Pubblichiamo la relazione “Fonti orali: percorsi di ricerca in Sardegna” tenuta il 16 giugno 2023 presso LUDiCa (Laboratorio di Umanistica Digitale dell’Università di Cagliari) dal professore Sandro Ruju, socio AISO, storico dell’età contemporanea, tra i “pionieri” in Sardegna dell’uso delle fonti orali nella storia del lavoro, dell’economia e di varie forme di imprenditoria sarda.
Io vi riporterò in Sardegna e proverò a raccontarvi le mie esperienze nel campo della storia orale, chiarendo anche che tra i principali temi dei miei interessi c’era e c’è ancora soprattutto il movimento operaio. Direi che le mie ricerche hanno cominciato a soffermarsi proprio sulla nuova realtà operaia che andava formandosi all’interno dei cosiddetti “poli di sviluppo”. Mi sono laureato a Roma nel 1971 con il professor Ferrarotti, in sociologia: la mia tesi era intitolata “Fabbrica e classe operaia al petrolchimico di Porto Torres”. Già da qualche anno prima avevo frequentato con altri giovani studenti i cancelli della fabbrica dove stava crescendo in quegli anni il più grande petrolchimico della Sardegna, di cui era proprietario l’ingegnere lombardo Nino Rovelli, il quale nel ‘68 aveva anche acquistato la Rumianca che aveva anche un nuovo stabilimento ad Assemini.
Rovelli, inoltre, dopo aver acquisito la proprietà della “Nuova Sardegna”, diventò il monopolista dell’informazione in Sardegna tramite l’acquisizione in modo meno esplicito, ma non meno reale, anche dell’”Unione Sarda”. Quindi sto parlando di un personaggio che ha segnato la storia della Sardegna negli anni ‘60 e ’70 in modo molto forte. Ed ecco perché, se guardate il mio sito, l’industria petrolchimica è al primo posto nelle mie ricerche ed ha catturato negli anni molta della mia attenzione.
Però ve ne parlerò dopo e invece partirei dal mio primo approccio con le fonti orali e con le interviste, un approccio che c’è stato quando mi sono messo sulle tracce di una categoria operaia di cui a Sassari sembrava scomparsa la memoria, quella dei conciatori. Sassari ebbe alcune importanti concerie tra ‘800 e ‘900. Questa che vedete nella copertina del sito era la fabbrica di Salvatore Dau, un dinamico imprenditore che si era fatto dal basso e, cominciando dall’artigianato, mise su una fabbrica di un certo rilievo. Se voi entrate a Sassari dalla strada di Alghero, trovate ancora, di fronte alla chiesa medioevale di Santa Maria, i resti di una grande conceria, che fu l’altro importante stabilimento cittadino: creata dal francese Scipion Viela nel 1860 passò poi in mano a un ramo della famiglia Costa proveniente dalla Liguria. Prima di capire l’importanza di questa lunga storia industriale mi ero concentrato, inizialmente, sulle vicende dei lavoratori delle conce, perché volevo analizzare il primo sciopero della storia del movimento operaio sassarese, che avvenne nel 1901 proprio nella conceria di Salvatore Dau. Fu quello il primo tentativo con cui la locale Camera del Lavoro, sorta l’anno prima, fece i conti e si scontrò col padronato di allora. Fu uno sciopero molto difficile, che durò più di un mese e si concluse con una sconfitta dei lavoratori, tanto che Salvatore Dau affermò che avrebbe continuato lui a imporre le regole nella sua fabbrica, dove non avrebbe consentito che entrasse il vento nuovo. Siamo agli inizi dell’età giolittiana ed è quella una fase nella quale anche nelle più importanti miniere sarde si stanno creando le prime Leghe (per inciso segnalo che nella sezione sul Movimento operaio del mio sito potete trovare l’inedita relazione tenuta in occasione del centenario del drammatico eccidio di Buggerru).
Anche se la mia attenzione era inizialmente concentrata sul mondo operaio, nello svolgere quella ricerca mi sono accorto che si trattava anche di una importante storia di impresa, dove emergevano diverse figure imprenditoriali e di lavoratori specializzati, che sono state credo abbastanza ben evidenziate proprio con le fonti orali.
