire. Poi a un certo punto siamo andati avanti, è stata fatta un’opera molto meritoria, e sono stati fatti diversi interventi per l’inquinamento, tra questi è stata fatta la green belt. Se vai a Bagnoli si vede tutta quanta. Che era praticamente la cintura di alberi, ma anche all’interno è stata fatta.
Resta però fondamentale ribadire quanto i lavoratori fossero consapevoli che la situazione ambientale fosse grave nello stabilimento, e che, come emerge in tutte le interviste, tra cui quella congiunta di Guglielmo Santoro e Francesco Iorio, c’era accordo sul fatto che andassero apportate modifiche e andassero fatti interventi agli impianti per risolvere tale problematica, ma che lo stabilimento dovesse continuare a esistere.
Guglielmo Santoro:
Comunque non era più sostenibile l’Italsider. Io una volta sono andato a Taranto dopo la chiusura, e la mia considerazione fu: come abbiamo fatto a vivere tanto tempo in questo ambiente che per noi era normale poi. Non ci rendevamo conto del fumo.
Francesco Iorio:
Però se si toglieva l’area a caldo, rimaneva l’impianto di laminazione, il decapaggio e la stagliatura, ci stavano tremila famiglie che lavoravano e si potevano anche inserire in un contesto più ampio, capì? Invece è stata proprio la distruzione! Come la vedo io la distruzione è stata anche per un fatto politico.
Quindi, il filo conduttore delle interviste in merito a tale argomento pare essere questo. L’Italsider di Bagnoli era un orgoglio per il quartiere e per tutta la città di Napoli, perché contribuiva in maniera significativa alla vita economica del paese, e perché dava lavoro a chi viveva in quel territorio. Con la crisi, e con la consapevolezza delle problematiche ambientali, che arrivarono praticamente negli stessi anni, la situazione cambiò radicalmente. La fabbrica allora, da motivo di orgoglio e benessere economico, passò ad essere un problema. E questo cambiamento si sente nelle interviste: emerge soprattutto la percezione che il quartiere fosse favorevole alla presenza della fabbrica finché questa aveva prosperato, ma appena lo stabilimento si era trovato in difficoltà i cittadini avevano voltato le spalle ai lavoratori, decidendo di non protestare, anzi a volte anche favorendo apertamente la sua eventuale chiusura. Questo mi è stato raccontato in maniera particolarmente accurata da Guido Prisco, quando gli ho domandato secondo lui cosa ne pensassero i bagnolesi dello stabilimento.
Guido Prisco:
I bagnolesi l’hanno presa inizialmente bene, perché una delle caratteristiche non solo dell’Italsider, ma proprio del concetto di formazione delle strutture produttive: Olivetti, Montecatini, Cementir. Si metteva a disposizione del lavoratore, sì il lavoro, la paga di un certo tipo, ma anche la casa; quindi molti rioni restano con la designazione dell’azienda. […] Allora il territorio inizialmente vedeva di buon grado, anche perché un lavoratore che deve andare al lavoro alle undici di sera è ben diverso se viene da Salerno o viene quindi dalla zona limitrofa all’azienda; e inizialmente la cosa era giusta ed era accettata, anzi era un privilegio, perché quando dicevano «Io lavoro all’Italsider» era una cosa importante. Successivamente, a partire dagli anni ‘70, proprio quando si è incominciato che non c’era più una produzione come prima, e quindi la presa di coscienza di altri, magari quello che lavorava alle Ferrovie dello Stato chiaramente diceva «Io non respirerei quella polvere, non farei un lavoro lì dove c’è tanto calore», e questo ha portato giustamente alla presa di coscienza che effettivamente c’erano degli effetti inquinanti, è sotto gli occhi di tutti. E gli inquinanti sono stati un po’ la piaga di Bagnoli, perché Bagnoli ad un certo punto era diventata rossa, cioè i palazzi erano rivestiti di una polvere rossa che veniva dall’altoforno, veniva dall’acciaieria, veniva dall’agglomerato, veniva dalla cokeria e così via; e purtroppo c’è stato un forte incremento di malattie bronco-polmonari. Proprio questo ha incominciato a determinare, a segnare un po’ il passo, e la gente chiaramente dice, «Sì, io voglio lavorare, però non voglio che ci siano malattie». […] Allora fin quando nessuno era cosciente della cosa è andato bene; quando ci si è confrontati un po’ con i parametri, perché chi sentiva… […]. Quindi c’è una condizione di inquinamento, a questo punto la gente ha iniziato a vedere di buon grado la chiusura di Bagnoli; lo speravano proprio. […] Quindi questo rapporto tra fabbrica e territorio è un po’ difficile perché c’è stata una prima fase dove tutti, tutti volevano correre a lavorare, poi quando nella fase di dismissione la parte inquinante è incominciata a diventare oggetto dell’ecologia, allora la gente si è tirata indietro.
