Presentazione del libro di Dario Calimani: L’ebreo in bilico. I conti con la memoria tra Shoah e antisemitismo, Giuntina, 2021, presso l’Ateneo Veneto, Venezia, 3 maggio 2022.
Mi denuncio subito come lettore non distaccato rispetto all’autore del libro. Dario Calimani è stato il mio professore di letteratura inglese al primo anno di Università a Ca’ Foscari, nel 1990-91: teneva un corso sui testi di Oscar Wilde, Samuel Beckett e Harold Pinter. I temi erano quelli del rapporto tra realtà e finzione; il teatro dell’assurdo, con le sue atmosfere surreali ma in realtà angoscianti; e poi lo strano realismo minimalista di Pinter, fatto di interni domestici dove la comunicazione era incredibilmente complicata.
Venivo da un liceo di una città di provincia, da una famiglia senza intellettuali, con una biblioteca casalinga limitata: quel corso – culturalmente parlando – fu una scossa elettrica. Culminava con un libro – Radici sepolte – sul teatro di Pinter. Ricordo di aver avuto grazie a quel testo la mia prima iniziazione alla cultura ebraica, e di aver ringraziato proprio per questo il professore alla fine dell’esame: ne ero uscito un po’ più consapevole rispetto a un mondo fino ad allora da me poco conosciuto, distante, e che scoprivo ricco, stratificato, in una parola interessante.
Ho ritrovato molti fili e temi di allora in questo piccolo libro, dalla scrittura densa e finemente cesellata. Qui il critico Dario Calimani esercita la sua interpretazione non sopra l’opera di un artista, ma sulla propria stessa esperienza, anzi, sulla memoria personale, e familiare, e del gruppo sociale in cui più fortemente si riconosce.
Non è un’autobiografia, anche se comincia con un ricordo d’infanzia – nel letto dei genitori, a 4 o 5 anni vede la mamma piangere mentre racconta a un’amica di non aver trovato la propria madre quando tornò a Venezia dopo la guerra, dall’asilo forzato in Svizzera – e prosegue seguendo a balzi il filo del tempo fino al passato prossimo, attraverso frammenti: 28 frammenti che sono i brevi capitoli di cui il libro è composto. Ogni capitolo origina spesso dal ricordo di un’esperienza personale e si allarga a meditazioni, riflessioni più ampie. Ma non c’è il racconto di una vita come se fosse un tutt’uno, abbracciabile in un unico sguardo retrospettivo.
Anzi, direi che al centro del libro, più che l’autore, ci sono gli altri: persone, tutte persone vere, chiaramente individuabili anche se non sempre dichiarate con nome e cognome: i familiari, alcuni insegnanti e compagni di scuola, alcuni colleghi, studenti, amici, intellettuali. Ciascun individuo entra nel libro perché l’autore lo ha incontrato personalmente, ne ha ascoltato le parole, ha dialogato con lui faccia a faccia.
È un libro di incontri, quindi, e di dialoghi, non sempre gratificanti, anzi quasi sempre urticanti. La situazione ricorrente è questa: in un contesto familiare, in una relazione di consuetudine o di amicizia o di stima intellettuale, nel bel mezzo o spesso alla fine di un dialogo con qualcuno che l’autore sente affine e affidabile, improvvisamente si apre una crepa, perché l’interlocutore dice qualcosa di sfasato, di assurdo, di ostile, che ha a che fare con l’ebraicità dell’autore, il quale è il destinatario di quelle parole.
Ho pensato che questo potrebbe essere letto come un libro di sketches, brevi scene teatrali che ricordano quelle di Harold Pinter.
Però non è una scrittura di fiction. Pur non essendo un’autobiografia, il patto narrativo con il lettore è quello della sincerità. È una scrittura saggistica che assomiglia a quella degli Essais di Michel de Montaigne: in prima persona, introspettiva e insieme dialogante, divagante, a volte straniante. Non è certo un caso se nel cuore del libro sia incastonata – come un diapason che ha dato la nota a tutto il resto – una lunga citazione dei Saggi, dove Montaigne racconta le proprie riflessioni sulla cacciata degli ebrei dal Portogallo.
A volte è l’autore a introdurre un senso di straniamento in chi legge, attraverso una battuta, un aforisma, come questo che apre il capitolo dedicato all’intellighenzia, agli intellettuali, ai colleghi universitari: «L’università è un ambiente troppo colto perché ci si possa sentire al sicuro».
L’ebreo in bilico – che è il titolo del libro – è una metafora ma anche un’immagine, un disegno che compare alla fine del volume: una donna è in piedi all’estremità di su un asse che sta in bilico su un precipizio; ha un martello in mano, sollevato, e dall’altra parte dell’asse, a tenerla in equilibrio, c’è un punto di domanda che la fronteggia, come se fosse la sua immagine riflessa. Sta in equilibrio sul precipizio grazie al contrappeso di un punto interrogativo.
