Nel corso degli anni Enzo Traverso ci ha abituato a lavori di grande spessore, caratterizzati da una scrittura garbata e mai irruenta, sempre gentile e armoniosa, mai arrogantemente polemica ma comunque volta alla discussione impegnata e appassionata dei grandi nodi problematici della nostra storia più recente e finanche quelli del nostro presente. L’ultimo libro uscito in Italia, La tirannide dell’Io. Scrivere il passato in prima persona (Laterza, Roma Bari 2022), non tradisce le aspettative, lasciandoci molti interrogativi sulla scrittura della storia, e alcune perplessità sull’interpretazione generale.
Scrivere il passato in prima persona
Traverso analizza un indubbio fenomeno riscontrabile all’interno della produzione storiografica contemporanea: il sempre più alto tasso di soggettivazione nella scrittura storica. Si tratta infatti di un «io» che si fa talmente prominente da riuscire a indebolire la canonica regola di scrittura storiografica in terza persona a vantaggio di una sempre maggiore legittimazione della scrittura in prima. Un fenomeno significativo su cui Traverso ritiene che si debba riflettere poiché «da un lato mette in questione le pratiche del mio lavoro di storico, dall’altro le aggancia ad alcune tendenze più profonde del mondo in cui viviamo» (p. 49). Egli si domanda, infatti, se questo fenomeno possa essere definito come un riflesso storiografico di una tendenza più generale del mondo in cui viviamo e che riguarda la preminenza del soggetto rispetto all’oggetto e dell’individualità rispetto alla collettività: approcci tipici, a suo dire, della condizione neoliberale. A questo interrogativo è arrivato attraverso «libri letti per curiosità, per piacere, per un desiderio suscitato da recensioni» o vivendo in prima persona alcune esperienze editoriali che lo hanno particolarmente colpito. Infatti, egli ci racconta di quando, all’atto di pubblicare un suo lavoro, l’editore gli inviò le bozze di copertina e con grande sorpresa dovette constatare che al posto della solita quarta di copertina vi era stata impressa una gigantografia della sua faccia. Chieste spiegazioni all’editore, questo gli rispose che si trattava di una politica editoriale della casa editrice. L’autore non si sorprende solo di questo episodio, ma anche delle recensioni che seguirono la pubblicazione di un suo altro volume (A Ferro e fuoco. La guerra civile europea, Il Mulino, Bologna 2015, pp.18-25) nel quale dedicava poche righe alla personale esperienza di post-memoria della Seconda guerra mondiale raccontando «il microcosmo di leggende ed immagini che hanno accompagnato la mia adolescenza, attraverso il quale, una volta divenuto dramma locale, la grande storia […] è stata trasmessa alla mia generazione» (p.5). Molti recensori, notava, piuttosto che addentrarsi nel volume si soffermarono su queste annotazioni autobiografiche «del tutto marginali». In seguito, gli arrivarono numerose proposte, non solo da editori ma anche da colleghi, per la pubblicazione di note autobiografiche fino alla richiesta di scrivere «una storia autobiografica degli anni Settanta, noncuranti del fatto che nel ’77 avevo vent’anni e che non ho svolto vicende di primo piano nelle vicende dell’epoca». Ciò è rappresentativo, secondo lo storico, di «un mutamento del nostro rapporto con il passato», ben evidenziato dalla creazione di un mercato editoriale inerente alle autobiografie di storici del XXI secolo che, non volendo minimamente edificare un proprio monumento, intendono scavare in se stessi per capire meglio la propria traiettoria intellettuale. Non si tratta solo di storici dalle vite eccezionali, come quelle ad esempio di Eric Hobsbawn o George Mosse, ma di storici dai percorsi comuni. Questa tendenza – che fa della scrittura una scoperta della propria soggettività, che io definirei una vera e propria autoterapia psicoanalitica – è avvenuta anche, secondo Traverso, attraverso la scoperta delle scritture della gente comune. In altre parole, l’indagine della scrittura “dal basso”, delle Autobiografie della leggera o delle autobiografie imposte dagli organi di partito – come: Danilo Montaldi, Autobiografie della leggera, Milano, Giunti 1961; Marco Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie dei militanti comunisti (1945-1956), Milano, Feltrinelli 2007 – , hanno di riflesso posto delle domande precise agli storici stessi che sempre più si sono domandati quale fosse il proprio rapporto con la scrittura della storia in relazione al proprio vissuto intellettuale e biografico. Ne è nata un’esigenza di narrazione di sé sempre più prominente che ha finito per varcare un’ulteriore soglia soggettivizzando l’intera scrittura storica e rompendo così quell’incontestabile assioma, ascrivibile alla nascita della storiografia moderna, che vedeva nella scrittura in terza persona l’oggettivazione del racconto degli eventi storici.
