Ho conosciuto Héctor “Mono” Carrasco1 nel 2018, a Forlì. Stavo partecipando ad un progetto di ricerca sulla street art del dipartimento SARAS della Sapienza Università di Roma, coordinato da Alessandro Simonicca e Alberto M. Sobrero. Mi stavo interessando di muralismo italiano nell’età della contestazione, indagando in particolare il legame tra forme artistiche su strada e movimenti sociali urbani. Nelle raccolte fotografiche e sui quotidiani coevi, che rappresentano fonti preziose per studiare una forma d’arte tanto effimera, diverse erano le immagini che ritraevano opere dipinte da esuli cileni, realizzate per lo più in concomitanza con gli spettacoli musicali degli Inti Illimani durante le feste dell’Unità. La compresenza, nei quartieri urbani, di graffiti ascrivibili a collettivi politici dell’area della nuova sinistra e murali cileni mi incuriosiva.
La ricerca mi portò a Carrasco, animatore della Brigada Ramona Parra, che contattai via e-mail. Fu molto disponibile e mi invitò a Forlì: era in procinto di restaurare un murale realizzato nel 1976 dalla Brigada Salvador Allende. Assieme a Mono, sul muro di cinta della caserma di via Minardi, avrebbero lavorato le studentesse e gli studenti del liceo artistico della città, nell’ambito di un progetto promosso dall’associazione Città di Ebla.
Ho comprato una videocamera, mi sono messa in macchina e il 24 ottobre ho incontrato Mono sotto i ponteggi del cantiere. È stata la mia prima videointervista, un vero disastro: luci sbagliate, microfono mal posizionato, inquadratura pessima. Per fortuna avevo una doppia registrazione – le buone pratiche! – e un audio decente. Propongo qui la trascrizione dell’intervista in versione (quasi) integrale2.
Il testo si completa con alcune aggiunte, tratte da un secondo incontro avuto con Carrasco il 29 giugno 2023 a Pistoia, nel parco di Montuliveto. In questo caso, il contesto di registrazione è un’iniziativa pubblica, organizzata dall’associazione Spichisi e dalla Fondazione Valore Lavoro con il sostegno dell’associazione Amici di Montuliveto, del Comune di Pistoia, e con il contributo della Fondazione Caript e del Ministero della Cultura. Si tratta del primo di una serie di incontri, attualmente in corso, che intendono ragionare attorno ad un’opera di grandi dimensioni dipinta sul muro dell’ex palestra del parco, questa volta dalla Brigada Pablo Neruda e nello specifico da Antonio Arevalo3, l’11 settembre 1976.
I due documenti presentano dunque caratteristiche diverse: il primo è un’intervista a due, il secondo un dialogo pubblico; il primo è costruito per finalità di ricerca, il secondo nell’ambito di un’iniziativa di public history. Gli stessi interlocutori si collocano in due momenti biografici e in un contesto geografico diverso. Tuttavia, Carrasco è un personaggio pubblico, che è stato intervistato molte volte4 e, recentemente, ha anche organizzato le sue memorie in un’autobiografia5. La differenza tra i toni e le parole dei due documenti non è parsa dunque così significativa; ad ogni modo le integrazioni del 2023 sono state segnalate con il simbolo ٭.
Quello di Mono è un racconto che procede per immagini: la memoria dipinge dei piccoli quadri di racconto. Nell’intervista del 2018, c’è un gesto ricorrente che segna una certa cadenza: ogni tanto, Mono si sfrega le mani per togliere residui di vernice e lo fa in un modo che sembra dettare un ritmo, come se prendesse un respiro prima di dire qualcosa di emotivamente significativo.
Nel sonoro, le contaminazioni tra italiano e spagnolo sono molto più frequenti di quanto abbia reso nella trascrizione: ho fatto una scelta che favorisse una lettura scorrevole, ma ho riportato in conclusione uno stralcio audio che restituisce l’esperienza comunicativa più di quanto possa fare lo scritto.
Il fascino del Cile di Allende attraversa diverse generazioni, mi colloco tra le molte e i molti. Mia figlia ha un nome che viene dalla letteratura cilena, Eva Luna, che mi è vibrato nel cuore fin dal suo primo battito. Quando mi sono trasferita nella casa dove pensavo avrei vissuto molti anni, ho comprato un quadro di Carrasco, Campesino. Un moto dell’animo mi attira verso le vicende che racconta Mono, anche se nei cinque anni che separano i due documenti sonori mi sono occupata di altro.
