Le mie esperienze di ricerca di storia orale iniziano nel 1995 con le prime raccolte di testimonianze. Allora ragazzina, ero mossa dal fascino che i racconti delle due, tre generazioni precedenti esercitavano su di me. Ho raccolto le prime testimonianze in ambito famigliare, nell’area dell’attuale pordenonese, inerenti un arco temporale tra la fine dell’800 e la metà del ‘900. Assieme ai racconti del mondo rurale, giungeva un caleidoscopico tessuto di esperienze, viaggi, avventure, tragedie, che attraversava l’Europa del ‘900. Già all’epoca sia io sia i raccontatori sentivamo il divario tra la mia realtà e la loro. La mia realtà era figlia del boom economico. L’accesso garantito all’istruzione e ai beni primari, il mutare delle abitudini e del tessuto sociale parevano inarrestabili, incontrovertibili. Ciò rendeva il vissuto dei narratori, legati a un mondo rurale del quale erano ultimi testimoni, un mondo lontano, vivo solo nei racconti, a tratti capovolto rispetto a ciò che era attuale nei Novanta. Ma parte di quelle esperienze poteva essere trasmessa solo attraverso i racconti. L’oralità, e non la scrittura, dava il disegno sull’ordito della cultura rurale, sia per il ruolo tradizionale, e imprescindibile, che il racconto rivestiva nella socialità contadina, sia per la minima scolarizzazione della maggioranza dei narratori. Questa consapevolezza mi spingeva ad ascoltare e raccogliere le testimonianze. Con il passare del tempo, il mio interesse per i racconti del vissuto è maturato, assieme alla laurea in storia e ai lavori di ricerca storica, e si è appoggiato su conoscenze più strutturate. Quello che era fascino è diventato interesse più consapevole, per la ricostruzione e la contestualizzazione, accompagnato da dubbi e interessi storici più definiti. Ho continuato a svolgere le mie ricerche prevalentemente nell’area rurale e montana della provincia di Pordenone. I nuclei tematici seguiti durante il mio percorso di storica oralista sono stati la memoria della deportazione politica nei campi di sterminio; l’esperienza resistenziale; il vissuto delle piccole comunità rurali durante il Ventennio, il secondo conflitto mondiale e i primi decenni della ricostruzione nel dopoguerra; il ritorno dei reduci dai campi nazisti e dei partigiani nella società civile al termine del conflitto.
Il racconto e il narratore
Ogni testimonianza che ho raccolto è nata con una storia a sé. Difficile riassumere come io sia stata avvicinata, o come mi sia avvicinata ai testimoni. In alcuni casi ho incontrato persone che da molti anni cercavano un aiuto per scrivere le proprie memorie. Michele Mezzaroba, deportato politico a Mauthausen originario di Frisanco, dopo una serie di conversazioni finalizzate a completare l’appendice della mia tesi di laurea sulla costruzione della memoria della Resistenza in Friuli Venezia Giulia nel secondo dopoguerra (2005), mi ha nuovamente contattata e mi ha consegnato alcuni fogli da lui scritti sulla propria infanzia. Mi ha detto che da molti anni cercava qualcuno che lo aiutasse a scrivere le pagine successive. Ho raccolto l’invito e ho curato il suo racconto ne Il sale sul taràssaco (2007). In altri casi, sono stata avvicinata tramite il “passa-parola” della rete di conoscenze. Ad esempio proprio Michele mi ha indirizzata verso il suo amico Geremia Della Putta, deportato politico a Buchenwald originario di Erto, Val Vajont. Suggerita da una persona fidata, Geremia mi ha affidato le sue memorie in un lavoro di cura proseguito dal 2008 al 2013 (Sopravvissuto a Buchenwald e al Vajont). La rete di conoscenze territoriale, costruita sul luogo nel quale ho vissuto e lavorato come insegnante per oltre un decennio, e del quale sono originaria – il bacino rurale e alpino attorno a Maniago –, è per me tutt’ora un canale importante per raggiungere i testimoni, ma le dinamiche con le quali si stabiliscono i contatti sono molte.
