di Francesca Socrate.
Il 30 marzo 2021 il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Napoli Federico II ha organizzato una presentazione del libro di Gabriella Gribaudi, La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi nel Novecento, Viella, Roma 2020. Sono intervenuti David Bidussa, Francesca Socrate, Carolina Castellano, Elisabetta Bini, Massimo Cattaneo, Domenico Cecere, Annalisa Cegna. Pubblichiamo qui la relazione pronunciata dalla nostra socia e amica Francesca Socrate.
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Per prima cosa grazie agli organizzatori per questo invito che mi dà l’occasione di parlare di un libro che ho apprezzato molto fin dalla prima lettura, alla sua uscita un anno fa.
Perché La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi nel Novecento di Gabriella Gribaudi è un libro importante, per la storia del Novecento europeo e per la storia orale.
È un libro denso di ragionamenti, di osservazioni e di racconto, uno sguardo ad amplissimo raggio sulla memoria del trauma – o, meglio, sulle memorie dei traumi – attraverso un’analisi e una ricognizione ragionata della letteratura prodotta in questo ambito di studi.
Come si sa negli ultimi decenni la memoria ha assunto nello spazio pubblico delle nostre società occidentali una dimensione e un rilievo grandissimi – il cosiddetto memory boom a partire dagli anni ’80 e ’90 del secolo scorso – e in questo volume la presa in considerazione della memoria come oggetto e soggetto di storia trova il suo focus nella duplice esperienza, drammatica e traumatica appunto, della guerra e delle catastrofi naturali.
Sono d’altronde questi i temi su cui Gabriella Gribaudi ha lavorato negli ultimi vent’anni, con i suoi studi sulla seconda guerra mondiale sul fronte meridionale che intrecciano fonti ufficiali e fonti orali, in un continuo confronto fra memorie pubbliche e memorie private. Dal 2010, poi, Gabriella ha iniziato a indagare sulla memoria delle catastrofi naturali a partire dal terremoto di Napoli e dell’Irpinia del 1980.
Ma come ho detto questo volume è anche l’esito di un lavoro di riflessione e di studio attento di una vastissima letteratura italiana e internazionale su questo tema che Gabriella analizza su due piani diversi.
Il primo piano, direi teorico – cui è dedicato il primo capitolo – traccia un quadro delle forme che la memoria assume, dei suoi diversi significati e dei suoi diversi usi da parte di gruppi, di singole realtà sociali, di popolazioni, e poi delle istituzioni e della storiografia.
E in questa cornice ripercorre l’incrocio fra la storia orale e i memory studies, a cominciare dal boom memoriale esploso a ridosso della dissoluzione del mondo comunista e del frantumarsi del paradigma dicotomico che aveva prevalso nella cultura da guerra fredda del dopoguerra.
In questo fermento rammemorativo moltiplicato e pervasivo, la storia orale ha la sua specifica parte, un suo ruolo imprescindibile. È quello di ascoltare e far parlare i singoli, le persone: sono loro che, attraverso la memoria come forma della soggettività, ci restituiscono “la dimensione discontinua e plurima della storia attraverso esperienze che sfidano le categorie che siamo abituati a utilizzare per pensare il mondo” (Joan Scott).
La storia di vita che la pratica della storia orale raccoglie con le sue interviste è lo “strumento che ci riporta al particolare, al concreto, al locale e ai modi in cui le persone collocano se stesse nella storia” (Kilby e Rowland).
Ma c’è di più: le storie di vita, le memorie dei singoli istituiscono quel rapporto fra il micro e il macro che è capace di smontare la storia ufficiale, che riesce a riscriverla, o quanto meno a incrinarne la coerenza astratta e impersonale. Un nuovo punto di vista, insomma, che racconta un’altra storia.
C’è una considerazione di Gabriella Gribaudi che penso contenga le parole giuste per dire il senso della storia orale e quello che lei stessa ha voluto realizzare nella sua produzione di studiosa: “Una storia di vita è unica, è la vicenda di un individuo, ma l’individuo ci rimanda a un contesto, ne è parte, lo illumina per noi. Una storia è come una torcia immersa nel buio, quel cono di luce non è tutta la realtà, ma è parte di quella realtà, ci suggerisce delle tracce da seguire per approfondire il quadro”.