In Via delle conce le interviste sono collocate nella seconda parte: chi ha curato quel libro, chi mi ha aiutato a costruirlo, è stato Manlio Brigaglia, uno storico che ho avuto la fortuna di avere come insegnante al liceo, e che era anche, come lui amava definirsi, un grande “facitore di libri” (si veda in proposito il volume Tutti i libri che ho fatto, frutto di una lunga intervista svolta insieme a Salvatore Tola, Editore Mediando, 2018): fu il professor Brigaglia a consigliarmi e a volere che le interviste fossero separate dalla prima parte del volume che contiene la ricostruzione storica basata sulle fonti tradizionali. Sulle fonti orali pesava d’altra parte allora più di qualche pregiudizio tanto che ci fu chi, pur recensendo positivamente quel libro, scrisse che le interviste finivano per “appesantirlo”. C’è peraltro chi affermò il contrario, ritenendo che era forse più interessante e consigliabile partire nella lettura proprio dalle interviste, per arrivare poi alla ricostruzione tradizionale.
Comunque, le venti testimonianze raccolte sulla realtà conciaria sono state riportate in quel caso in modo completo, cioè comprendendo sia le domande che le risposte in forma integrale; lo sottolineo perché, come sapete, altre volte gli storici orali decidono di eliminare le domande, di trasporre queste fonti in forma di racconto o di utilizzarne solo frammenti, come tasselli utili da inserire all’interno della loro più ampia ricostruzione. Questo uso parziale e in qualche modo strumentale delle testimonianze raccolte è un problema, un tema su cui la discussione è aperta, si tratta di scegliere cosa sia meglio fare: penso che ve ne parlerà dopo anche Laura Longo.
È stato proprio attraverso la ricerca sull’industria conciaria che sono entrato in contatto con Duccio Bigazzi (specialista nella storia d’impresa, che aveva appena pubblicato il suo volume sul Portello) e Giovanni Contini (uno dei maggiori esperti italiani di storia orale). Giovanni l’ho contattato dopo aver saputo che si era occupato di Santa Croce sull’Arno e che anche lui aveva studiato le concerie; da quel momento abbiamo continuato a mantenere rapporti, ed è lui che mi ha portato a capire meglio cosa fosse e quali potenzialità avesse la storia orale. Voglio ricordare, comunque, che in quegli anni a Sassari insegnava Nicola Gallerano, il quale, pur non facendone uso, era ben consapevole dell’importanza delle fonti orali; fu lui a dirmi una cosa importante, che per me allora non era scontata come può essere oggi: “Attenzione quando fai le interviste: le interviste non sono importanti solo per le informazioni che ti danno ma anche per il vissuto, la soggettività. Non cercare quindi nelle interviste soltanto le informazioni, sappi che anche uno scarto della memoria, cioè il fatto che, ad esempio, un testimone sbagli una data o rimuova un evento, può essere importante perché ci dice che la sua memoria ha fatto un lavoro su quello che è successo”. Quindi Nicola aveva cominciato a farmi capire che queste fonti orali sono delle fonti speciali e che, come tutti i documenti, chiamiamoli così, vanno poi analizzate, capite, interpretate.
Quando, successivamente, mi sono confrontato con la realtà della Gallura e dell’industria sugheriera, ho capito che mi trovavo di fronte a una storia lunga, che cominciava nel 1830 circa quando arrivarono i primi francesi a far capire ai sardi l’importanza del sughero e che si era sviluppata in più centri (Tempio, Calangianus, Luras, Berchidda). Allora c’era da individuare chi fossero stati questi primi francesi, dove avessero operato (ci fu anche chi andò a valorizzare le foreste del centro Sardegna) e bisognava quindi cercarne e trovarne tracce negli archivi.
A dimostrare che l’arco temporale della memoria individuale è limitato, si pensi che, quando negli anni Trenta del secolo scorso due personaggi del calibro di Claudio Demartis e Antonio Sanna provarono a ricostruire gli albori di questa attività produttiva c’era già una sorta di nebulosa sulle sue origini. Infatti poco o niente i testimoni da loro contattati ricordavano, ad esempio, di una pionieristica società franco-spagnola che aveva operato a Tempio intorno al 1870. Allo stesso modo alla fine del Novecento erano molto labili e parziali i ricordi della cosiddetta frabbica noa, il grande stabilimento creato a Tempio nel 1912 da una Società anonima che arrivò ad avere 300 dipendenti e il cui fallimento, dopo una decina d’anni, produsse la moltiplicazione di tante piccole aziende che furono in molti casi create da questi operai licenziati.