Va precisato che Traverso non nega che l’oggettività sia una chimera. L’oggettività, nota lo storico, è stata spesso usata come un alibi per celare alcune intenzioni discutibili. Nella Germania ovest, quando in assenza di una classe dirigente non compromessa con il nazismo, si riabilitavano in silenzio ex alti funzionari nazisti, i ricercatori ebrei venivano esclusi dalle ricerche sul nazionalsocialismo in quanto ritenuti non sufficientemente obiettivi. Cosa si nascondeva dietro questa condanna? Il fatto che fosse formulata da tutta una generazione di studiosi compromessa in qualche modo con il nazismo che utilizzava l’obiettività scientifica come alibi per camuffare la propria soggettività. Traverso intravede un’altra di queste trappole dell’oggettività nell’atteggiamento interpretativo di uno dei più importanti storici del dopoguerra, George Mosse, nei confronti di Benito Mussolini. Secondo Traverso, Mosse è stato indulgente nel definire, in un saggio scientifico, il Duce del fascismo più umano rispetto al Fuhrer tedesco. E la causa di questa indulgenza è possibile riscontrarla in una specifica esperienza biografica dello storico ebreo. Mosse, figlio di un magnate ebreo dell’editoria tedesca, ha raccontato nella sua autobiografia che, alla stipula dell’asse Roma-Berlino, si trovava con la madre in Italia. Questa, temendo la loro imminente espulsione del Paese, scrisse al Duce che le assicurò la sua protezione e la permanenza in Italia per tutto il tempo desiderato. Il padre di Mosse, Hans, aveva infatti aiutato Mussolini durante la sua rottura con il Partito Socialista Italiano e il Duce ne aveva ancora memoria. Mosse non aveva dimenticato l’episodio e per questo, secondo Traverso, scrisse che l’aiuto ricevuto faceva luce sul carattere di Mussolini. Secondo l’autore, l’atteggiamento del grande storico naturalizzato statunitense dimostrava come lo schiacciamento dell’interpretazione storica sulla propria soggettività potesse deformare la storia stessa, dato che Mussolini, a seconda dei punti di vista, «poteva essere al pari di altri tiranni generoso e crudele allo stesso tempo». Pur tuttavia, se da un lato alcuni storici secondo l’autore hanno utilizzato l’obiettività per celare la propria soggettività, altri, come Pierre Vidal Naquet e Carlo Ginzburg, l’hanno esplicitata riconoscendo nel carattere oggettivo della ricerca storica un’idea ormai obsoleta e falsa – in quanto frutto di un positivismo ormai abbondantemente superato e financo pericoloso – preoccupandosi però di distanziare il proprio io dall’analisi scientifica nell’ottica di conferire solidità alla ricerca. Esempi come quelli di Ginzburg e Vidal Naquet, dimostrano, che «fino ad un’epoca recente gli storici avevano cercato di interpretare la soggettività degli attori del passato distanziandosi dalla propria, non per negarla, ma per essere in grado di controllarne gli effetti, per evitare interferenze dannose che avrebbero potuto sia sminuire i risultati del loro lavoro, sia far sorgere dubbi sulla loro oggettività». Oggi, però, lo scenario è del tutto diverso poiché a «molti studiosi, questa preoccupazione appare un vezzo del tutto obsoleto» (p.35).