Questo libro ne è prova, centrato com’è sulle memorie delle vittime e dei traumi che queste hanno subito, nella profonda consapevolezza però dei rischi di un incontrollato ribaltamento di ruoli tra storia e memoria, quei rischi che sono stati peraltro segnalati da così tante voci: l’eccesso di memoria denunciato da Charles Maier, gli abusi della memoria di cui ha scritto Todorov, l’ossessione commemorativa analizzata da Enzo Traverso, eccetera. Su questo crinale si muove la storia orale che ricerca o dovrebbe ricercare l’empathic unsettlement di cui parla Dominick LaCapra, quella capacità – riprendo le parole di Gribaudi – di “esercitare un controllo e resistere a una totale identificazione con le vittime, ma contemporaneamente riuscire a catturare la dimensione affettiva delle loro esperienze”.
Dopo questa prima parte, il volume affronta in due distinti capitoli le difficili memorie della guerra e del dopoguerra in Europa e in Italia, per concludere nell’ultimo capitolo con un innovativo affondo sulla memoria delle catastrofi naturali, oggetto quest’ultimo trascurato, ignorato, tranne poche eccezioni, dalla storiografia italiana e internazionale.
Nell’economia del tempo che ho a disposizione, vorrei parlare a questo punto soprattutto del capitolo sull’Europa, un po’ il cuore del volume: un capitolo impegnativo e intenso, una pagina – 120 pagine in realtà! – di storia d’Europa tra la seconda guerra mondiale e quel lungo dopoguerra indicato da Tony Judt che va oltre l’89.
Grazie all’utilizzazione di una ricchissima e interessante produzione di testi centrati proprio sul rapporto tra l’autobiografia e il contesto generale, attraverso insomma una storia della memoria, questo capitolo dimostra fino a che punto la storia orale, la voce dei singoli possa essere quella torcia di cui ha scritto la stessa Autrice.
In questo lungo capitolo l’Europa infatti si popola, pagina dopo pagina, di memorie silenti e di memorie che escono alla luce, delle memorie cosiddette per procura che passano attraverso le generazioni (i testimoni di oggi erano allora bambini che raccontano oggi le esperienze dei genitori, come nel saggio di Marta Craveri e Anne Marie Losoncsy), di memorie fortemente conflittuali o di memorie contraddittorie, e attraverso le parole e le testimonianze dei singoli una mappa diversa viene a scompaginare quella ufficiale, così come le memorie individuali scardinano quelle istituzionali e salgono oggi alla superficie a nominare e denunciare un passato così a lungo impronunciabile. La trama nascosta dei ricordi dà vita a un racconto polifonico di un’Europa altra narrata in prima persona da chi aveva subito i massacri, le purificazioni etniche e gli spostamenti forzati di popolazione attuati dal nazismo prima e dalle politiche brutali dello stalinismo, e infine dalle sistemazioni postbelliche.
L’Europa si popola testimonianza dopo testimonianza di profughi, popolazioni, gruppi misconosciuti, chiusi per decenni in silenzi dolorosi o gravati da memorie rimosse che attraverso questo impegno memoriale del post 89, attraverso questa presa della parola riacquistano identità perdute o negate, riconquistano il loro passato e ricostruiscono in un racconto per loro dotato di senso le ragioni dei loro silenzi, le dinamiche delle loro sofferenze e sconfitte, e recuperano il nome e i luoghi delle loro comunità spaesate, nomi e luoghi riconquistati o ormai perduti, mitizzati, ma comunque rivendicati. Con operazioni memoriali complesse, che è appunto compito della storia dover contestualizzare.
Un esempio per tutti nella complessità della sua costruzione memoriale è quello dei tedeschi espulsi dalla Slesia studiato da Andrew Demshuk. I testimoni delle prime generazioni raccontano e scrivono dei luoghi abbandonati idealizzandoli nel rimpianto e in nome di quello stesso rimpianto dipingono la Slesia attuale in disfacimento e straniera, ma soprattutto il nazismo è sottaciuto, e qui riprendo direttamente Gabriella, “Gli espulsi interpretano il loro esilio come una forma di espiazione per i crimini nazisti perpetrati da altri, differenziando se stessi dai tedeschi nati nella zona occidentale. Si considerano le vere vittime della colpa tedesca”.