Prima di concludere, vorrei parlare di un altro aspetto che mi ha colpito e su cui ho riflettuto grazie alle interviste. Prima dell’Italsider, erano stati concepiti dei progetti per sfruttare le bellezze naturali della zona di Bagnoli, in modo da farne un’area turistica[3]. Nelle interviste è emerso che effettivamente, durante gli anni della crisi dello stabilimento, e poi subito dopo quando si iniziò a parlare di chiusura, alcuni cittadini auspicavano un ritorno all’identità che percepivano essere quella autentica del quartiere, cioè volevano che Bagnoli diventasse un luogo turistico, visitato per le sue bellezze naturali, e che a tale vocazione fossero legate tutte le attività presenti sul territorio. È interessante però considerare che, come emerge dall’intervento di Francesco Iorio e Guglielmo Santoro, per coloro che lavoravano nello stabilimento, a Bagnoli non esisteva niente prima dell’Italsider, per cui l’identità del quartiere era strettamente legata alla presenza della fabbrica.
Guglielmo Santoro:
C’era tutta un’economia che si manteneva. Poi c’erano pure quelli che erano amanti della Bagnoli del primo ‘900.
Francesco Iorio:
Gli abitanti di Bagnoli ho detto, il popolo, più che altro qualche commerciante, come quella scema e De Rosa, che disse per i Tg3, lei e la figlia: «L’Italsider deve andare via, qui dobbiamo fare la zona balneare!». Ha chiuso essa, si puzza di fame. L’Italsider se n’è iuto, però te ne sei andata pure tu. Però la maggior parte della popolazione… tu pensa che uno stipendio nostro, ci stanno operai che hanno fatto studiare figli all’università. Tre, non uno, con uno stipendio di un operaio. C’era una bella elevatura sociale.
Io:
È interessante anche comparare le diverse generazioni, perché io invece avevo letto in un’intervista a Bassolino dei primi anni ‘90 che un ragazzino gli aveva chiesto: «Ma quando lo buttate giù questo mostro?».
Francesco Iorio:
Ma non solo il ragazzino. Sta gente pure preparata, no: «Hanno rovinato una zona turistica!» Ma mo’ è una zona turistica… quando è nato l’Italsider, non c’era niente!
A mio parere è difficile, e forse anche superfluo, indagare cosa avrebbe dovuto essere Bagnoli senza la fabbrica, cercando una sua mistica identità originale e autentica. Non è possibile infatti, arrivati a questo punto, disgiungere il quartiere dalla fabbrica, perché Bagnoli è diventata ciò che è a causa della presenza dello stabilimento. Per queste ragioni, è cruciale valutare il danno ambientale che l’Italsider ha causato, ma allo stesso tempo è importante non sottovalutare lo straordinario contributo in termini di identità sociale, civiltà urbana e formazione di cultura del lavoro che lo stabilimento ha portato al territorio[4]. Credo che ciò sia testimoniato dal modo in cui il quartiere abbia reagito alla chiusura e alla dismissione della fabbrica: una parte della ricca realtà associativa – tra cui ad esempio il Circolo Ilva – che i lavoratori avevano creato, sopravvive ancora adesso e continua ad operare attivamente sul territorio.
