Il testo che segue è la trascrizione letterale di una intervista fatta da me stessa a me medesima per aiutarmi a presentare il progetto di dottorato che sto per finire. Questa forma di restituzione è per me l’unica possibile per riflettere sulla fatica, sulle contraddizioni, sulle mancanze e sulle scoperte che ho fatto con questo progetto. L’intervista a me stessa serve dunque a raccontare quel carnevale di intimità multiformi che ho registrato durante questa ricerca sulla politicizzazione della prostituzione di strada nell’Italia degli anni ’80.
Ho scelto l’intervista come oggetto e metodologia di ricerca, perché la storia orale per me è lo spazio in cui due (o più) persone si ritrovano per condividere la propria lettura e comprensione del mondo. Una lettura che nell’incontro si fa condivisa: mettere al mondo il mondo, diceva Alighero Boetti. Una volta messo al mondo, però, bisogna che a questo si trovino le parole per dirsi. Femminile? singolare o plurale? Tocca mettersi d’accordo; le parole presentano il mondo e così ne manifestano tutte le sue aspettative (sociali, individuali, emotive, culturali) e le sue realtà (chi parla, di cosa parla, da dove si parla). ‘Pulla’, ‘puttana’, ‘zoccola’, ‘prostituta’, ‘lavoratrice sessuale’ sono quelle che io e le mie intervistate abbiamo scelto.
Quindi fai attenzione alle parole tu che mi leggi e seguimi.
Chi sei? che ci fai tu qua?
Mi chiamo Giulia, vivo a Brooklyn perché lavoro alla New York University, ma sono di Roma. Sto cercando, col mio dottorato di ricerca, di scrivere una piccola storia della politicizzazione del lavoro sessuale nell’Italia degli anni 80. Lo chiamo lavoro sessuale, ma mi va bene anche parlare di prostituzione di strada. Purché i termini compaiano insieme. Dimenticavo, questa è una ricerca di storia orale. Le voci raccolte sono tutte di donne. La scelta di avere solo donne nel mio lavoro ha due ragioni: una politica e una personale (ammesso che la e tra queste due parole possa essere mai atona). Si dice prostituzione o lavoro sessuale ma l’immagine è sempre femminile: le donne sono sovrarappresentate, stigmatizzate, e questo gli rende molto difficile avere accesso a qualsiasi forma di benessere sociale. Con benessere sociale intendo la possibilità di pensarsi e agire emotivamente, intellettualmente, politicamente, culturalmente e socialmente fuori da ogni oppressione. Questo benessere che nelle società urbane moderne si concentra sull’accesso all’abitare, alla salute, al lavoro e all’autodeterminazione è da sempre negato a chi fa lavoro sessuale. Su questi tre temi (abitare, salute, lavoro) ho cercato di costruire questa piccola storia orale.
Sei molto accademica. Perché hai scelto le prostitute?
Quando sono arrivata a New York volevo lavorare sul ’68 e sulla ricezione della sua memoria, un tema a cui voglio bene perché mi ha insegnato la storia orale. Poi però gli “anni ’68” mi hanno annoiato; meno invece quel gomitolo di riflessioni, di scambi, di flussi migratori che avevano fatto dell’Italia degli anni 68 una esperienza storica particolarmente interessante: occupazioni operaie, studentesche, lotta anticoloniale e quella antipatriarcale emersa dalla critica femminista. Nella storiografia egemone (mi si passi l’accademichese) tuttavia, buona parte di questa complessità di pratiche è rimasta un po’ troppo a lungo concentrata sulla violenza tra stato e movimenti; lasciando così poco spazio di memoria al lavoro fatto per estendere l’impegno politico al di là degli immaginari comuni e creare in quel modo una socializzazione della militanza vasta e complessa.
E a me era questo che continuava ad incuriosirmi: le ibridazioni e le sfumature, gli oggetti nascosti e tutte le manifestazioni storiche che potevano ancora emergere dal racconto di quella fase. In questo senso, il lavoro sessuale era un po’ come l’olio nell’acqua; versato nel tessuto politico militante di quegli anni di grande messa in discussione del reale, era tornato subito su: separato dal liquido sottostante. Perché?
Per capirlo, ho provato a costruire una piccola storia di puttomilitanza. Per parlare di storia, però, bisogna allora che mi chiarisca un attimo. Le parole sono importanti. Allora, ‘prostituzione’ è la parola che meglio appartiene a quella genealogia storica che chi fa lavoro sessuale, in quanto soggetto storico e politico, rivendica per sé; puttana, prostituta, pulla, zoccola è parola della storia. ‘Lavoro sessuale’, invece, manifesta una rivendicazione politica precisa che vuole il riconoscimento di pari diritti nel lavoro per chi si prostituisce. Usate insieme dunque, le parole “lavoro sessuale” e “prostituzione di strada” individuano non solo la rivendicazione politica di una comunità o la sua storia, ma esplicitano, nella loro connessione, un percorso di lotta per la rivendicazione di un accesso al benessere sociale da parte di questa stessa comunità.