Giulia: Allora, partiamo dal Cile. Come è nata la Brigada Ramona Parra e il tuo impegno personale in questo gruppo?
Mono: La Brigada Ramona Parra, come tu sicuramente sai, ha questo nome in onore a un’operaia tessile che è stata assassinata in una manifestazione per migliorare la situazione economica e del lavoro, nel 1947. Era una ragazza di 22 [Sic: 19, Nda] anni e quando abbiamo creato questo gruppo, che in realtà erano sette persone, abbiamo pensato di dargli questo nome in onore a questa ragazza. La prima uscita di questi sette pazzi è stata nel 1969, in una marcia contro la guerra del Vietnam fatta dal porto di Valparaíso a Santiago, che sono circa 120 chilometri. Una marcia dove c’erano attori, gente che lavorava coi pupazzi, poeti e persone comuni. Tutto chiaramente per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa guerra che per noi era ingiusta. […] In quell’occasione avevamo fatto solo lettere: la parola d’ordine era “No alla guerra del Vietnam, Yankees go home”. Ora, lo interessante era che con questo gruppo di sette persone giravamo sopra – io non so da dove era venuta fuori! – una vecchia jeep della seconda guerra mondiale americana [sorride]. Ora la cosa assurda è che – non avevamo soldi eh, io avevo sedici anni – …
Giulia: Giovanissimo!
Mono: Avevamo fatto un intruglio con olio bruciato di macchina, catrame liquido e una cosa che si chiama engrudo che è, in poche parole, una colla che si fa con la farina, non so se ce l’hai presente, si usa anche a scuola…
Giulia: Ah! Forse ho capito, si usa anche per attacchinare i manifesti?
Mono: Si, sì, infatti. E con questo facevamo delle scritte, anche sui sassi perché tieni presente che tra Valparaíso e Santiago c’è la cordigliera delle Ande che a quei tempi – adesso ci sono i ponti, le gallerie – ma a quei tempi era tutto un andar su, capito? Sopra non c’era proprio niente, solo i grandi sassoni delle Ande e allora scrivevamo lì. Questa è stata la nostra prima uscita.
Giulia: Ma voi come vi siete conosciuti? Eravate già amici, per impegno politico…?
Mono: Per impegno politico. A quei tempi sai, in America latina, a causa delle condizioni economiche, soprattutto noi ragazzi, studenti, stavamo tutti, o in gran parte, da questa parte della barricata. Io personalmente vengo da una famiglia di ceto medio: mio padre ero chimico grafico, faceva le formule per i colori.
Giulia: Ecco perché sapevi come destreggiarti coi colori…
Mono: ٭A un certo punto della mia vita c’era stata una grande alluvione a Santiago, sto parlando del 1967-68, e noi ragazzi dei licei andavamo ad aiutare la gente che aveva perso tutto٭. Mi ricordo di essere andato in un quartiere [si sfrega le mani], una baraccopoli – una baraccopoli si chiama, no? Queste case fatte con il cartone e con materiali di recupero… – Si era inondata per l’acqua, per la pioggia, e allora eravamo andati per dare una mano, per stare con la gente, portare delle coperte e tutto, e da lontano sento – non so se si può proprio dire così – due occhi neri che mi guardavano; vengo attirato da questi occhi… Era un bambino, di tre anni, con una magliettina, pantaloncini corti, senza scarpe, che mi guardava. [pausa] ٭Sono tornato a casa dai miei – sono figlio unico, tra l’altro, e il rapporto con mia madre e mio padre è stato sempre abbastanza silente – sono arrivato a casa e ho raccontato a mia madre questa storia: che avevo incontrato questo bambino che aveva questi occhi neri bellissimi, ma di una tristezza increíble٭. Questa immagine mi ha colpito talmente tanto che credo che in quel momento ho deciso di stare da questa parte della barricata. ٭Volevo fare il calciatore, mio padre era stato un giocatore professionista negli anni Quaranta e mi aveva messo [in testa] questa cosa del calcio: io giocavo il sabato mattina, il sabato pomeriggio, la domenica mattina, la domenica pomeriggio. Ma da quel momento i sogni di calciatore e sono finiti e sono iniziati i sogni di cambiare il mondo. ٭ Mi è sembrato di un’ingiustizia così profonda, che un bambino potesse vivere in quelle condizioni, che mi sono detto: «Devo fare qualcosa perché questa situazione possa cambiare». Ora questo gruppo, perché nel ’69? Perché era l’anno prima dell’elezione presidenziale del 1970, del 4 settembre 1970, che avrebbe poi eletto Salvador Allende presidente della Repubblica. Da questo gruppo di sette con i giovani di tutti i partiti della coalizione, che si chiamava Unidad Popular, avevamo da una parte deciso, dall’altra anche per una questione economica, di far diventare i muri i nostri manifesti. Cioè durante quella campagna si scriveva “Allende” a lettere immense e il numero “3” che era il numero del voto, capito? Tenendo conto che dipingere i muri era vietato, pertanto doveva avere due particolarità: uno che dovevi farlo in frettissima; due – per questo si faceva di notte – che al mattino quando si alzava la città di Santiago, o la città di Concepción o altre città, la gente doveva vedere il nome del candidato. Questa era la meta, no?