Perciò per me fu importante riuscire a raccogliere la pur breve testimonianza di Domenico Manchia, un operaio che vi aveva lavorato da giovanissimo e che mi raccontò la significativa ma fallimentare esperienza di una cooperativa che si formò dopo la chiusura della Società Anonima, avvenuta dopo gli scioperi del biennio rosso; così come fu interessante ascoltare i ricordi di un altro anziano operaio, Antonio Orecchioni, che descrive la sua esperienza di esperto quadrettaio cominciata nell’azienda del tempiese Giovanni Maria Panu, noto un tempo come “il re del sughero”.
Quando svolsi quella ricerca, stiamo parlando degli anni ’90, c’era una realtà industriale e artigianale molto forte e attiva, un vero e proprio distretto, di cui Calangianus era ormai il centro principale e vincente. Questo centro era diventato vincente all’interno della Gallura ed era riuscito anche a battere la concorrenza delle imprese toscane nella produzione di tappi però solo a partire dagli anni ‘60-’70. Invece i calangianesi dimenticavano che, nella storia lunga, era stato Tempio il principale centro produttivo e che proprio da Tempio si erano poi andate formando tante piccole imprese.
Nel riquadro sull’industria sugheriera inserita nella sezione Imprese e imprenditori nel sito trovate, tra l’altro, anche dei brevi estratti audio delle lunghe interviste ad alcuni imprenditori e a due intellettuali tempiesi di primo piano: il professor Tomaso Panu, che fu anche sindaco della città, e il professor Giulio Cossu, che apparteneva ad una famiglia che operava nel settore. Entrambi illustrano bene il ruolo che quell’attività produttiva ebbe nell’evoluzione di quello che è stato il capoluogo storico della Gallura.
Se andrete ad analizzare Il peso del sughero. Storia e memorie dell’industria sugheriera in Sardegna (Libreria Dessì, 2002), vedrete che alle pagine 207-209, ho messo a confronto i diversi punti di vista, i diversi modi con cui gli imprenditori, gli artigiani e gli operai di Calangianus, di Tempio e di Luras spiegano il sorpasso di Calangianus su Tempio. In questo caso ho saltato le domande e ho scelto di mettere a fuoco solo quei passaggi che, in proposito, mi sembravano più significativi: lo cito come un altro modo, forse più strumentale, di utilizzare le fonti orali.
Sulla tematica del lavoro di genere vi segnalo l’intervista a Peppina Alias, una donna che lavorò come tappaia dall’età di undici anni e che descrive bene il lavoro delle sugheraie, le quali lavorando in fabbrica riuscivano ad emanciparsi precocemente dalle loro famiglie. Queste operaie erano una caratteristica dell’industria tempiese, mentre a Sassari c’è stata una significativa presenza femminile nei pastifici (nella sezione Fonti orali del sito trovate due estratti delle mie prime video-interviste, che ho appena pubblicato in forma parziale nel volume I pastifici a Sassari e in Sardegna. Storia e memorie, Edes, 2023).
Mi fa piacere ricordare che su un altro lavoro tipicamente femminile, quello delle lavoratrici del crine, Marina Addis Saba fece svolgere anni fa una bella tesi di laurea basata sulle fonti orali; e che con le interviste ha lavorato anche Giacomo Mameli per scrivere il suo libro Le ragazze sono partite (Il maestrale, 2020) dedicato alle tante giovani che lasciarono la Sardegna per andare a servizio in Continente. Un terreno ancora in gran parte da esplorare con le fonti orali qui in Sardegna è invece quello dei lavori delle donne in campagna: penso, ad esempio, alle raccoglitrici di olive e alle raccoglitrici di mandorle. Per chiudere questa parentesi sui lavori femminili desidero segnalarvi le ricerche di due antropologhe, Gabriella Mondardini e Paola Atzeni, che attraverso le interviste hanno ben ricostruito, rispettivamente, il ruolo delle donne nel mondo della pesca (Compagne di viaggio. Le donne dei paesi di mare si raccontano, Edes, 2013) e la presenza nel settore minerario del mestiere delle cernitrici (Tra il dire e il fare, Cuec, 2007).
