Tratto dal libro Buone pratiche per la storia orale. Guida all’uso, Editpress, Firenze 2021.
Il 27 aprile 2016 l’Unione europea ha adottato il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (noto anche con il suo acronimo in lingua inglese: GDPR); esso è diventato operativo il 25 maggio 2018 ed è oggi la nuova normativa di riferimento sulla privacy nei paesi dell’UE. Si applica a chiunque – istituzione, organizzazione, individuo – raccolga e tratti dati di carattere personale relativi a persone fisiche. Riguarda, quindi, anche coloro che registrano interviste secondo la metodologia della storia orale.
Le istituzioni di ricerca e di conservazione delle fonti orali – come università e biblioteche – hanno adeguato le loro prassi al nuovo quadro normativo; anche alcune associazioni professionali hanno elaborato linee guida che interpretano il GDPR e propongono soluzioni alla portata dei ricercatori sia professionali sia indipendenti.
La britannica Oral History Society ha pubblicato nel suo sito un vademecum dal titolo Data protection for oral historians and organisations holding oral history interviews, scritto da Robert Perks, curatore della sezione Oral History presso la British Library. Questo documento – prodotto nel maggio 2018, prima che la Brexit producesse i suoi effetti – è una guida utile anche agli storici orali non britannici.
Sempre nel 2018, quattro autori/autrici francesi hanno pubblicato un contributo sulle fonti orali all’interno di un libro sulle questioni etiche e giuridiche introdotte dal processo di diffusione digitale dei dati nel campo delle scienze umane e sociali. L’articolo è il frutto di un lavoro svolto da un gruppo che comprendeva storici, archivisti e un avvocato, sotto la direzione di Maurice Vaïsse; prende le mosse dal Rapport sur le statut juridique des témoignages oraux del 2013, e arriva a formulare alcune ‹buone pratiche› per la raccolta, il trattamento e l’utilizzo delle testimonianze orali, facendo i conti anche con il Regolamento generale per la protezione dei dati (GDPR).
Anche negli USA si sono manifestate alcune novità. L’Oral History Association (OHA) ha pubblicato nell’ottobre 2018 una nuova edizione dei propri Principles and Best Practices for Oral History, che sostituisce la precedente versione adottata nel 2009. Si tratta di un prodotto complesso, articolato in quattro documenti: (1) i principi fondamentali dell’associazione, (2) un documento sulle questioni etiche, (3) le buone pratiche, (4) un documento per le persone intervistate; nell’ottobre 2019 è stato aggiunto un ulteriore documento: dal titolo Archiving oral history. Questi documenti sono pubblicati nel sito dell’OHA assieme a un glossario dei termini tecnici, a una sintesi della lunga storia che ha portato l’associazione, fin dal 1966, a formalizzare e più volte rivedere le proprie ‹linee guida›, e a un’introduzione scritta dal gruppo di lavoro che si è incaricato di quest’ultimo aggiornamento.
Il documento (4) For Participants in Oral History Interviews rappresenta la novità più significativa: è un testo che ha come obiettivo quello di spiegare agli intervistati le diverse fasi del processo di formazione della fonte orale e, quindi, di consentire loro di decidere in maniera pienamente informata se partecipare al progetto di storia orale. Pur senza un impulso esterno di tipo normativo, la comunità scientifica negli USA si è mossa nella stessa direzione che in Europa il GDPR ha indicato.
In Italia, all’indomani dell’entrata in vigore del GDPR, il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto sul Codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali per scopi storici che aveva adottato nel 2001, individuando «le disposizioni […] ritenute non conformi al Regolamento» e riportando in un nuovo atto le disposizioni conformi, oggi ridenominate Regole deontologiche per il trattamento a fini di archiviazione nel pubblico interesse o di ricerca storica. All’art. 8, intitolato «Fonti orali», è stata eliminata la disposizione che consentiva al ricercatore di fornire una «informativa semplificata» alle persone che chiedeva di intervistare; il GDPR, infatti, «non prevede alcuna forma di deroga o semplificazione agli obblighi informativi, quando i dati sono raccolti presso gli interessati» (art. 13). L’articolo 8 delle Regole deontologiche si presenta ora in questa forma:
- In caso di trattamento di fonti orali, è necessario che gli intervistati abbiano espresso il proprio consenso in modo esplicito, eventualmente in forma verbale.