Giulia: Poi, penso, la strada è un posto dove passano tutti. Il giornale non tutti lo comprano, non tutti lo leggono. Era più democratica come forma di comunicazione…
Mono: Sì, questa cosa che tu giustamente dici: il giornale o lo compri, o vai al bar a leggerlo, ma io ho visto gente che non ha mai letto un giornale in vita sua. E c’era un muro, che non esiste più tra l’altro, che era vicino ad un posto dove facevano panini che si chiamava “Fuente alemana” e allora noi lo chiamavamo “il muro della Fuente alemana”. Avevamo fatto un calcolo che vicino a quel muro lì passavano, più o meno, 500.000 persone al giorno, perché era proprio [breve pausa].
Giulia: Uno snodo del traffico.
Mono: Uno snodo per la gente che viene dal sud di Santiago, dalla Cordigliera, passava di lì e allora… Yo credo qualche sera di averlo dipinto due volte. Nel senso che tu dipingevi, facevi “Allende”, magari ripassavi due ore dopo e c’era scritto l’altro candidato e allora cancellavi e lo rifacevi. Ora, la differenza profonda era che gli altri erano pagati, eh! La cosa increíble è che siamo riusciti a creare novanta gruppi in tutto il Cile di 12-15 persone l’uno. ٭ Un esercito di persone che [dipingeva] soprattutto il fine settimana, perché per la maggior parte eravamo studenti disoccupati ma anche perché, soprattutto, avevamo capito come funzionavano gli altri gruppi, i gruppi degli altri candidati: avevamo capito che se noi andavamo a dipingere con pittura il nome di Salvador Allende verso le quattro del mattino, quando la città si svegliava, si svegliava con il nome di Salvador Allende dipinto sui muri. ٭Bisognava essere in tanti per fare in fretta e ognuno aveva il suo compito: uno dipingeva il rosso, uno dipingeva il blu, otro il bianco di fondo. Per fare in fretta. E quando…
Giulia: E ogni gruppo aveva un nome diverso o erano tutte brigate Ramona Parra?
Mono: Tutte brigate Ramona Parra, indistintamente, da Arica a Punta Arena, si chiamavano tutte così. È stata chiamata la “battaglia dei muri”: gli intellettuali, gli studiosi, hanno denominato così quel periodo del muralismo cileno. Questa forma di propaganda […] aveva la particolarità che era vietata. Ora questo voleva dire due cose: uno, chi [guidava] il camion doveva conoscere la città come il palmo della sua mano per poter scappare, sensi unici e quella roba là; due, quando ti prendevano i carabinieri – in Cile sono anche vigili urbani però si chiamano carabinieri, non sono uguali a questi italiani – mettevano uno di noi dentro, non tutti, lo mettevano in carcere. E siccome io ero il responsabile, mi toccava sempre star dentro. Che non succedeva niente, per l’amor di Dio eh!
Giulia: Cioè, ti facevi una notte in cella, questo succedeva?