L’altro campo di ricerca di cui mi sono occupato è stato proprio quello delle miniere: un’attività che ha avuto un peso importante nella realtà economica e sociale della Sardegna e che costituisce ancora oggi un oggetto di studio. Come sapete, oltre alle grandi miniere piombo-zincifere, Malfidano, Monteponi, Montevecchio, Ingurtosu e alla differente e importante realtà di Carbonia, ci sono stati nell’isola almeno altri 60-70 centri minerari minori e alcuni di questi piccoli centri – stamani Laura Longo mi parlava di Villasalto, per esempio, dove c’era una miniera di antimonio e dove non sapevo fosse stato realizzato un museo. Su molte di queste realtà, più o meno piccole, ci sono ancora ricerche da fare e tante storie da scrivere anche attraverso le testimonianze orali.
Io ho studiato il mondo minerario partendo dalla realtà dell’Argentiera, che si trova tra Alghero e Stintino, nella costa occidentale e che è stata la più importante del nord Sardegna (nel mio sito è riportato integralmente il volume L’Argentiera. Storia e memorie di una borgata mineraria in Sardegna, Franco Angeli, 1996). Di questa realtà ho ricostruito la storia tra il 1864, quando ha ripreso a funzionare, sino alla chiusura nel 1963, e ho utilizzato come fonte principale scritta gli interessantissimi copia-lettere dei direttori. Obiettivo della mia ricerca non era finalizzato solo e/o prevalentemente alle vicende estrattive, ma puntava a ricostruire la realtà più ampia vale a dire la vita della comunità.
Perciò ho affiancato a questa e ad altre fonti scritte, la raccolta di una cinquantina di interviste (purtroppo non tutte registrate) che sono state fondamentali per consentirmi di ricostruire l’identità della borgata che era andata disperdendosi e i cui significativi frammenti erano rintracciabili, attraverso la memoria di chi ci aveva vissuto e che poi era tornato a risiedere anche molto lontano dall’Argentiera (questa borgata che dopo aver raggiunto, intorno al 1950, i 2.000 abitanti è ormai quasi del tutto spopolata).
Il volume sull’Argentiera è percorso trasversalmente da alcuni nodi interpretativi: la dinamica interno/esterno, il contatto tra due mondi così diversi come la miniera e la circostante realtà pastorale, l’articolarsi e il sovrapporsi di gruppi operai di differenti estrazioni e provenienze, lo scontro tra la forza spesso egemonica dell’ideologia aziendale e un’identità operaia a volte coincidente con l’ideologia del lavoro, il doppio e a volte conflittuale senso di appartenenza al proletariato minerario e alla comunità.
In questa sede vorrei concentrare la vostra attenzione su un momento di intenso scontro sociale che portò all’occupazione dei pozzi nei primi mesi del 1949. Questa dura vertenza avvenne sulla scia di un lungo sciopero dei minatori di Carbonia durato 70 giorni. Dopo questa lotta si sviluppò, in Sardegna, un conflitto sindacale fortissimo anche nel settore piombo-zincifero che, partendo dall’Iglesiente e dal Guspinese arrivò e coinvolse anche quella che questa miniera isolata, che però apparteneva come altre realtà isolane alla multinazionale Penarroja-Pertusola. Nel capitolo 13 del mio libro, ho fatto prima la cronistoria dei fatti, poi sono andato alla ricerca di quanto si trovava negli archivi del movimento operaio (anche nell’archivio nazionale della CGIL c’erano tracce di questo sciopero) e poi ho messo a confronto le voci dei protagonisti. È quello che in questa sede ci interessa di più perché, se lo leggerete, potrete trovare forse più di qualche analogia con il film Rashomon di Kurosawa, in cui uno stesso fatto viene raccontato e ricordato e interpretato in modo diverso dai protagonisti.
Questo sciopero fu drammatico, perché la società mineraria, la direzione, non accettavano l’occupazione e cercarono di stroncare in tutti i modi la lotta. Sul fronte opposto si trovarono ad operare il PCI, che voleva guidare politicamente e radicalizzare la vertenza; la CGIL che era fortemente condizionata dal partito comunista ma aveva anche una componente socialista; la componente cattolica del sindacato legata alla Democrazia Cristiana; la Commissione interna che, in qualche modo, aveva un punto di vista diverso e autonomo rispetto alla dirigenza del sindacato. Tra gli attori non secondari di quello scontro ci fu anche il cappellano della miniera, don Salvatore Fiori. un personaggio dotato di un forte carisma che rivendicava la sua autonomia dall’azienda e che era stato anche protagonista, qualche anno prima, di una vertenza sindacale che si era svolta ad Ingurtosu.