Qualunque sia il caso specifico, il racconto sgorga solo dove il narratore sia disponibile a lasciare un’apertura che metta in comunicazione il proprio intimo con l’esterno. Le motivazioni per le quali questo accade, da ciò che posso osservare, sono strettamente legate alla convinzione dell’utilità per altri del proprio vissuto. Ciò è evidente per quanto riguarda i deportati nei campi di sterminio e per i partigiani che hanno elaborato, o cercano di elaborare, la propria esperienza come veicolo per un messaggio di utilità collettiva. Ciò è vero anche per altre testimonianze, ad esempio per quelle dei contadini che si sentono testimoni di un mondo rurale che si è spezzato a contatto con le tragedie del Novecento, e dal quale la società globalizzata si allontana rapidamente. Mondo rurale del quale i testimoni desiderano rielaborare una lettura: locale, di comunità, e personale, per raccoglierne i frammenti. Altri decidono di comunicare perché la possibilità che il proprio racconto entri in un libro di storia è ritenuta un’opportunità per valorizzare la propria storia, e magari farla uscire da un contesto di emarginazione. È il caso, ad esempio, della testimone affetta da disabilità fisica, originaria delle campagne pordenonesi, che ha mi dato il suo racconto consapevole dell’unicità della sua parola, sopravvissuta alla guerra e capace di oltrepassare gli ostacoli che l’essere affetti da disabilità comportava in una società rurale marginale del primo Novecento italiano:
«Io sono nata sana, poi quando avevo un anno mi è venuta una gran febbre. I medici hanno detto: paralisi infantile. Prima di quel male camminavo e parlavo, poi niente: né camminare, né parlare, né mangiare. Allora mamma e papà mi hanno lasciata in un angolo: non sapevano che fare […] Una volta se i bambini nascevano sani, bene, altrimenti… […] Mio fratello senza gengive pure sarebbe stato sano, ma l’avevano fatto nascere col forcipe e con quello gli avevano schiacciato il cervello, mangiava solo col ciuccio a latte ed è vissuto dieci anni. A me è toccato questo gran male che mi ha lasciata senza potermi muovere. Sono rimasta qualche mese come morta, poi mi sono accorta di essere… Ma non potevo muovermi. Ero là, sempre ferma, e vedevo la mia famiglia che continuava a fare le sue cose. Mi sono detta: “No, io non posso stare così. No. Io non posso stare così”. Dovevo far capire alla mamma che c’ero. Allora mi sono sforzata di alzarmi e: un passo, una tombola [caduta]. E dai, e dai, e dai, fino a che, a quattro anni, ho cominciato a camminare da sola. Sono riuscita a fare tre, quattro passi, prima di cadere». [testimonianza raccolta il 6 maggio 2015] *
Dietro la percezione dell’utilità della propria testimonianza vibra sempre un racconto che è soggettivo. Le emozioni del protagonista-narratore ne influenzano il corso e le caratteristiche narrative. Ogni narratore ha un suo stile, nel quale convergono emotività, abitudini, gusti personali. Oltre a ciò, il lessico e lo stile narrativo fanno parte del milieu familiare e sociale al quale appartiene. Ad esempio, nella piccola comunità rurale di San Leonardo Valcellina gli stili narrativi dei raccontatori hanno fatto emergere la composizione sociale del paese nei primi decenni del ‘900. Anche per quanto riguarda le donne. Una delle testimoni, cresciuta in un contesto di disagio famigliare, ha utilizzato una parlata fortemente diversa, sebbene altrettanto incisiva, rispetto a molte delle raccontatrici sanleonardesi: una somma di dialetti e lingue di vari luoghi del nord Italia in cui è vissuta. Osserva, a proposito della propria espressività:
«I pos disi da esi nassuda in tai ciamps, iò. […] I gevi in ziru par i prâts par mangià e i ciapavi su pistìç […] Una volta a si ciatavin pòucs sclous, parcè a finivin in boscia. A si zeva a la caritât, a Torototela. […] Tanta ignorancia, una volta. L’ignorancia al è pesu da la miseria, satu? Ai fioi na si insegnava nuia, nencia a dì bundì. […] [Io e i miei fratelli] i ‘ven tacât a scola a fevelà. […] Ma l’ignorancia a è rimasta. Tu no sas ce ca è. Tu no sé. L’ignorancia a è chista: da no savè fevelà». [testimonianza raccolta il 7 novembre 2015]
[Posso dire di essere nata nei campi, io […] Giravo per i prati per mangiare e raccoglievo pistìç [NdA. Miscuglio di erbe edibili spontanee, che, bollite, costituiscono uno dei piatti della tradizione culinaria friulana] […] Una volta si trovavano poche lumache, perché finivano in bocca. Si andava alla carità, a Torototèla [NdA. Torototèla: espressione tradizionale veneto-friulano che indica l’andare a carità] […] Tanta ignoranza, una volta. L’ignoranza è peggio della miseria, lo sai? Ai bambini non si insegnava nulla, neanche a dire buongiorno. […] [Io e i miei fratelli] abbiamo iniziato a parlare a scuola. […] Ma l’ignoranza è rimasta. Tu non sai cos’è. Non sai. L’ignoranza è questo: il non saper parlare»]
Il racconto e la società
La consapevolezza dell’utilità della propria parola è più chiara dove sia rafforzata dalla percezione di tale valore da parte della comunità vicina al testimone. L’agente che spesso porta alla testimonianza è il supporto del nucleo famigliare e della rete di amicizie, convinti dell’importanza della memoria del proprio caro, o dell’affine per esperienze.