Mono: Sì, ti portavano in tribunale e c’era un giudice che ti faceva la ramanzina: «Non si dipingono i muri»; ma, soprattutto, per essere liberato ci doveva essere un adulto che ti veniva a prendere.
Giulia: Certo, perché eri minorenne.
Mono: ٭ Quando uno ha l’età che avevo io, era un po’ un orgoglio: «Sono stato messo in prigione per aver dipinto per strada!» Ma non potevo dire a mia mamma – mio papà lo sapeva, ma mia mamma no – che ero stato messo in prigione. Veniva sempre qualcun altro dell’organizzazione. Mia madre secondo me lo intuiva, lo capiva, lo sapeva, ma non le ho mai detto che ero stato messo in prigione. Fino all’ultima volta che l’ho vista, prima che se ne andasse, non ne abbiamo mai parlato [esplicitamente], ma quando le parlavo di queste cose lei sorrideva٭. Allora, questa cosa che ti sto dicevo, penso di essere stato dentro sedici-diciassette volte.
Giulia: Nell’arco di una sola campagna elettorale!
Mono: Ora, c’è anche un film, te lo posso inviare, un film in bianco e nero fatto da un regista cileno, che penso non ci sia più, che è stato recuperato per pura casualità perché chiaramente tutti quei filmati sono stati bruciati dalla dittatura, sono 16 millimetri. Yo ne ho un pezzo, sono circa quindici minuti e te lo posso inviare, così ti fai un’idea.
Giulia: Magari, grazie.
Mono: Quando vince Salvador Allende, il giorno dopo l’elezione, che c’è stata il 4 settembre, siamo andati a realizzare un murale proprio al centro di Santiago che, secondo noi, doveva rappresentare la vittoria. Ora [ride] la cosa assurda è che l’abbiamo fatto coi colori avanzati della campagna elettorale: rosso, blu, bianco e nero; il giallo non c’era. Figurati che è venuto fuori!
Giulia: Cupo, un po’ cupo [sorride].
Mono: Una roba che doveva dire: «Allegria, abbiamo vinto, el Cile nuovo!» Invece era una roba triste. Non credo che esistano fotografie, ma mi ricordo che ho detto: «Ma non doveva tirar fuori allegria?» [ride].
Giulia: Ma, a quel punto, facevate anche le figure?
Mono: Quello fu il primo con le figure.
Giulia: Quindi durante la campagna erano scritte e basta.
Mono: Senza nessuna figura, niente.
Giulia: E questo qui [fatto dopo la vittoria] cosa raffigurava?
Mono: Mah, secondo me c’erano molte spighe, ingranaggi, tutto ciò che aveva a che fare con il lavoro e un lingotto di rame. Perché sai che nel programma c’era – e si è avverato poi – la nazionalizzazione del rame.
Giulia: Una risorsa primaria per il Cile.
Mono: Rappresenta il 70% della ricchezza del paese. Quando Salvador Allende ha nazionalizzato il rame, abbiamo potuto creare più ospedali, più università, più facoltà. Tieni conto che noi abbiamo 4.780 chilometri di mare e non avevamo una facoltà che studiasse il mare, che è assurdo! Questo perché eri soggetto al potere dello zio del nord: cioè noi producevamo rame e compravamo filo di rame ai nord-americani. Un’assurdità assoluta. […] Perché chiaramente le tecnologie le avevano loro, non le avevamo noi e non avevano neanche i soldi. Ora il muralismo cileno, come tutto il muralismo anche quello messicano, è fatto essenzialmente di simbologie che dovevano essere talmente chiare da essere capite immediatamente dalla gente. Cosa voglio dire: non potevo fare una cosa rotonda e aspettare che passasse la gente e dirgli: «Guarda questa è una cosa rotonda che simboleggia…» No. Tu guardavi e subito: «Quello è un lingotto, quello è un sole…» Il muralismo ha avuto questa particolarità: la simbologia codificata nel tempo della gente. Tenendo conto che noi, come cileni, non avevamo nessuna esperienza…
Giulia: Artistica pregressa.
Mono: Esattamente. Perché i nostri antenati, i mapuche, erano guerrieri. Guerrieri a tal punto che gli spagnoli per dominarli ci hanno messo trecento anni. Però non c’era niente di artistico: c’è un museo di storia naturale a Santiago e ci sono quattro cose.