Nel volume I mondi minerari della Sardegna. Con dieci testimonianze orali (Cuec, 2008) ho ripreso e integrato il saggio apparso nel volume degli Annali della Fondazione Feltrinelli a cura di Stefano Musso, dove ho provato ad inserire la realtà dell’Argentiera nel più ampio quadro dello scontro sociale in Sardegna, mettendo a confronto le opinioni di alcuni dei protagonisti di primo piano di quelle vicende a livello regionale; e, in questo caso, ho scelto di trascrivere le interviste in forma di racconto diretto, eliminando le domande, che invece potete ascoltare, almeno parzialmente, nei brevi estratti audio riportati nella sezione Miniere del sito.
La durissima vertenza dei primi mesi del 1949 ebbe risvolti particolarmente gravi a Montevecchio, dove la lotta si concluse drammaticamente con un aut-aut della proprietà. Per rientrare a lavorare, l’azienda mineraria (che faceva capo alla Montecatini) impose di firmare un patto di collaborazione, con cui i lavoratori si impegnavano a non attuare una forma di lotta che l’azienda riteneva penalizzante. E chi non accettò questo diktat, soprattutto gli operai più politicizzati, fu licenziato.
Ad offrire tanti altri spunti per approfondire quella vicenda è il volume Montevecchio. La mia miniera. I protagonisti raccontano, Tema, 2006. A idearlo e curarlo è stato don Petronio Floris un sacerdote, anche lui già cappellano di miniera il quale, dopo aver visto negli anni Settanta una rappresentazione teatrale che raccontava le difficili lotte dei minatori, decise di raccogliere molte testimonianze sulle dinamiche sindacali che avevano caratterizzato nel secondo dopoguerra questa grande azienda. Tra gli intervistati ci sono anche personaggi di primo piano come l’ingegner Giovanni Rolandi e Arturo Tuveri. Non saprei dire se e dove i nastri di quelle interviste siano stati conservati. Così come non so se e dove siano conservati i preziosi verbali della Commissione interna, cui si fa cenno nel libro.
Peraltro voglio sottolineare che in Sardegna sulle miniere sono state già raccolte tante altre testimonianze orali. Sulla realtà di Carbonia ha indagato a lungo la già citata Paola Atzeni, dell’università di Cagliari, e alcune interviste le ha condotte insieme a Francesco Bachis. Ricordo che anni fa, a Carbonia, si era svolto un incontro dove avevano mostrato e commentato alcune di queste video interviste. Esistono poi un centinaio di interviste, relative soprattutto al comparto piombo-zincifero, che credo dovrebbero essere ormai disponibili online. Chi le ha pensate e volute è stato l’allora curatore dell’archivio della Monteponi, Pietro Cocco. Ad analizzare da poco in un saggio questa ampia documentazione sono state due studiose: una, Liliosa Azara, insegna a Roma, e l’altra, Eloisa Betti, insegna a Bologna.
Vi segnalo anche l’interessante docufilm, visionabile on line, che è intitolato La mina, basato sulle memorie dei sardi che sono andati a lavorare nelle miniere del Belgio dalla zona del Barigadu (il filmato è costruito con un montaggio focalizzato sui vari paesi della zona). Un po’ di anni fa le interviste erano state utilizzate, almeno parzialmente, per una ricerca sulla storia delle miniere di Lula intitolata Quando suonava la barilocca.
Quindi sul settore minerario in Sardegna c’è già tanto di strutturato nel campo delle fonti orali, ma c’è ancora tanto da sistemare e classificare, forse perché da noi nessun archivio di Stato ha scelto di muoversi seguendo quanto, pioneristicamente, ha fatto la Sovraintendenza archivistica della Toscana, che ha dato dignità alle fonti orali e le ha assunto come fonti importanti. Qua in Sardegna, purtroppo, sono ancora un po’ disperse e non abbastanza valorizzate.