- Gli archivi che acquisiscono fonti orali richiedono all’autore dell’intervista una dichiarazione scritta dell’avvenuta comunicazione degli scopi perseguiti nell’intervista stessa e del relativo consenso manifestato dagli intervistati.
Queste novità hanno imposto all’AISO di riconvocare il gruppo che aveva prodotto le Buone pratiche del 2015, chiedendogli di verificarne la tenuta ed eventualmente di adeguarle al nuovo quadro normativo (al gruppo del 2015 si sono aggiunti Roberto Labanti, socio AISO, e Paolo Guarda, ricercatore in Diritto privato comparato presso l’Università di Trento). I lavori si sono svolti durante il 2019 e la prima metà del 2020 (qui il link alle Buone pratiche per la storia orale, seconda versione, 2020).
Si è partiti dalla constatazione che il GDPR è stato emanato per uniformare le diverse normative nazionali esistenti in materia di protezione dei dati personali, senza stravolgerne i principi e le impostazioni. Esso ha però messo in evidenza alcuni rischi, introdotto delle novità a livello procedurale ed elevato le sanzioni per chi non le rispetta.
Il GDPR è costruito intorno al principio guida dell’accountability, che potremmo tradurre come responsabilità e insieme verificabilità delle procedure. Per chi fa storia orale, questo si traduce nel richiamo all’accuratezza delle prassi da seguire nella raccolta, conservazione e utilizzo delle interviste. Infatti, il nuovo Regolamento europeo richiede che i passaggi che si è soliti fare quando ci si rapporta alle persone da intervistare siano maggiormente esplicitati e soprattutto documentati, così da poter sempre rendere conto delle procedure seguite e consentire alle persone coinvolte nelle interviste di poter esercitare i propri diritti a tutela dei dati personali che li riguardano; richiede inoltre di operare con maggiore cautela nella conservazione e nella diffusione dei dati personali che riguardano non solo le persone intervistate, ma anche terzi che ne siano interessati.
Il lavoro di revisione delle Buone pratiche del 2015 è stato quindi leggero, non essendo cambiati i principi deontologici che ne erano alla base; tuttavia, sono stati fatti alcuni interventi necessari per allineare specifici passaggi agli obblighi introdotti dal GDPR, insieme a piccole modifiche di ordine lessicale e stilistico (per esempio, è stato sostituito l’anglismo «soggetti umani» – calco di «human subjects» – con la locuzione «persone viventi»).
Nel paragrafo sulla raccolta delle interviste, relativamente al consenso informato, ci si è adeguati alla nuova versione dell’art. 8 delle Regole deontologiche per il trattamento a fini di archiviazione nel pubblico interesse o di ricerca storica: si è specificato che il consenso deve essere esplicito, confermando che può essere prestato in forma sia scritta sia orale, ma introducendo l’avverbio «eventualmente» («eventualmente in forma orale») ripreso dal testo delle Regole deontologiche. Infatti, la forma scritta sembra ormai quella più semplice da gestire, anche se la scelta rimane in capo al singolo ricercatore, che è chiamato a valutare caso per caso.