Giulia: Dici che non erano come i Maya, gli Atzechi che avevano culture…
Mono: Mi ricordo che i peruviani, quelli che oggi chiamiamo peruviani, avevano fatto delle cose! Da noi invece anche i disegni eran brutti, i colori erano sicuramente fatti con la terra, ma senza nessuna fantasia. Mi ricordo di aver visto dei piatti per mangiare che erano grezzi, come dire…
Giulia: Non raffinati.
Mono: Non avevano questa finezza che avevano invece i messicani, i peruviani, capito? Ora cosa è successo, dal punto di vista del muralismo: ci siamo seduti il 6 o il 7 settembre del 1970 e ci siamo detti: «Cosa facciamo con questo esercito di gente che dipinge? È un patrimonio che non possiamo disperdere». E allora abbiamo deciso di creare questa cosa che ti sto raccontando del muralismo, rubando: rubando idee dalla grafica cubana degli anni Settanta, non so se tu la conosci, era molto precisa: sono dei manifesti fatti in serigrafia, tipo: tante frecce, una cosa rotonda e “A la plaza”. Cose molto immediate. Poi i colori piatti di Fernand Léger, un grande pittore francese che non usava le sfumature, solo colori piatti. Perché dovevamo creare una tecnica che permetteva a tutti di dipingere. Non posso dire a uno che studiava ingegneria, che magari capiva solo di numeri: «Fammi una sfumatura di giallo»; quello lì impazziva! E dovevano essere fatti in fretta.
Giulia: Anche su grandi superfici.
Mono: Sì, tieni conto che i tre colori base erano preparati in barattoli, “barattoli” da cento chili, e da lì prendevi un pochino di pittura, in un [recipiente] più piccolo di questo [indica un secchio], e dipingevi. [Si sfrega le mani]. Era come una terra di colore, che però aveva un componente che lo faceva rimaneva attaccato al muro: la terra di colore non rimane attaccata. Avevamo rubato anche a David Alfaro Siqueiros, Clemente Orozco, tutta questa gente del muralismo messicano, essenzialmente le linee nere. Per due motivi: uno, dipendendo anche dalla grossezza della linea, il nero ti dà l’idea della profondità; due, e essenzialmente per questo secondo me, il nero copre le magagne. Siccome lavoravi con gente che non aveva esperienza… con il nero, passa la “signora Maria”, io la faccio dipingere, lei sbaglia e io con il nero metto a posto. È questa la filosofia. Naturalmente non erano più novanta gruppi, metti cinquanta gruppi, che non continuamente, ma in forma sporadica continuavano a disegnare per tutto il Cile, allora si facevano dei murales con le scritte, molto succinte. Parola d’ordine, pam. Venivano fatti secondo la situazione politica di quel momento, politica nazionale. Rame: l’11 giugno del 1971 si nazionalizza il rame e su tutti i muri del Cile, dove si poteva, c’era scritto “Ora il rame… Ahora el cobre està cileno”. Con dei lingotti e con un colore che assomigliava più o meno al rame.
L’altra cosa che secondo me è importante da tener conto è che ha giocato un ruolo importante nell’alfabetizzazione. Quando Salvador Allende ha preso il potere politico avevamo, soprattutto nei posti più sperduti a sud e a nord, molti analfabeti. L’idea era di alzare il livello scolastico della gente – c’era nel programma – pertanto l’estate, o nel periodo delle vacanze di inverno, partivano gli estudianti per fare dei corsi di alfabetizzazione. Ci siamo trovati con il popolo mapuche, che non parlava spagnolo [si sfrega le mani] e allora facevamo solo le lettere, le vocali ad esempio, grandi, sui muri. E c’è stato un altro problema, del quale abbiamo dovuto tener conto. Nelle quaranta misure di Salvador Allende c’era finire la mortalità infantile per colpa della denutrizione; ogni bambino cileno aveva diritto a mezzo litro di latte al giorno, però era latte in polvere. Tu, che vivi nella vecchia Europa, sai che devi farlo con l’acqua calda. Una persona, che non l’ha mai fatto in vita sua, lo fa magari con l’acqua del secchio e ora, invece che risolvere il problema dell’alimentazione abbiamo avuto il problema della dissenteria nei bambini. Allora la preparazione di questo latte in polvere, l’abbiamo ricreata sui muri per chi non sapeva leggere.