Prima di concludere, vorrei almeno accennare alla complessa realtà dei lavoratori della petrolchimica, la cui storia dovrebbe avere a mio giudizio la stessa dignità e importanza di quella giustamente attribuita ai minatori. A livello nazionale, d’altra parte, molto si è studiato e scritto sulla realtà di Porto Marghera (penso in particolare alle ricerche di Laura Cerasi e Gilda Zazzara) e con le fonti orali è stato realizzato anche il volume I priolesi raccontano Priolo (a cura di Salvatore Adorno e Fabio Salerno, Verba Volant 2013).
Sul petrolchimico di Porto Torres c’è un vecchio libro, intitolato Gli anni della SIR (Edes, 1983), che raccoglie gli atti di un’iniziativa che organizzammo come ufficio-studi della Cgil e che fu un informale e ancora non del tutto consapevole tentativo di public history. In quella sede si trovarono a discutere e confrontarsi i protagonisti delle lotte sindacali alla SIR di Porto Torres, dove l’ingegner Nino Rovelli cercò di realizzare uno dei maggiori petrolchimici europei (rimando, in proposito alla voce che preparai per L’Enciclopedia La Sardegna (Edizioni della Torre, 1982).
Gli atti di quel convegno sono un documento di grande interesse: avendo conservato i nastri, sono riuscito da poco a farli digitalizzare integralmente. Quell’iniziativa, durata tre pomeriggi, fu una specie di happening, nel senso che gli interventi furono carichi di tensione: nell’aula magna dell’Università si respirava ancora l’atmosfera e i contrasti che si erano vissuti dentro la fabbrica ai tempi di Rovelli, mentre da qualche anno l’ingegnere brianzolo era ormai progressivamente uscito di scena: c’era stata un’inchiesta giudiziaria che aveva portato alla crisi della SIR, e questi impianti, questo grande stabilimento, erano passati alla gestione dell’ENI.
Nella sezione del mio sito dedicata al Movimento operaio trovate l’interessante prefazione a quel libro scritta da Vittorio Rieser, gli estratti audio di alcuni interventi di sindacalisti e operai; ed anche due lunghe interviste, trascritte in forma di testimonianza, a tecnici che, prima di arrivare a Porto Torres (dove conclusero la loro carriera) avevano lavorato in altri stabilimenti petrolchimici del Continente.
Sul sito trovate anche il testo integrale di un altro volume, La parabola della petrolchimica. Ascesa e caduta di Nino Rovelli (Carocci, 2003), costruito con sedici interviste ai protagonisti più rilevanti di questa storia industriale, tra i quali Giorgio Ruffolo, che fu il tecnico della Programmazione che coordinò il Piano chimico agli inizi degli anni Settanta e Giulio Andreotti – che fu a lungo ministro dell’industria, oltre che Presidente del Consiglio, e fu, tra i politici, quello più legato all’ingegner Rovelli (il quale peraltro aveva anche un rapporto privilegiato con il segretario del Partito Socialista di allora, Giacomo Mancini). La politica ha contato molto nella storia industriale italiana e questa storia della petrolchimica in Sardegna si lega anche alle vicende nazionali e alle grandi scelte sugli investimenti e sui finanziamenti pubblici: chi aveva finanziato la SIR-Rumianca, prima ancora del Credito Industriale Sardo, fu l’Istituto Mobiliare Italiano, presieduto dal banchiere sassarese Stefano Siglienti, che diede ampia fiducia alla SIR (si veda in proposito il volume di Vera Zamagni L’industria chimica italiana e l’IMI (Il Mulino, 2010).
Nelle interviste a questi personaggi, se voi le andrete a leggere, vi accorgerete che non sempre sono riuscito, in particolare con Andreotti, a fare quello che chi costruisce una fonte orale dovrebbe sempre fare, cioè una sorta di duello. È stato Giovanni Contini a dire che le interviste spesso sono paragonabili ad un duello, nel senso che a volte i testimoni hanno una bella storia che ci vogliono raccontare e noi, con le nostre domande, inevitabilmente, o forse necessariamente, gli rompiamo gli schemi, anche se dobbiamo essere abbastanza garbati nel farlo. Nel caso di Andreotti, che riuscii ad intervistare grazie alla Fondazione Antonio Segni, mi son trovato di fronte una persona già molta anziana che aveva l’età di mio padre e che, per giunta, era allora anche sotto processo. Quindi certe domande, in particolare sullo scottante caso Pecorelli, scelsi di non farle, mentre su questioni e aspetti più tecnici relativi agli investimenti e alle scelte industriali Andreotti mi rimandò a un tecnico, Luigi Cappugi, l’esperto di chimica del Ministero dell’Industria, che andai poi a intervistare. Altre interviste in quella ricerca mi hanno costretto a mettere in difficoltà i miei interlocutori, persone anziane che cercavano di ricostruire a modo loro le vicende di cui sono stati protagonisti.