In alcuni casi il testimone decide di comunicare la propria memoria in modo solitario, soprattutto se ha la percezione che la propria esperienza sia stata rifiutata dalla comunità di appartenenza. La decisione matura spesso lontano dal luogo natio, e viene alla luce di frequente solo quando, dopo il pensionamento, il testimone torna nel paese nel quale aveva vissuto le esperienze traumatizzanti. Il tempo intercorso tra l’evento traumatico e il momento della testimonianza è tale che, nel frattempo, la società di appartenenza è profondamente cambiata, lasciando spazio al ricordo. È il caso di M., originario di Spilimbergo, unitosi giovanissimo al movimento resistenziale in seguito al traumatico arresto del padre. L’arresto dell’uomo segue al sospetto di socialismo, aggravato dal ritrovamento di una pistola nascosta in casa per gioco dal figlio, allora poco più che bambino. Il padre, incarcerato assieme al figlio a Udine, viene deportato a Mauthausen e a Melk, dove trova la morte. La famiglia cade in disgrazia in seguito alle requisizioni delle SS. Il figlio, scarcerato, ritorna a Spilimbergo e va partigiano. Alla fine della guerra, come molti testimoni ricordano, la partecipazione alla Resistenza è una carta di difficile presentazione. Anche per questo, racconta M., non trova lavoro nello spilimberghese, ed emigra a Torino. Il ragazzino non si ambienta in città, da anziano ricorda il disagio. Rivolge una preghiera accorata alla madre, ma non verrà più accolto in famiglia: «Non tornare perché non ho soldi per mantenerti». Solo in pensione torna a vivere in una Spilimbergo socialmente mutata, quando la sua storia personale e il suo trascorso partigiano hanno pochi testimoni e una valenza fortemente attenuata.
Per molti dei testimoni da me intervistati, il passaggio del racconto da ambiti ristretti, famigliari e amicali, a spazi più ampi di memoria collettiva è complesso, e spesso doloroso. Il racconto del testimone del ‘900, infatti, ancora oggi restituisce i margini taglienti dei conflitti maturati durante il Ventennio e approfonditisi dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943. Conflitti che, come osserva Claudio Pavone, hanno assunto il profilo di “una guerra civile” [Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, 1991]. La memoria della guerra civile è una memoria pesante. Ma il peso delle memorie del Novecento sta anche, e molto, nei libri non scritti, nelle testimonianze non divulgate. Come quella degli ex deportati politici di Frisanco che hanno rivelato pochissimo del proprio passato, solo a pochi, e dopo molti anni dalla deportazione. Come testimonia Maria Noemi Roman Zotta, moglie di uno di essi, Aldo Dreon di Dour, al termine del conflitto sugli ex deportati politici poteva gravare il peso di essere stati partigiani e “detenuti”. Ricorda:
[All’epoca del fidanzamento] «mia madre è andata a Frisanco per raccogliere informazioni su Aldo da famiglie influenti. Qui le hanno detto: “Gran lavoratore, la famiglia è di brave persone. Ma era partigiano, è comunista”. Quella sera mia madre mi riferisce quanto ha saputo e mi dice di rompere il fidanzamento. Io le rispondo: “Se è questo quello che vuoi, io lo faccio. Ma sappi che mi fai un grande dispiacere”. Poi non so com’è andata: forse perché mio padre, che intanto era tornato dalla Germania [dov’era lavoratore coatto, NdA], conosceva Aldo da ragazzino… fatto sta che abbiamo potuto continuare a frequentarci. Una sera, mentre ballavamo, Aldo mi dice con aria mesta: “Sono stato anche in prigione”. Io non ho capito che si riferiva a Dachau, non l’ho capito per molti, molti anni: ne parlava solamente con gli altri deportati». [testimonianza raccolta nell’estate 2015]
Nella mia esperienza di storica oralista alcune partigiane hanno preferito non divulgare la propria memoria per timore che questa diventasse un carico per la famiglia, anche a causa degli stereotipi di genere che pesano – e soprattutto pesavano – sulle donne. Ancora, molti partigiani ricordano la pregiudiziale comunista che è gravata su di loro per molto tempo dalla fine della guerra. Pregiudiziale da leggere anche alla luce delle peculiari condizioni politiche della Guerra fredda, che in Friuli Venezia Giulia avevano come sfondo la linea di frontiera a Est, sulla cortina di ferro. Clima politico e sociale che ne ha reso difficile la testimonianza, e in certi casi impossibile. Ricordo, ad esempio, il libero professionista di Pordenone che tutt’oggi tace della sua esperienza come commissario politico di brigata nella «Garibaldi», perché – secondo la sua esperienza – il passato partigiano rendeva inaccessibili le commesse statali, e più in generale rendeva assai ostico il mondo del lavoro e gli inerenti rapporti sociali.