In conclusione vorrei riportare due brani di interviste – a Francesco Iorio e a Vittorio Attanasio, il quale ha lavorato nella fabbrica dal 1970 al 1992 – che esprimono in maniera sintetica ma emblematica quello che l’Italsider rappresentava per chi vi lavorava, e come tale sentimento avesse degli echi anche nel territorio circostante.
Vittorio Attanasio:
È stato un momento brutto per tutti. È stato come se qualcuno viene a casa tua. E con la tua presenza si prendono il letto da casa tua e se lo portano via. […] Se noi dicevamo vicino ai nostri genitori: «l’Ilva di Bagnoli tra qualche anno chiuderà» Quelli ci davano per pazzi.
Francesco Iorio:
Poi mi sono innamorato e appassionato. Io quando sono andato via, l’ultimo giorno di lavoro, ho lasciato alle 10 di mattina il turno, mi sono fatto la doccia e me ne sono andato piangendo. Piangendo.
L’Italsider di Bagnoli è ancora lì. Non si contano i progetti ideati per rilanciare i terreni dopo la bonifica, con l’idea di preservare alcune strutture come monumenti di archeologia industriale. Non è questo il luogo per discutere delle ragioni complesse per cui nessuno di questi progetti sia andato in porto. Sta di fatto che di monumenti purtroppo non ce ne sono, e ciò che è rimasto dell’Italsider sono solo rovine di un passato industriale che ha forgiato l’identità non solo del quartiere di Bagnoli, ma anche di tutta la città di Napoli. Personalmente spero che un eventuale progetto futuro possa restituire centralità al valore storico dello stabilimento, assicurando che si smetta di considerarlo solo come un ennesimo rudere che inquina il paesaggio, ma che si inizi a guardare a ciò che rimane degli impianti come parte di esso.
Bibliografia
- Alisio, Lamont Young: utopia e realtà nell’urbanistica napoletana dell’Ottocento. Officina, Roma, 1984.
- Andriello, A. Belli, D. Lepore, Il luogo e la fabbrica. L’impianto siderurgico di Bagnoli e l’espansione occidentale di Napoli, a cura di A. Belli, Graphotronic, Napoli, 1991.
- Corona, Industrialismo e ambiente urbano: le molte identità di Bagnoli in Industria, ambiente e territorio. Per una storia ambientale delle aree industriali in Italia, a cura di S. Adorno e S. Neri Serneri, il Mulino, Bologna 2009.
- Mazzuca, Il mare e la fornace: l’ILVA Italsider sulla spiaggia di Bagnoli a Napoli, Ediesse, Roma, 1983.
[1] Per una trattazione esaustiva delle questioni ambientali dell’Italsider di Bagnoli negli anni ’70 cfr. F. Mazzuca, Il mare e la fornace: l’ILVA Italsider sulla spiaggia di Bagnoli a Napoli, Ediesse, Roma, 1983, p. 149-165.
[2] G. Corona, Industrialismo e ambiente urbano: le molte identità di Bagnoli in Industria, ambiente e territorio. Per una storia ambientale delle aree industriali in Italia, a cura di S. Adorno e S. Neri Serneri, il Mulino, Bologna 2009, p. 198. E poi in V. Andriello, A. Belli, D. Lepore, Il luogo e la fabbrica. L’impianto siderurgico di Bagnoli e l’espansione occidentale di Napoli, a cura di A. Belli, Graphotronic, Napoli, 1991, p. 192-194.
[3] G. Alisio, Lamont Young: utopia e realtà nell’urbanistica napoletana dell’Ottocento. Officina, Roma, 1984.
[4] G. Corona, Industrialismo e ambiente urbano, cit., p. 204.