Un altro libro più recente che ho costruito con le fonti orali è La Nuova Sardegna ai tempi di Rovelli (Edes, 2018). Il libro si basa su sette interviste a giornalisti, tipografi e funzionari della “Nuova Sardegna”, i quali raccontano da angolazioni diverse cosa avvenne quando alcuni di loro cercarono, stiamo parlando del ’73-’74, di ribellarsi al monopolio dell’informazione in Sardegna e di contrastare la SIR che voleva imporre la sua linea dentro il giornale, considerandolo un suo strumento. Alcuni scelsero poi di uscire dalla “Nuova Sardegna”, confluendo in un nuovo giornale che era sorto in Sardegna e che si chiamava “Tuttoquotidiano”, un quotidiano stampato a Cagliari che ebbe una vita breve e travagliata conclusasi dopo una difficile e sfortunata autogestione. Questa storia è raccontata da diversi punti di vista: quello dei tipografi è molto diverso da quello dei giornalisti “ribelli”; loro restarono nel giornale e, anzi, videro l’uscita di questi giornalisti quasi come una sorta di tradimento. E c’è anche la testimonianza di quello che, alla “Nuova” era il responsabile dell’amministrazione e che era ovviamente più legato all’azienda e alla SIR.
Recentemente ho ripreso a occuparmi delle vicende del movimento operaio a Porto Torres impegnandomi a raccogliere, con il prezioso supporto di Josep Pintus della Società Umanitaria, una serie di video interviste a dirigenti e esponenti di primo piano dei sindacati territoriali, con l’obiettivo di riuscire a dar conto in modo compiuto e ad anni di distanza da quegli eventi, di una storia sociale che ha profondamente trasformato il Nord Ovest della Sardegna.
Lo stimolo che mi ha spinto a riaffrontare questa tematica è stata l’interessantissima raccolta di storie operaie realizzate da Francesca Atzas e Umberto Cocco sulle memorie di Ottana, la fabbrica della Sardegna centrale, che ha avuto un percorso più breve del petrolchimico di Porto Torres e, in qualche modo, forse ancora più impattante sul territorio. Sul sito storieoperaie.it trovate già la trascrizione integrale di alcune di queste interviste. Tra l’altro ho notato (e l’ho detto anche a loro quando ci siamo visti a Ottana) che dimostrano, con le loro interviste, di esser capaci di rapportarsi bene ai loro testimoni: è molto positivo che partano dalle storie di vita, cioè non fanno domande subito sulla fabbrica, ma chiedono ai loro interlocutori di raccontargli la loro vita, per poi arrivare a parlare anche della fabbrica.
A questo proposito uno storico inglese, Paul Thompson, dice che in generale sarebbe meglio fare l’intervista proprio come storia di vita e approfondire e allargare il discorso fino al punto che ci interessa, ma arrivandoci piano. Secondo lui tra storia orale e storia di vita non che ci sono differenze sostanziali, mentre c’è qualcuno che tende a sostenere che ci sarebbe una differenza di fondo (rimando su questo tema agli interventi contenuti nel volume Storia orale e storie di vita, a cura di Liliana Lanzardo, Franco Angeli, 1989).
Quando Giampaolo Salice mi ha chiesto di mandargli una mia foto per la locandina di questa iniziativa, gli ho inviato un’immagine nella quale sono seduto su un divano con dei fogli a fianco di un vecchio signore. Adesso spiego perché avevo scelto quella foto: quel vecchio signore è un artigiano sassarese che io avevo intervistato e dal quale ero tornato, dopo l’intervista, con il testo trascritto; questa è una prassi (purtroppo non sempre rispettata) che sarebbe giusto seguire sempre: tornare da chi abbiamo coinvolto, da chi siamo andati a intervistare, per leggergli il risultato della nostra trascrizione e quindi condividerla e concordarla con l’interessato.