L’ebreo è in bilico nel senso di essere esposto, precario, sospeso. Ma anche in equilibrio. Calimani ricorda che questa è una condizione storica degli ebrei, che ha segnato la loro presenza nel corso dei secoli sia nell’Europa cristiana sia nei paesi del Mediterraneo: esposti, precari, ma anche in equilibrio – in bilico – tra affermazione e negazione di sé, tra assimilazione e persecuzione. Per l’ebreo lo stare in bilico è diventato un habitus, una identità, un tratto culturale e anche psicologico. Ma l’autore ci dice che quel disegno è anche una rappresentazione della condizione umana in quanto tale, vale a dire la condizione di ogni essere umano che percorre la propria vita sospeso precariamente tra due interrogativi, che sono anche due baratri: la nascita e la morte.
Dico solo qualcosa del contenuto del libro, nel quale possono essere individuate tre nuclei tematici – tra loro legati da mille fili – attorno ai quali i capitoli si dispongono.
La prima parte ha a che fare con la memoria familiare di Dario Calimani: i nonni, i genitori, il fratello Corrado. Una famiglia (ebrea veneziana) travolta dalla Shoah. I genitori con il primogenito piccolo furono costretti a rifugiarsi in Svizzera dopo l’8 settembre 1943; il nonno paterno Moise e la nonna materna Anna rimasero a Venezia, perché anziani, e poi furono denunciati, deportati e uccisi ad Auschwitz. È una storia che l’autore – nato nel 1946 – non ha vissuto direttamente ma l’ha ricevuta in eredità attraverso racconti resi da altri. Questo rimanda al tema della cosiddetta post memoria: come ricordare vicende che non si sono vissute direttamente ma delle quali si vuole essere testimoni attivi, in virtù di un senso di immedesimazione, familiare o culturale. Si parla per questo di “memoria telescopica” e di “memoria per procura”: figli e nipoti che parlano a nome dei genitori o dei nonni che non lo hanno fatto o che non possono più farlo. La memoria degli altri si innesta sulla propria, come i segmenti di un telescopio, che dalla combinazione di più lenti producono un’unica visione, più lunga.
La seconda parte del libro contiene invece ricordi personali, di cui l’autore è testimone diretto: si tratta per lo più di episodi di antisemitismo quotidiano, subiti a scuola, in caserma, nell’università, a tavola con amici e colleghi. Antisemitismo come fenomeno pervasivo, che penetra ambienti diversi, a destra e a sinistra, tra i colti e tra i semicolti; si mescola a determinate ideologie, a tradizioni politiche e a certe culture istituzionali; ma è anche una sorta di senso comune, un tratto della cultura diffusa, trasversale, carsico, quasi irriflesso. Come la polvere, penetra dappertutto e lo trovi anche dove meno te l’aspetti.
Gli ultimi capitoli del libro rimandano più esplicitamente all’ambito del confronto intellettuale e del dibattito culturale sui temi della memoria collettiva. Lo fanno a partire da un convegno del 2001 all’Istituto Goethe di Torino sulla Shoah in cui l’autore si confrontò con un collega tedesco che aveva esposto la teoria – un po’ straniante, appunto – per cui la memoria insistita e aggressiva della Shoah starebbe facendo dei tedeschi le vittime di oggi, capro espiatorio a cui viene impedito di avere un rapporto sereno con la propria storia e identità nazionale.
Scrive Calimani: «Nel complesso, sottoporre la Shoah a collegamenti causali e a paragoni è un maldestro tentativo di liberarsi del giudizio storico sull’evento, o quanto meno di attenuarlo», con il rischio di «relegare la Shoah nel cassetto chiuso della storia». Su questo non sono d’accordo con lui: il lavoro storiografico consiste nell’aprire i cassetti delle memorie, esercitare la funzione critica e analitica in modo non dissimile da come fa il critico con l’opera d’arte o l’analista con i suoi pazienti.
In fondo, anche l’autore di questo libro lo ha fatto, con molta consapevolezza, in relazione alla storia della propria famiglia: come gli storici nelle loro ricerche, ha proceduto per frammenti («Ci si deve accontentare dei frammenti, a meno di non cadere nella fiction»); ha fatto i conti con i ricordi altrui, sempre limitati, a volte reticenti; è ricorso anche a documenti scritti, tratti sia da archivi familiari sia da archivi pubblici e istituzionali.
Sempre, aprire la porta della ricerca sulla storia della propria famiglia mette chi lo fa in una situazione rischiosa: in bilico anche qui. Non sai prima quello che troverai; a volte dovrai confrontarti con situazioni sgradevoli, con segreti, viltà e abiure che coinvolgono parenti, vicini, correligionari: «rivangare tradimenti e delazioni», riaprire ferite e sensi di colpa. E tutto questo, sotto gli occhi di tutti, in uno spazio pubblico come sono le pagine di un libro. Senza lo schermo della fiction, per scelta tua.