Giulia: Ma dai, fantastico!
Mono: Sì perché, chiaro, sulle confezioni c’era tutta la spiegazione, ma se la gente non sapeva leggere, non poteva leggerla. Tu che sai leggere, dai per scontato le cose. Allora metti, semplicissimo: “Lava le mani prima di…” Allora c’era un rubinetto, da cui veniva fuori l’acqua e c’erano le mani che si lavavano… così. Il ruolo del muralismo. Ahora, non saprei dirti con precisione quanti murali sono stati fatti in quegli anni, anche perché non c’è niente di archivio, niente di visivo [si sfrega le mani]. Un numero enorme. Tanti, tanti, tanti. Magari qualcuno, che ha avuto la prontezza di capire il momento storico, ha fatto qualche foto in bianco e nero. La cosa increíble è che quando è arrivata la giunta militare, tutti questi murales sono stati cancellati. Questa è l’unica forma artistica nel mondo completamente cancellata. [Si sfrega le mani] Non esiste più. Ne è rimasto solo uno che avevamo fatto sul muro di una piscina in un comune alla periferia, molto povero, che si chiama La Granja, con Roberto Sebastiàn Matta.
Giulia: Hay que crear para creer.
Mono: Sicuramente lo conosci. Quando ha vinto Salvador Allende. Matta è andato in Cile, era amico di Salvador Allende, e si è offerto: «Cosa posso fare per dare una mano?» Allora Allende gli ha suggerito questo comune molto povero. Pensa che lui ha messo i soldi anche per costruire il muro: è un muro di cemento armato, non di mattoni, stranissimo. […] Matta era architetto fra l’altro, e se tu lo vedi in sezione questo muro qua era così [fa un gesto che disegna un muro ondulato]. Secondo lui, quando pioveva, la pioggia non vi scorreva sopra: io non so se questa cosa era vera, la cosa vera è che era di uno scomodo per dipingere che non ti immagini! Tu sei abituato comunque a questa roba che va giù dritta. ٭Ha chiamato questa opera El primer gol del pueblo chileno, era il 1971. ٭
Giulia: Ma questo muro fu costruito apposta per essere dipinto o serviva a qualcosa?
Mono: Solo per essere dipinto, all’epoca. Mi ricordo che prima ha fatto fare il muro e poi lui è arrivato via mare con una tanica di duecento litri di – come si chiama questo [indica un barattolo]…- un componente trasparente che ha fatto arrivare dall’Italia. Ora, tieni conto che quel muro la dittatura lo ha fatto cancellare diciassette volte: diciassette anni di dittatura, una volta l’anno dava una mano. Chiaro, non dico che ci siamo dimenticati ma è passato a terza, quarta, quinta preoccupazione! Le preoccupazioni erano altre: i prigionieri politici, la gente che era in campo di concentramento… Poi è successo questo che quando è arrivata la democrazia, dopo il 1988, è diventato sindaco un signore di quella città che allora, quando avevamo dipinto questo muro, era uno dei ragazzini che andavano nella piscina di zona e si è ricordato di questa cosa qui. Ha trovato i finanziamenti per ripristinarlo, ha chiamato dei tecnici, tra cui un restauratore cileno che aveva studiato restauro a Venezia, e yo non mi ricordo per quale motivo ero in Cile ma mi hanno chiamato a raccontare un po’ la historia del murale, anche le cose tecniche. Sai che per restaurare, la prima cosa che fanno quadricolano, poi aprono una finestra e cominciano con un bisturi e con una lente di ingrandimento, centimetro per centimetro… La cosa assurda è che tutte queste cappe di cemento che aveva fatto mettere la giunta militare erano servite a proteggerlo. La cosa bellissima è che poi son tornato, ancora tempo dopo, e questo sindaco, che secondo me era un genio come tutta la gente del popolo che ha delle genialità, intorno al muro ha costruito una Casa della cultura e il teatro della Casa della cultura, il palcoscenico, ha come fondo il murale di Matta. Ahora, per me e per qualcun altro che magari ha partecipato alle brigade, è molto bello e ti assicuro che emoziona molto.