Eppure alcuni decidono di testimoniare. Nella fase di allargamento della ricezione della memoria dalla sfera privata a quella comunitaria, il rapporto con la memoria pubblica, oggetto di dibattito pubblico, e l’accettabilità sociale del ricordo personale possono influire sul racconto, sui modi del narrare, su quanto il narratore intende dire oppure non dire. È vero anche, tuttavia, che la mia esperienza di storica oralista mi ha mostrato che proprio la percezione di possedere una memoria rigettata o contestata dalla comunità, o da una parte di essa, fa sì che il testimone, deciso a parlare, faccia tutto ciò che può per dimostrare la veridicità di ciò che sostiene: raccoglie aneddoti che possono essere confrontati con fonti giornalistiche o documenti famigliari o di archivio, e si sforza di collegare le proprie informazioni con tutto ciò che più pare oggettivo. La discrasia tra memoria collettiva e memoria privata può condurre a delle inchieste tanto più fruttuose quanto il testimone decida di uscire dal silenzio. Ricordo la sorpresa con cui ho letto per la prima volta una lettera spedita da Michele Mezzaroba alla madre dal fronte albanese il 14 maggio 1941. Michele me l’aveva mostrata allo scopo di testimoniare che lui era al fronte, come mi aveva raccontato: per lui, come per molti testimoni della deportazione, condurre prove al proprio discorso è importante, per superare la possibile reazione incredula degli ascoltatori. Quelle righe contenevano però un’espressione che ai miei occhi era ancora più ricca del valore probante la leva nei Balcani. Nella lettera infatti si legge: «dopo un po’, quando tutti [i greci] erano scesi, il fuoco incominciava, e così andavano giù come le pere di Sipùcia». La sorpresa risiede in quel “pere di Sipùcia”: un termine così radicato nella cultura locale, valligiana, di Frisanco, da risultare di difficile interpretazione ad occhi esterni. I pirûc di sipùcia sono, infatti, una varietà locale del Pirus communis L., pressoché scomparsa, caratterizzata dalla produzione di una grande quantità di pere piccole e molto dolci. Alla maturazione i frutti cadono dai rami e nel giro di pochi giorni il terreno sotto l’albero appare ricoperto di piccoli frutti dall’interno scuro e succoso. L’espressione nella lettera del ’41 voleva rendere con un lessico comprensibile alla madre – e a pochi altri – l’immagine dei morti; e rivela che la cultura materiale era una risorsa lessicale e interpretativa per i contadini e montanari immersi nelle tragedie del Novecento; e rimane tale nelle interviste del 2000 e successive. Questa espressione ha contribuito ad aprire un filone di studio che sarà presente da Il sale sul taràssaco in poi, in tutte le mie ricerche di storia orale – sul quale ritornerò oltre.
Il racconto e la storica
Nel momento in cui viene avviata la divulgazione di una testimonianza, la mia presenza quale storica oralista rappresenta il ponte tra l’esperienza personale e la memoria collettiva. A questo punto come storica devo svolgere due compiti.