Ho detto prima “presa della parola”.
Perché lo studio della memoria del trauma ci pone di fronte a una questione su cui riflettere: penso ai pericoli della vittimizzazione messi in evidenza tra gli altri in modo acuto da Daniele Giglioli nella sua Critica della vittima ma sottolineati peraltro dalla stessa Gabriella.
Noi sappiamo, e ne ha scritto così bene Gloria Nemec a proposito del confine orientale nel dopoguerra in una pagina che mi sembra possa valere per molti dei casi presentati qui: il silenzio è un fatto storico, “fu un abito sociale di uomini e donne vissuti in anni di cataclismi, per conciliare le sfere del pubblico e del privato”. Ecco, io credo che anche l’uscita da quel silenzio sia un fatto storico, non sia solo memoria che può finalmente tornare alla luce ma sia appunto una presa della parola, segno drammatico di un processo di soggettivazione in atto. D’altronde è proprio Giglioli a scrivere un’affermazione a mio parere decisiva per leggere il significato, o almeno uno dei significati, della memoria traumatica: “Parlare è la prima forma di agency”.
A me sembra insomma che uno studio sulla memoria del trauma, più che sottostare al paradigma vittimario, possa essere letto sotto un’altra luce. Parlare è appunto la prima forma di agency, è la capacità di agire del soggetto, di trasformare il mondo, ha una sua forte capacità trasformativa. La vittima, il soggetto, rompendo il silenzio, si fa “agente responsabile, al centro dei suoi atti, e assume il suo destino”, si fa agente di se stesso (Jean-Pierre Vernant).
Accanto alla storia di comunità frantumate e negate, nelle pagine di questo libro, e soprattutto nel capitolo sull’Europa, ho letto in controluce l’affermarsi di una nuova agency, il protagonismo di profughi, di reduci, di uomini e donne scampate ai bombardamenti e alle violenze di massa, che dopo aver nascosto la propria storia e la propria identità nei mille contesti che le minacciavano, se ne rimpossessano attraverso un atto di rammemorazione e di racconto, le fanno diventare “esperienza narrata”, esperienza vera cioè perché narrata (Benjamin).
Sperando di poter sviluppare il tema nel secondo giro, vorrei fare solo un accenno alla parte finale del volume dedicata alle catastrofi naturali. A fronte del vuoto storiografico su cui si è cominciato a riflettere in questo anno di pandemia, la storia e la memoria delle catastrofi naturali è un oggetto di studio particolarmente interessante.
Già in queste pagine di Gabriella Gribaudi offre infatti spunti significativi per le analogie e le differenze tra i modi in cui quelle catastrofi sono state vissute e ricordate rispetto alla memoria delle guerre. E credo anche che la ricerca in quest’ambito possa costituire un quadro di riferimento per la riflessione sull’emergenza sanitaria che stiamo vivendo: non solo anche qui per le analogie e le differenze, ma per l’utilità che in questa fase può avere un approccio biografico che interroghi i singoli soggetti immersi nella storia del loro, e del nostro, presente.
Testi citati:
J. Scott, Storytelling (Forum: Holbwerg Prize Symposium Doing Decentered History), in “History and Theory”, 59 (2011).
D. LaCapra, Writing History Writing Trauma, John Hopkins University Press, Baltimore 2014
T. Judt, Postwar. Europa 1945-2005, Laterza, Roma-Bari 2017
M. Craveri, A.M. Losoncsy, Diventare testimone, fabbricare i testimoni, Riflessione sui ragazzi europei deportati in Unione Sovietica, in G. Gribaudi (a cura di), Testimonianze e testimoni nella storia del tempo presente, editpress, Firenze 2020
G. Nemec, Trauma memories e uso pubblico al confine orientale nel lungo dopoguerra, in G. Gribaudi (a cura di), Testimonianze e testimoni nella storia del tempo presente, editpress, Firenze 2020
D. Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, nottetempo, Roma 2014.
J.-P. Vernant, Catégories de l’agent et de l’action en Grèce ancienne, in Langue discours société. Pour Émile Benveniste, sous la diréction de J. Kristeva, J.-Cl. Milner, N. Ruwet, Paris 1975, pp. 365-373.
W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikola Leskov, in Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962 (ed. or 1955).