Inoltre, nell’elenco di informazioni che «formano necessariamente oggetto di comunicazione preventiva e di consenso» sono stati aggiunti la finalità della ricerca e il luogo e le modalità di archiviazione della registrazione. Proprio per poter dare a chi è intervistato un’informazione completa su tutti gli aspetti relativi al progetto di ricerca relativamente ai quali egli deve esprimere il proprio consenso a partecipare con un’intervista, è parso opportuno fornire – a corredo delle Buone pratiche – un Modulo di autorizzazione all’intervista. Tutte le informazioni ivi contenute possono essere comunicate anche solo verbalmente – così come in forma verbale può «eventualmente» essere espresso il consenso – ma l’intero scambio di informazioni e consenso deve essere documentato, cioè registrato. In alternativa, e forse più semplicemente, il ricercatore può consegnare il Modulo, opportunamente adattato alla specifica situazione, facendone firmare all’intervistato una copia a mo’ di ricevuta.
Alla fine del paragrafo sulla raccolta delle interviste, in un capoverso dedicato a ricapitolare le possibilità di controllo che l’intervistato ha sui propri dati personali che ha rilasciato, è stato aggiunto un riferimento a una delle indicazioni del GDPR, ricordando che l’intervistato ha «il diritto di accedere ai dati forniti nell’intervista, di integrarne o specificarne o modificarne i contenuti». Ad esso segue, però, un invito – che è epistemologico e deontologico – a mantenere in ogni caso l’integrità della fonte orale, che in quanto tale non può essere manomessa neppure da coloro che l’hanno prodotta: «in tali casi il ricercatore provvede ad annotare, in appositi spazi o registri, le modifiche richieste dall’intervistato, senza variare i dati originariamente raccolti». In questo modo rimane distinto il piano della conservazione della fonte da quello del suo utilizzo, e quindi della diffusione delle informazioni che vi sono contenute.
Questo passaggio introduce al successivo paragrafo delle Buone pratiche, incentrato sull’utilizzazione delle interviste. Qui l’unica innovazione, rispetto alla versione del 2015, consiste nell’aggiunta della seguente frase: «È responsabilità del ricercatore valutare quali dati personali contenuti nelle interviste possono essere diffusi in quanto pertinenti e indispensabili alla ricerca e se gli stessi non ledano la dignità e la riservatezza delle persone». È un punto importante e delicato, che riguarda non solo chi lavora con le fonti orali, ma chiunque faccia ricerca storica su documenti che contengano dati personali; il Codice deontologico prima, e le Regole deontologiche adesso, vi si riferiscono così: «L’utente può diffondere i dati personali se pertinenti e indispensabili alla ricerca e se gli stessi non ledono la dignità e la riservatezza delle persone» (art. 11, c. 4). Le Buone pratiche riprendono quasi testualmente queste parole, enfatizzando però la centralità e la responsabilità del ricercatore nel valutare la condizione di pertinenza e indispensabilità.
Infine, nel paragrafo della Buone pratiche sulla conservazione delle interviste è stata inserita una raccomandazione al ricercatore di aggiungere, nella ‹scheda di corredo› all’intervista, «ove sia il caso, la presenza di categorie particolari di dati personali o elementi che possano ledere la dignità e riservatezza di terzi». Questa accortezza aiuterebbe chiunque dovesse utilizzare l’intervista a essere immediatamente informato dei punti più esposti in relazione alla privacy, facilitando in particolare il lavoro dell’archivista.
Il gruppo di lavoro dell’AISO ha ritenuto quindi di mantenere sostanzialmente invariato l’impianto delle Buone pratiche per la storia orale approvate nel 2015. Ha però formulato anche una serie di FAQ (domande e risposte) che aiutino i ricercatori a interpretare il GDPR e a calarlo nella pratica specifica di chi lavora con le fonti orali; in questo modo ha scelto di tenere concettualmente distinto il piano deontologico – ovvero le Buone pratiche – da quello più strettamente giuridico, legato al trattamento dei dati personali vincolato alla normativa vigente. Le FAQ sono pubblicate nel sito dell’AISO, e potranno essere successivamente aggiornate e ampliate, a seconda delle richieste e dei casi che si daranno.