Mm, ma ora raccontami che hai fatto. E poi, che cosa c’è di te in questo lavoro?
La riflessione storica e la presa di coscienza politica ragionata a distanza mi hanno molto aiutata a prepararmi, ma volevo andarlo a chiedere alle donne prostitute come si erano organizzate, sentite, pensate. La storia orale mi è venuta incontro, prima facendomi sentire un grande imbarazzo per alcune delle idee che m’ero fatta, e poi aiutandomi a raccontare.
Ero molto rigida quando a Venezia nell’ottobre del 2019 ho iniziato con il mio registratore. Ho cominciato intervistando il Comitato dei Diritti delle Prostitute nella persona di Pia Covre. Ci siamo incontrate e conosciute passeggiando per Venezia per poi spendere due ore in una stanza a parlare della storia del comitato. Pia Covre è stata molto generosa con me, soprattutto nel farmi notare, senza neanche dirlo, che quella lunga riflessione storica teorica che mi aveva garantito credibilità rendeva molto faticoso il nostro dialogo. Per quanto io ci avessi ragionato con sensibilità, continuavo a parlare con lei una lingua che riproduceva quegli immaginari che appiattivano le complessità della prostituzione su delle immagini già conosciute – è un lavoro per te? com’è il rapporto con le donne, faticoso? le chiedevo o lasciavo intendere. Stavo rischiando, insomma, di riprodurre la stessa storia, anche se in una cornice di maggiore consapevolezza.
Ci ho ragionato quasi un anno e da Pordenone mi sono spostata a Catania per costruire un corpus di interviste sullo spazio urbano di San Berillo e la comunità di lavoratrici del sesso che da trent’anni e più lo abita.
Lo smarrimento che aveva prodotto in me l’incontro con Pia mi ha incoraggiata a continuare la raccolta di interviste e così ho provato a ragionare su come e dove proseguire. Quando ho pensato a Catania, non conoscevo nulla della città; sapevo solo che a San Berillo, quartiere di artigianato e prostituzione, era stato scritto un manifesto che, sul modello dello statuto del Comitato di Pordenone, chiedeva la garanzia di diritti e libertà civili per chi si prostituisce. Peraltro Catania è, come Pordenone, una città di provincia, ma del sud d’Italia. Mi sono fatta bastare queste due particelle storiche elementari e sono partita. Era settembre 2020, dovevo rimanere a Catania quattro settimane, sono diventate otto. Ero completamente disorientata quando sono arrivata e infatti la mia prima intervista ho finito per farla con una delle lavoratrici che aveva abbandonato il quartiere. Poi, un giorno alla volta ho preso confidenza con il quartiere; prima andavo lì solo a leggere, cercando di imprimere la mia immagine nella memoria di quelle strade così che poco a poco potessi avvicinarmi e scegliere le mie intervistate. Ho pure tenuto un diario per liberare la testa dai pensieri. L’ho scritto in inglese, chissà perché: non credevo di vivere tra due lingue prima di allora.
[silenzio, penso: mica mi vorrà chiedere che ho scritto nel diario?]
Sfogliando il diario mi ricordo che la mia prima intervista nel quartiere l’ho fatta il 29 settembre, me lo ricordo perché vicino a quella data ho scritto il nome di M., la prima donna con cui ho parlato. M. è arrivata in Italia trentacinque anni fa, parla spagnolo e ha quattro figlie. La casa dove lavora l’ha costruita lei e nello spazio di 10 metri quadri sono in due. Lavora con una compagna. Ci siamo incontrate di pomeriggio tardi, perché lei dalle 9.30 alle 5 lavora. La sua casa è organizzata come un salotto dell’estetista: letto, televisione, radio, carta igienica, bagno. Sono in due e se lo gestiscono da sole, mentre fuori, sulla strada, ci stanno due sedie. Il cliente passa e loro, sedute, decidono se scacciarlo o accoglierlo. A me invece hanno chiesto di sedermi e io non sapevo come.