Il primo compito è quello di far comunicare culture diverse. Il racconto della maggior parte dei testimoni con i quali ho avuto modo di lavorare fluisce da un mondo che ha delle caratteristiche culturali peculiari, dal mondo rurale friulano della prima metà del ‘900, verso un mondo che ha delle caratteristiche culturali profondamente diverse, quello dato dalle trasformazioni socio-economiche che segnano il presente. In questo senso, le parole dei narratori erano, e sono, intrise di una cultura materiale e immateriale attraverso la quale il testimone legge la propria esperienza. E sono parole che vengono da una cultura diversa dalla mia. Per ottenere una testimonianza attendibile il mio ruolo di storica richiede di ascoltare attentamente le parole del testimone, di cogliere quegli elementi che a un primo ascolto possono sembrare “sbagli” del raccontatore, “confusioni”, “pasticci linguistici”, e di approfondirli per capirne il significato. I miei interventi come intervistatrice operano in primo luogo proprio qui, per chiarire il significato di espressioni che paiono di primo acchito oscure perché intrise di una cultura altra, a tratti premoderna. Sopra ho riferito dell’espressione «andare giù come le pere di Sipùcia»: la cultura locale, valligiana o contadina, forniva lessico e figure retoriche alla popolazione rurale che affrontava la storia del Novecento. E non solo: forniva abilità. Geremia Della Putta ricorda come lo zio, in guerra in Etiopia nel 1935, avesse combattuto la disidratazione con un sistema tradizionale, diffuso nelle valli alpine tra Veneto e Friuli:
«Mio nonno ci aveva insegnato un rimedio per la sete in montagna: ci procuravamo un rametto di nocciolo, toglievamo la corteccia, infilavamo il bastone scortecciato in un formicaio di montagna, non di formiche rosse, ma di quelle grandi e nere, che costruiscono formicai alti; le formiche si arrampicano e lasciano sopra il legno un liquido. Quel liquido è dissetante e ha un gusto simile all’aranciata, leggermente più agro, tendente al limone». [Testimonianza raccolta nell’estate del 2012]
La cultura locale forniva, e fornisce, lessico, immagini e strumenti; ma pure categorie interpretative. Geremia, ricordando le leggende diffuse a Erto, associa la scòla dal Bon Zùac ai rituali delle SS:
«La scòla dal Bon Zùac, secondo i nertàns [abitanti di Erto], era una squadra, una congrega che viaggiava solo di notte, incappucciata e con il volto nascosto. Si spostavano in fila e i paesani temevano che arrestassero il cammino di coloro che incontravano sulla propria strada, li portassero via con sé, o facessero loro del male; soprattutto ai bambini. A Buchenwald i racconti del terrore di Erto sono diventate persone in carne e ossa, le SS uccidevano i bambini a sangue freddo per dimostrare di essere realmente Übermenschen». [Testimonianza raccolta nell’estate del 2012]
La scòla dal Bon Zùac, scuola del Buon gioco, è credenza di antica origine e si riconduce ai convegni notturni di cui erano signore Diana o Erodiade, presieduti talora da una Signora di grande sapere che insegnava la virtù delle erbe e la difesa dai malefici. Nelle credenze di tali apparizioni, come della scuola del Buon gioco, già raccolta a Erto dalla ricercatrice Novella Cantarutti negli anni ’70 del Novecento, accanto ai cortei prevalentemente femminili al seguito di divinità notturne – nota lo storico Carlo Ginzburg [Storia notturna, 1998, pp. 80; 170-171] – ci sono squadre generalmente maschili impegnate nelle battaglie per la fertilità. Tali squadre, come i benandanti friulani, sono un’associazione di tipo iniziatico, organizzata in forma militare e guidata da un capo. La presenza di una dimensione iniziatica spiega probabilmente l’aura mortuaria che circonda i comportamenti di gruppi di giovani, talvolta associati in forme di violenza rituale, talvolta stretti in organizzazioni guerriere. La valenza iniziatica insita nella credenza della scuola del Buon gioco fornisce a Geremia la categoria interpretativa di un accaduto estremamente difficile da elaborare, nonché da comunicare, ovvero la violenza delle SS.
Il secondo compito che spetta a me come ricercatrice storica, nel lavoro di costruzione di un ponte tra l’esperienza personale e la memoria collettiva, consiste nel trovare la collocazione di tutte le parti del narrato all’interno dei quadri culturali e storiografici. Questa parte del lavoro è strettamente connessa con la ricchezza che la testimonianza orale offre. Infatti, raccontando la propria vita, il narratore riporta informazioni complesse, riconducibili a molte aree del sapere: tecniche di lavoro tradizionali, etnobotanica, medicina, sociologia, etnologia, storia… La sfida per lo studioso è quella di raccoglie quanti più stimoli possibili e accompagnarli verso quadri conoscitivi definiti. Il lavoro della storica si apre qui alla multidisciplinarietà. Il confronto con aree conoscitive diverse da quella storica diventa inevitabile per capire nel modo più adeguato possibile il racconto di un testimone.
