E’ pronto il libro-cd sulla Grande Guerra, E non mai più la guerra, a cura di Cesare Bermani e Antonella De Palma.
Pubblichiamo la presentazione di Emilio Jona:
La Grande Guerra, lo si sa, è stato un gigantesco sanguinoso rito di passaggio verso la società di massa, un’officina e un crogiuolo di esperienze e di vicende del tutto nuove, una macchina di morte a livello industriale di proporzioni mai vedute, una fornace che avrebbe divorato la “meglio gioventù” d’Europa, un laboratorio di straordinarie trasformazioni sociali, culturali, antropologiche e linguistiche e insieme un luogo e un tempo in cui il potere affinò i suoi strumenti di controllo sulla società e sulle coscienze, mentre la massa degli umiliati e offesi elaborò ed espresse la sua estraneità, il suo lamento e la sua protesta, con la parola e il canto, verso quell’inutile strage.
Per il nostro paese quella guerra significò il momento più significativo della sua unificazione
non solo territoriale, perché milioni di “cafoni” meridionali furono coattivamente trasferiti alla frontiera con l’impero austro-ungarico e s’incontrarono e si incrociarono nelle trincee con altri italiani del nord, anche loro in prevalenza contadini.
In questa officina della guerra avvenne un’alfabetizzazione di massa: milioni e milioni di lettere,
migliaia e migliaia di diari, insieme a canzonieri e fogli volanti circolarono tra i combattenti e la
popolazione civile e anche il canto ebbe in quella guerra un ruolo tutt’altro che secondario. Vi furono canti che nacquero spontaneamente tra i soldati ed altri, patriottici, che furono indotti e suggeriti dagli ufficiali e dalla propaganda militare.
Padre Agostino Gemelli, psicologo e intellettuale di spicco in questa funzione, amico di Cadorna, ebbe a scrivere nel 1917 un saggio molto interessante sulla psicologia del soldato e sulla realtà e
sulla funzione di quel canto. Disse che ciò che cantano i soldati è un «miscuglio di impeti generosi e di impulsi passionali, giudizi erronei, puerilità», per cui la canzone militare è lontana da
quell’elevatezza necessaria per raggiungere lo scopo. E l’autorità militare doveva reagire alla tendenza del soldato a cantare «cose troppo grossolane e sconvenienti e incoraggiare il canto patriottico, il canto onesto per sradicare nel repertorio del popolo soldato certe strofette denigratorie».
Si tratta di un’ammissione significativa, perché i soldati contadini, buttati nella fornace di una
guerra di cui non conoscevano o non condividevano i fini, e che pur combatterono con rassegnazione e spesso con abnegazione, cantarono e presto dimenticarono i canti dell’innologia ufficiale e dei suoi canzonieri, che miravano a farli partecipi della patria in guerra e delle sue ragioni, mentre cantarono con altro spirito e ricordarono quelle canzoni che nascevano tra di loro dal basso delle trincee e che avevano ben altri contenuti.
Di queste voci vi è traccia in molta memorialistica del tempo, ma va ricordato che, di fronte a
tante morti e a tanta dolente e critica reazione popolare, sta lo sguardo e la parola di pressoché tutta la cultura italiana, che, sia pur con sfumature diverse, fu a favore della guerra, che visse come una grande occasione personale, sociale e politica di trasformazione e di rinnovamento. Quello sguardo trascorse dalla tensione etica ed esistenziale di Renato Serra, al sacrificio e durissima prova dello spirito di Giani Stuparich, da quarta guerra del Risorgimento in Alfonso Omodeo a caldo bagno di sangue e farmaco salutare per individui e società in Giovanni Papini, a fervore teppista in Ottone Rosai, a vicenda che possiede utilità e bellezza, anche se è fatta di merda e di sangue in Carlo Emilio Gadda, a coreografica cultura di gesta in Gabriele D’Annunzio, sino alla guerra concepita come esplosiva miscela di energie psicofisiche, di violenza e modernità, di sessualità, esotismo, sadismo e igiene del mondo in Filippo Tommaso Marinetti.
Ora questo libro di Cesare Bermani e Antonella De Palma lascia da parte questo sfondo di memorialisti e scrittori, sfiora la canzone patriottica e si immerge in quel canto popolare sofferto e critico che sale dalle trincee, attingendo prevalentemente da quell’immenso inventario di memoria orale che è l’archivio di Bermani.
Anziché addentrarsi in un analisi antropologica di questo canto e delle sue forme musicali, che
sono limitate e relativamente povere (cantastorie, parodie di altri canti ed inni, canzone napoletana, ballate della tradizione epico-narrativa rimodernate) gli autori hanno scelto l’antica arte dell’incatenatura e hanno percorso i canti seguendo la traccia associativa dei loro contenuti. Così essi si snodano segnati dalle date emblematiche dell’inizio del conflitto e delle sue battaglie, dalle tappe della vita del soldato (partenze amare, addii, tradotte, fango, pidocchi, fame, le terribili emozioni olfattive e uditive,vale a dire il puzzo costante dei cadaveri insepolti tra le opposte
trincee e il rombo assordante e ininterrotto delle bombe), dagli attacchi insensati alle conseguenti
carneficine, ai morti e alle tombe. Tra di essi spiccano una scelta tra le centinaia di strofette sul General Cadorna, (veri e propri giornali dell’oralità a fronte dei giornali di trincea, resoconto e informazione ironica e alternativa a quella ufficiale) e i canti su disfattisti, disertori, prigionieri e imboscati, che si contrappongono a quelli degli arditi e della propaganda patriottica.
Si tratta quindi di un libro agile, utile e accattivante che si situa nel solco di quelle ricerche che,
attorno agli anni ’80 e oltre, particolarmente attraverso lo studio e l’analisi del mondo e dei documenti popolari (si veda soprattutto, Mario Isnenghi, Antonio Gibelli, Quinto Antonelli, Diego Leoni, Camillo Zadra) hanno definitivamente sfatato il mito della Grande Guerra e mostrato cosa stava dietro alla retorica delle patrie, allo sguardo dei letterati e alle storie militari e dei benpensanti.