Dalla consapevolezza all’invasione della soggettività
A questo punto, Traverso entra nel vivo della riflessione sul processo storico che secondo lui ha generato questa invasione della soggettività nella scrittura storica. L’autore inquadra l’inizio di questo processo di soggettivazione con l’inizio degli anni Ottanta e in particolar modo con la celebre frase di Margareth Thatcher sull’inesistenza della società. La premier britannica, infatti, sostenne che non esiste la società ma solo gli individui in un mondo sociale. Per Traverso questa diventa la massima espressione dell’atomismo neoliberale degli anni Ottanta che dissolve il collettivo nelle individualità. Sul piano storiografico – e non solo – ciò significava un abbandono delle vecchie categorie imperniate sui grandi sistemi di pensiero per un approdo a problematiche inerenti all’individuo. Quello che potremmo definire il passaggio dalla struttura al sentimento, cristallizzatosi nel linguistic turn, ha caratterizzato gli interi anni Ottanta e Novanta e ci riguarda da vicino: l’esplosione degli studi sulla memoria, sulle identità e sulle soggettività ci fa rendere conto di un vero e proprio sattelezeit epistemologico. In questo contesto nasceva, nella Francia di metà anni Ottanta, la tendenza storiografica chiamata «ego-histoire». L’animatore di questo progetto, lo storico Pierre Nora, si era reso conto che il legame intimo che un ricercatore intrattiene con le proprie ricerche non andasse celato ma anzi palesato se non altro per rendere la pratica storiografica più consapevole del ruolo della soggettività nella costruzione dell’interpretazione storica. Raccogliendo attorno a questo progetto numerosi storici francesi e ricevendo il rifiuto a collaborare di altrettanti, Nora inaugurava un nuovo genere storiografico che mirava a mettere in luce le implicazioni biografiche degli storici nella pratica e nell’interpretazione storiografica. Ciò andava sommato, come già detto, anche a tutti quegli storici che, riscoprendo le scritture dal basso e venendo coinvolti dalle discussioni del linguistic turn, andavano ponendosi domande sul rapporto tra scrittura e soggettività. Nora, secondo Traverso, inaugurava questa nuova tendenza che faceva del proprio “io” un piano per comprendere la pratica storiografica. Il boom di autobiografie – di cui Traverso fa una vera e propria rassegna – che uscivano in quegli anni rendeva ben chiara questa prominenza soggettivista che tuttavia, successivamente, avrebbe preso una flessione diversa. Se nelle ego-histoires si prendeva consapevolezza di un «io-storico», una nuova generazione di storici che non aveva vissuto le epoche che studiava, interpretava la propria soggettività non come confronto tra l’esperienza vissuta e la conoscenza, né come elaborazione del trauma subito, ma come modalità d’interpretazione stessa. Nasceva a questo punto un «io narrativo» che faceva della propria soggettività un criterio interpretativo della storia. Qui l’autore ci propone un inventario, prevalentemente francese, di questo modo di narrativizzare non solo la scrittura ma anche la metodologia della ricerca storica. Da Ivan Jablonka, a Philippe Artières, passando per Sergio Luzzatto, e finendo con Mark Mazower e Omer Bartov, Traverso nota come questi autori mettano al centro del loro racconto l’indagine, ossia la narrazione dei modi intimi e sentimentali di approdare alle ricerche, il loro coinvolgimento con i testimoni che intervistano, l’incontro con gli archivi, o la ricerca di proprie storie familiari – i nonni che Jablonka non ha mai conosciuto – fino alla narrazione delle proprie emozioni alla lettura dei diari e delle lettere di famiglia. «L’indagine – scrive Traverso – non è più solo la premessa del racconto, il mezzo per accedere a una fonte e sfruttarla, il lavoro sotterraneo che crea ed elabora la materia di cui è fatta una storia: diviene essa stessa parte di una storia» (p.71). Ciò per Traverso è motivo di profondo disagio poiché gli approcci di Luzzatto e Jablonka pongono allo storico delle perplessità di metodo non indifferenti. Il rischio di un approccio come quello usato da Luzzatto in Partigia è di trasformare la «ricerca in mero