Giulia: Certo…
Mono: Ti emoziona molto anche perché è stata una forma d’arte vietata, completamente cancellata. Ora, oggi come oggi, molto tempo dopo il muralismo è diventato arte nazionale, per legge. Tieni conto che a Santiago, per farti un esempio, ci sono circa 80 stazioni della metropolitana e ogni stazione ha un murale fatto dalla gente o fatto magari da artisti o gruppi, e quel murale ha qualcosa a che vedere con quello che c’è sopra. Il muralismo oggi è un fenomeno di massa e questo fatto, come dire, è la più grande soddisfazione di tutti noi, quei sette pazzi che hanno cominciato. [Si sfrega le mani]. Diciamo che…la battaglia, lo dico oggi con orgoglio, quella battaglia non armata, ma con i pennelli, l’abbiamo vinta noi. […]
Giulia: ٭Senti dopo il 1973, dopo il ’74, il muralismo cileno va fuori dal Cile, si diffonde in altri contesti nazionali. C’è stata quindi, in qualche modo immagino, una trasformazione di questa forma di arte. Come l’hai vissuto, come l’avete vissuto, questo cambio di contesto?
Mono: […] Quando siamo arrivati in Italia, e in tutto il mondo anche, in Francia, in America latina e in altri paesi d’Europa, il muralismo cileno ha giocato un ruolo preponderante, mi azzarderei a dire, per quanto riguarda la solidarietà verso il popolo cileno, verso la giusta causa di recuperare la democrazia del nostro popolo. Difatti […] la Brigada Pablo Neruda aveva fatto una cartella con delle stampe A3 – i disegni originali li avevamo realizzati a Perugia con tempera, poi sono stati trattati per realizzare le stampe -. Mi sembra che costavano diecimila lire a cartella, con sette disegni, che non era poco. Ne avevamo fatte cinquantamila e la gente le comprava, magari non perché i disegni erano belli, ma perché considerava che acquistare una cosa di questo tipo fosse una forma di solidarietà. Mi son trovato questi disegni in case dove erano tramandati: il papà l’aveva comprato e si era tramandato in famiglia come opera d’arte. Ora, il muralismo all’estero ha giocato un ruolo preponderante nel mantenere viva la solidarietà. […]
Ancora adesso: quando si sono compiuti quarant’anni dal colpo di stato in Cile, la CGIL Lombardia ha fatto un grande concerto degli Inti Illimani a Milano e ci ha chiesto di realizzare un murale. Il muralismo cileno ha giocato un ruolo in questo: essere al servizio di una causa giusta, come ad esempio la liberazione dei prigionieri politici. Yo mi ricordo che c’era una ragazza cilena, avrà avuto ventidue/ventitré anni, che era stata messa in prigione dai militari, è arrivato il suo nome – io non la conoscevo personalmente –. Dopo essere stata liberata, è arrivata in Italia come prigioniera politica e raccontava che una gendarme – si chiama gendarme, no? – era arrivata alla sua cella e le aveva detto: «Guarda ragazza sei salva perché in Italia hanno fatto un murale con il tuo nome». Questo è un ruolo che ha giocato anche il muralismo cileno, sembra assurdo ma… tante piccole voci: c’è una canzone di un cantante uruguayano che dice che una voce unita a un’altra voce fa il mare.
Giulia: Ti faccio un’ultima domanda [,,,] c’è un murale al quale sei particolarmente legato?