A proposito delle varie modalità di trascrizione accenno qui soltanto ai differenti punti di vista di questo è un’altra questione aperta nell’uso delle fonti orali. C’è l’antropologo Pietro Clemente che ritiene ad esempio che (forse è una regola dell’antropologia) occorra riprodurre l’intervista esattamente come si è svolta, senza omettere nulla: ad esempio se nel parlato c’è stata una ripetizione, va messa la ripetizione. Questa trascrizione di tipo filologico ha certamente dei pregi, ma ha anche un difetto: questo testo così trascritto spesso risulta di difficile leggibilità, è poco fruibile. Sono più d’accordo, sulla modalità delle trascrizioni, con quello che dice o che ha scritto Giovanni Contini: ci dice che lui non è per una eccessiva letteralità, dopotutto, ricorda Giovanni, il nostro documento è il nastro orale o l’audio-video, e la trascrizione è una interpretazione creativa, una transcodificazione, deve essere il più possibile leggibile. Aggiunge Sandro Portelli, uno dei maestri della storia orale in Italia, se tu pigli un bel parlato e lo trascrivi pari pari sulla pagina diventa uno scritto illeggibile, e questo è un tradimento, quindi un lavoro di editing, dice Portelli, lo devi fare. “Io lo faccio attraverso tagli, spostamenti, montaggi”: quindi Portelli dice quello che molti storici fanno, cioè il montaggio o smontaggio delle interviste, a volte, se ne parlava anche prima con Laura Longo, succede che gli storici orali prendono dei passaggi chiave di interviste e li usano come tasselli della storia che stanno costruendo. Questo è un uso forse un po’ strumentale, ma avviene spesso. Certamente farete delle esperienze anche voi e spero che possiate misurarvi con questo problema della trascrizione, ma effettivamente quando si presenta a un testimone un testo trascritto in modo letterale lui stesso non si riconosce; sicuramente anche io non mi riconoscerei, ad esempio, un domani se Laura mi presentasse la trascrizione di quanto sto dicendo stasera; e tra me penserei: “ho fatto tutte queste ripetizioni! Possibile sia stato così confuso!”: il parlato è diverso dallo scritto.
Un altro testo che voglio segnalarvi è il libro Verba manent (La Nuova Italia, 1993), una sorta di manuale ragionato sulla storia orale: lo hanno scritto Giovanni Contini e il suo amico, Alfredo Martini: in questo libro trovate tanti spunti e anche un racconto di cosa è stata la storia orale, non solo in Italia ma prima anche nei paesi anglosassoni. Un altro volume che vi consiglio è Il microfono rovesciato (Istresco, 2007) curato da Alessandro Casellato, dove ci sono le interviste agli storici orali che, per la prima volta, si trovano loro ad essere intervistati e quindi raccontano il loro lavoro e offrono tanti spunti di riflessione.
Ad esempio Gabriella Gribaudi, che è la maestra di Laura, sostiene che “può fare storia orale solo chi ha un certo amore per il racconto degli altri, chi si diverte a sentire ed ascoltare, e ha un certo rispetto per gli altri e per le loro interpretazioni della vita e della storia”, e poi dà un consiglio, sempre la Gribaudi: “Bisogna fare domande dirette, per esempio, mai chiedere come si viveva durante il fascismo, in modo generico ma, invece, tu che cosa facevi durante il fascismo?”, cioè suggerisce di fare domande che portino le persone a parlar di sé, a ricordare il proprio vissuto.
Infine cito un libro, molto più recente, intitolato Laboral: lo ha curato Stefano Bartolini, un giovane studioso che si occupa in particolare del movimento operaio toscano e che, nella sua introduzione, offre un sintetico quadro generale della storia orale. Nel suo contributo lo storico del lavoro Stefano Musso ribadisce che attraverso le storie di vita sono indagabili la soggettività, le identità, le culture individuali e collettive dei lavoratori, e osserva che, in particolare, quelle che vengono chiamate dagli studiosi le relazioni informali, senza la storia orale, non si potrebbero riuscire neanche a individuare.
Ora mi fermo e spero che voi mi facciate domande, perché vorrebbe dire che non ho parlato troppo e in modo confuso.