racconto» in quanto lo storico assume le vesti del co-protagonista del racconto: «atteggiandosi egli stesso a personaggio della propria storia» – scrive Traverso – Luzzatto ha finito «per privilegiare la narrativa a spese della ricerca storica». Il risultato finale è un racconto che prevale sull’indagine e la orienta, dando origine alla «fictions di metodo» la cui finalità sarebbe puramente letteraria. In questo modo così letterario di narrare l’indagine si finisce per avere due “eroi” narrativi: gli attori del passato e lo storico che li fa rivivere, Luzzatto e Primo Levi. Si tratta di «una temporalità soggettiva che occupa tutto lo spazio e spesso tende a trasformare la sinfonia dei grandi drammi collettivi in modesti assolo» (p.89). Più che utilizzare il procedimento dello storico, nota Traverso, questi esempi dimostrano come alcuni filoni storiografici usino quello della fiction. Allo stesso tempo, però, alcuni filoni letterari – si veda ad esempio M di Antonio Scurati – usano i metodi storiografici per narrare vicende storiche di finzione. Parallelamente alla narrativizzazione della storia ci si trova dinanzi anche alla storicizzazione della letteratura. Il rischio è quello non solo di non sapere più riconoscere la letteratura dalla storia e la storia dalla letteratura ma anche quello di non essere più consapevoli del percorso ibrido che si sta intraprendendo. Si tratta quindi della possibilità di imboccare vicoli ciechi dai risultati imprevedibili. Come si può capire, l’autore, pur manifestando disagi e perplessità, non intende creare ostracismi nei confronti dei «soggettivisti». Intende piuttosto, come scrive nelle ultime pagine, «collocarli nella loro epoca anziché inserirli in un casellario storiografico» (p.147). Secondo Traverso, la storiografia contemporanea è stata caratterizzata dal post-modernismo che rimettendo in discussione i meta-racconti della modernità infrange l’epistemologia storica frammentandone le prospettive: «ben più di una vecchia teleologia già compromessa da tempo, è stato il principio stesso di intellegibilità del passato – la costruzione diacronica di una totalità sociale – ad essere sostituito dallo studio di una costellazione di soggetti atomizzati in cerca d’identità» (ivi). Ne è nata una nuova Sattelzeit, un’epoca cerniera in cui tutta la dialettica della modernità descritta da Koselleck – lo schiacciamento dell’orizzonte di attesa sullo spazio di esperienza – viene rovesciato in un eterno presente in funzione del quale si articolano il passato e il futuro. Secondo Traverso le scritture soggettiviste sono indubbiamente uno dei sintomi di questa nuova articolazione dei tempi storici tipica della post-modernità: ma tiene a precisare che «questo non implica necessariamente né una filiazione né un’influenza diretta». Le cause vanno ricercate altrove, nelle trasformazioni sociali e culturali più profonde del nostro tempo «che trascendono di gran lunga le dinamiche interne della disciplina»: la scrittura soggettivista della storia, scrive Traverso, non può essere scissa dall’avvento dell’individualismo come uno dei tratti fondamentali del nuovo ordine del mondo. Esiste un rapporto tra le nuove forme di scrittura del passato e il regime di storicità neoliberale che stiamo vivendo. Secondo lo storico, il neoliberismo non è un modello di società fondato sulla deregulation ma una «ragione del mondo» che stabilisce una condotta di vita, «una serie di principi, come la competizione generalizzata e il rimodellamento dei rapporti sociali secondo le regole del mercato, ma anche la trasformazione degli individui, indotti a programmare la propria esistenza come una strategia esistenziale». Una «ragione del mondo» di cui evidentemente la scrittura soggettivista è impregnata. Qui si pone un problema relativo al rapporto tra post-modernismo e neoliberismo in relazione al sapere storico. Il mutamento del moderno è infatti uno dei temi centrali dei processi di soggettivazione della scrittura storica. Un processo che, soprattutto a noi storici oralisti, ci riguarda da vicino.
Enzo Traverso, La tirannide dell’Io. Scrivere il passato in prima persona, Laterza, Roma Bari 2022, pp.182, euro 18.