Mono: In realtà due o tre. Faccio una premessa: ogni murale ha una storia diversa dall’altra, dipende dal posto dove si fa, chiaramente, e da tutta la situazione creata attorno dalla gente. Però ce ne sono alcuni che ci ricordiamo di più, ma non necessariamente perché sono più belli […]. Ce ne è stato uno, fatto nel ’75 [il 6 settembre, Nda] all’Arena di Verona: c’erano i gruppi musicali, gli Inti Illimani e i Quilapayùn, ed era venuta anche la vedova del cantautore cileno ammazzato dalla dittatura Victor Jara, e ci avevano chiesto di realizzare un murale su questo palcoscenico. In realtà il palcoscenico dell’Arena non è un palcoscenico, è un campo di calcio [ride], è una cosa increíble! E allora avevamo portato tre grossi pannelli, immensi, […] e la idea era che ce ne fosse uno in mezzo, fisso, e uno a destra e uno a sinistra che avevano le ruote, ma la gente non lo sapeva. A un certo punto, in accordo con i musicisti, si spengono le luci e mettiamo insieme questi tre pannelli. Per cinque minuti abbiamo sentito un ruggito di ventimila leoni che gridavano, cantavano, applaudivano, accendevano le torce: per dimostrare che si approva un concerto, si accendono le fiaccole e noi dal palcoscenico vedevamo tutte le gallerie dell’Arena di Verona accese, sembrava un incendio! Giustamente, più tardi, parlando di questo evento con uno degli Inti Illimani, dicevamo che, dopo quella sera, noi tutti che eravamo su quel palco non siamo più stati gli stessi perché abbiamo sentito la solidarietà del popolo italiano, ma anche l’immensa responsabilità che avevamo di aiutare alla libertà del nostro paese. Quando ci vediamo con gli Inti Illimani, un po’ come tutti i meno giovani parliamo sempre delle stesse cose [ride], questa ce la ricordiamo sempre.
L’altro che potrei dire importante, l’ho fatto quattro/cinque mesi fa in solidarietà con le donne iraniane. Mi è stato chiesto da una rappresentante delle donne iraniane di Torino di realizzare quest’opera abbastanza grande […] dentro una scuola, però messa in un modo che si vede anche dalla strada. A questa opera hanno partecipato più di centocinquanta persone, ed è stato fatto tra un sabato e una domenica pertanto non c’era la scuola, c’erano molti insegnanti, la preside, persone amiche, gente solidale, gente del quartiere. Credo che la gente sicuramente è venuta per il piacere di dipingere, per il piacere di stare insieme, perché il murale è anche questo: quando lo fai deve essere un momento di incontro, di opinioni, di idee […]. Son convinto di questa roba qua, ma secondo me questo murale per le donne iraniane ha anche questo pregio: la gente è andata lì per dipingere, per divertirsi, per stare insieme, ma sicuramente anche per un sentimento di solidarietà per le donne iraniane. […] Questa arte quando è collettiva è sempre un atto di ribellione, questa è la mia opinione. ٭
Risposta di Mono Carrasco a una donna del pubblico che ha ricordato, commossa e arrabbiata, il golpe del 1973_Pistoia_Parco Montuliveto_29_06_2023.
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Immagine di copertina: Fotogramma dell’audiovisivo prodotto dal Centro de alumnos Instituto pedagogico Universidad de Chile realizzato da Claudio Sapiain e Alvaro Ramirez con musica dei Quilapayun, conservato da Héctor Mono Carrasco, s.d. (presumibilmente 1970).
NOTE
1 Héctor “Mono” Carrasco nasce nel 1954 a Santiago del Cile da una famiglia di ceto medio. Da ragazzo, appassionato di calcio, gioca come mediano e studia presso l’istituto commerciale. Nel 1968 un incontro con due occhi neri tristissimi cambia la sua vita. L’anno seguente partecipa alla grande marcia contro la guerra in Vietnam da Valparaiso a Santiago e inizia, di lì a poco, l’avventura della Brigada Ramona Parra: un esercito di giovani muralisti che aderisce al sogno di una via democratica al socialismo impersonato da Salvador Allende e dal governo di Unidad Popular. Il sogno si infrange l’11 settembre 1973, Carrasco vive in clandestinità per un anno poi salta il muro dell’ambasciata italiana di Santiago e ottiene lo status di rifugiato politico. Da allora vive in Italia.
2 Come d’uso, i tagli sono segnalati da tre puntini di sospensione fra parentesi quadre. Alcuni stralci sono stati precedentemente utilizzati nel saggio “No ai muri puliti. Sporcheremo tutto”. L’arte di strada negli anni Sessanta e Settanta, pubblicato in Alessandro Simonicca e Benedetto Vertucci (a cura di), Street art fra antropologia urbana e attività artistica, CISU, Roma 2021.
3 Con il quale è stato organizzato un secondo incontro pubblico, il 13 luglio 2023, coordinato da Leila Harkat.
4 Ad esempio, è uno dei testimoni di Nanni Moretti in Santiago, Italia, 2018.
5 Hector “Mono” Carrasco, Cile Italia, sola andata. Storia di un profugo cileno, FuoriAsse Edizioni, Torino 2023.