Ho intervistato M. più di una volta, ma sono anche andata a chiacchierare con lei ogni giorno. Credo che le piacesse sapere che vengo da New York, ma penso anche che ci siamo semplicemente incontrate, viste, mescolate l’una all’altra. Non c’è mai stata distanza tra noi; appena mi ha vista ha deciso che anche io avrei avuto uno pseudonimo, come ha scelto di fare lei per il suo lavoro. Così sono diventata Fresita, che in spagnolo vuol dire fragolina – lei non lo sa e non poteva sapere quanto ce l’ho avuta con mia madre per avermi messo quella cuffietta da fragola con cui compaio in quasi tutte le foto dei miei primi due anni di vita. La storia si ripete due volte, direbbe Marx, prima come tragedia e poi come farsa. O, forse, è solo che i nomi sono conseguenti alle cose e infatti, appena nominata, ho iniziato a riflettere sulla cosa che ero e che stavo diventando. Sono una persona introversa, timida, forte ma anche molto fragile; costruire questo corpus di interviste ha risvegliato in me fatiche antiche. Che cosa fosse la disforia l’ho capito che avevo già compiuto trent’anni, questo significa aver dovuto passare una buona parte del mio presente a guardarmi indietro per scorporare pudori, per andare a toccare quelle oscillazioni tra dolore e entusiasmo che mi avevano turbato tanto crescendo, per uscire una volta e ogni volta di nuovo da quelle trappole emotive costruite per nascondere la mia paura di un sentire libero. E senza dubbio, anche per entrare in relazione con quello che sono e con quello che c’è fuori di me. Sarebbe successo comunque, ma credo che l’incontro con il mio lavoro e l’intimità con cui ho nutrito la mia ricerca abbiano aiutato il mio coraggio.
E poi, c’è qualcosa che ha che fare col sopravvivere: sopravvivere materialmente alla miseria di vivere un lavoro non riconosciuto per le donne di San Berillo e, per me, sopravvivere emotivamente all’incontro che da poco avevo fatto con un lutto tragico e una perdita enorme. Questo sopravvivere ha permesso che io e le donne che ho intervistato ci incontrassimo e costruissimo un terreno comune dove potessi presentarmi anche io.
D’altronde, come scrive Audre Lorde:
quando parliamo abbiamo paura
che le nostre parole non verranno udite
o ben accolte
ma quando stiamo zitte
anche allora abbiamo paura
perciò è meglio parlare
ricordando
che non era previsto che noi sopravvivessimo.
E quindi poi hai parlato anche con altre?
In un certo senso. Dopo aver salutato M. accompagnandola a comprare un registratore che tanto voleva per raccontarsi da sola la sua storia, senza la intermediazione delle mie domande, ho fatto altre 4 interviste e ho finalmente parlato con Franchina, protagonista pubblica delle lotte di San Berillo. Il lavoro di raccolta avrei voluto cominciasse con lei, ma ho capito lavoro-facendo che le sono grata per la sua diffidenza. Mi ha sfidata tanto, stanca com’era dell’uso che in passato è stato fatto delle testimonianze e dell’impegno a raccontarsi. Quella con Franchina è stata una intervista lunga e difficile, ma quando ci siamo salutate mi ha detto: “tu hai capito la verità di questo posto”.
Ho pensato a lungo a questa frase rientrando a New York per trascrivere le mie interviste e completare il capitolo di cui fanno parte, un racconto che a partire dagli anni dell’AIDS ripercorre la creazione di un lavoro di cura di comunità che ha provveduto ai bisogni materiali ed emotivi della comunità di lavoratrici del sesso di San Berillo. Non so se avrei usato la parola “verità”, ma sicuramente capire significa accogliere in sé, contenere ed essere contenute; insomma segna una interdipendenza tra me e quel luogo, ma anche un essersi fatte spazio, per San Berillo in me e per una mia presenza in quel luogo che all’inizio mi sembrava quasi ostile.
Non ci può essere intervista senza restituzione, eppure restituire in supporto audio o forma scritta il mio lavoro al quartiere significherebbe tornare a quella intraducibilità e incomunicabilità che in questi anni di lavoro ho cercato di scomporre. Inoltre, restituire qualcosa di fisso ad una comunità che si sposta, che vive di passaggi e fughe, significa commettere una violenza, inchiodarla ad una rappresentazione che non le appartiene. Così, consapevole che il mezzo intervista non fosse più opportuno, ho scelto invece di tornare a San Berillo un’altra volta nell’estate successiva alla raccolta di interviste per mettere le mie risorse in dialogo con la comunità. Ho restituito quel lavoro di educazione emotivo-politica che avevo ricevuto al mio arrivo, ma partecipandovi attivamente questa volta. Ho passato tutta l’estate del 2021 a Catania, ho partecipato alla vita politica del quartiere, ho condiviso il mio tempo con le mie intervistate. Mi sono divertita.