Il lavoro da me condotto di ricondurre la testimonianza all’interno di quadri culturali, e storici in particolare, consolidati ha subito nel tempo un’evoluzione. Progressivamente, infatti, ho sentito la necessità di leggere le testimonianze alla luce di categorie nuove. Categorie come “partigiano”, “deportato”, “donna”, “bambino” durante il secondo conflitto mondiale e la Resistenza, sono indubbiamente fondamentali nel momento in cui io, come storica, voglia far confluire la testimonianza nei quadri storiografici. Tuttavia non sempre esauriscono i dubbi che emergono durante le interviste, e a posteriori durante il lavoro di riflessione sulle raccolte. Quindi il lavoro sulle categorie è diventato per me importante per ampliare il significato e il contesto dei narrati. Nella mia personale esperienza una categoria fra le altre che ha contribuito a fornire nuove chiavi di lettura delle memorie orali è stata quella della marginalità, esemplificata dal termine Torototèla nel già ricordato San Leonardo Valcellina. Tita, giovane bracciante che si unisce ai partigiani, che si presenta alle porte a chiedere da mangiare come da bambino faceva quando andava a carità, ma stavolta con il fucile in mano, è indicato dai compaesani come Torototèla. Il ragazzo verrà catturato, torturato e ammazzato nelle carceri di Roveredo in Piano. Quella del Torototèla è una figura sia fisica sia simbolica della fascia veneto-friulana che rappresenta il margine. È il mendicante, cantastorie, teatrante, che raccoglie il labile confine tra questua, banditismo e rivolta sociale. Nelle comunità rurali veneto-friulane il mendicante era accolto come bisognoso, e benvenuto; ma allo stesso tempo temuto. Quando poi si associava in gruppi, la rivolta sociale che ne poteva derivare, soprattutto nella stagione dei raccolti, diveniva reale pericolo per molti, e veniva ostracizzata dalle comunità rurali. L’ostracismo, il timore, ma anche la compassione che la comunità sanleonardese comunica nei riguardi del Tita partigiano, considerato appunto un Torototèla che prende le armi, si concretano nel lessico localistico delle campagne pordenonesi. Eppure il Torototèla ci può forse ricondurre a categorie culturali presenti non solo in quella zona, ma in altre campagne italiane della prima metà del Novecento. Categorie che rendono visibile un tratto della cultura immateriale rurale di quel periodo che altrimenti sarebbe più complesso illuminare; tratto della cultura immateriale, in questo caso, che legge la guerra civile.
Provvisorie considerazioni sullo stato della ricerca
Ho cercato qui di epilogare la mia esperienza come ricercatrice storica, ad oggi. Ho perciò fatto riferimento alle ricerche pubblicate da me, e ho citato testimonianze da esse tratte. Il lavoro di storica oralista si è rivelato un lavoro di pazienza, e di cesello. Ma proprio la pazienza che è necessario investire per comprendere il narrato degli altri si rivela fruttuosa, e restituisce una ricchezza di stimoli che è una delle motivazioni che mi spinge a proseguire questo tipo di lavori.
*Nelle testimonianze qui riportate non viene trascritto il dialogo tra me, intervistatrice, e il testimone. Questo perché nella mia pratica di storica oralista intervengo di rado durante l’esposizione del narratore. Vista l’età dei testimoni preferisco incontri non troppo lunghi, e piuttosto ripetuti nel tempo: un lasso di tempo di circa un’ora e mezza ad incontro permette al narratore di non stancarsi troppo, e di esporre le proprie memorie quasi senza interruzione. Il mio ruolo di intervistatrice, mentre il testimone racconta, si esplica essenzialmente nel riallacciare il filo del discorso, qualora venga perduto, e, a volte, nel chiedere di ripetere particolari che siano sfuggiti alla mia comprensione.
Foto di copertina: Frisanco e la sua vallata negli anni ’30 del XX secolo.
*Le foto pubblicate in questo articolo provengono dall’archivio digitale di Nuovadimensione ed.