È importante, però, rimarcare anche qui la distinzione sia concettuale sia materiale tra quello che è stato definito il «consenso informato» all’intervista, cui si riferisce il Modulo di autorizzazione all’intervista, e quello che il GDPR prescrive di comunicare in maniera analitica agli individui di cui – come ricercatori – trattiamo i dati personali, e che chiameremo Informativa sul trattamento dei dati personali per la raccolta di fonti orali. Con il primo, noi comunichiamo alla persona intervistata l’oggetto e le finalità della nostra ricerca, e su questo le chiediamo di esprimere il consenso a partecipare alla ricerca concedendo l’intervista; con la seconda la informiamo sui modi in cui tratteremo i suoi dati personali e in cui essa potrà controllarli.
L’Informativa sul trattamento dei dati personali richiede di essere adattata alle diverse situazioni. La distinzione più importante che è stato necessario introdurre è tra i ricercatori che lavorano per un’istituzione pubblica che ha tra i propri scopi statutari quello della ricerca o della raccolta di documentazione (università, scuole, centri di ricerca, biblioteche e archivi pubblici), e i ricercatori indipendenti, volontari o dipendenti da centri di ricerca privati. Nel primo caso, la base giuridica che legittima l’operazione di raccolta di dati personali rientra nella condizione prevista dall’art. 6 comma e) del GDPR, cioè «esecuzione di un compito di interesse pubblico». Nel secondo caso, essa rientra nella condizione prevista dal comma f), cioè del «perseguimento del legittimo interesse» che consiste nell’esercizio della ricerca storica.
Indicare con precisione la base giuridica è uno degli obblighi che il GDPR impone per rendere legittima una raccolta di dati personali. L’individuazione della base giuridica va meditata con molta attenzione perché condizionerà poi le possibilità di conservare e utilizzare i dati raccolti. Seguendo anche le scelte della Oral History Society, si è valutato che, tra le diverse condizioni che il GDPR prevede, quelle più confacenti a chi raccoglie fonti orali per ricerca storica siano le due sopra menzionate.
Il GDPR richiede un’ulteriore base giuridica per il legittimo trattamento di quelle che definisce «categorie particolari di dati personali». Esse corrispondono ai «dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale» – che prima si definivano «dati sensibili» – e ai «dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona». Sono informazioni che spesso scaturiscono da un’intervista di storia orale e che possono riguardare non solo l’intervistato, ma anche terze persone identificabili di cui questi abbia parlato. (Va ricordato che in Italia la protezione dei dati personali è estesa anche alle persone decedute). Ai fini della procedura di raccolta dell’intervista, nell’Informativa è necessario esplicitare che il trattamento delle «categorie particolari di dati personali» viene effettuato per fini di «archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica» (art. 9, par. 2, lett. j). I dati di queste «categorie particolari» devono essere trattati con estrema cautela: possono essere diffusi solo se siano già stati resi di dominio pubblico dagli interessati, oppure se il ricercatore li ritenga pertinenti e indispensabili al perseguimento degli scopi della ricerca ma a condizione che non rechino danno o pericolo alle persone interessate e non ledano la loro dignità e riservatezza. Queste condizioni rendono molto difficilmente praticabile la pubblicazione integrale delle interviste in Internet senza un vaglio preventivo e una scrematura delle informazioni riguardanti terze persone identificabili (in Italia, anche se non più viventi).
L’Informativa sul trattamento dei dati personali contiene anche altri campi (tutti quelli previsti dal GDPR). Essa deve essere consegnata alla persona intervistata; come prova dell’avvenuta consegna, le si farà firmare una copia a mo’ di ricevuta, oppure se ne documenterà il passaggio all’interno della registrazione dell’intervista.
Le prescrizioni del GDPR in merito al trattamento dei dati personali coinvolgono in senso lato tutti i ricercatori sul tempo presente e il passato recente, e non solo coloro che lavorano con le fonti orali. Le associazioni scientifiche degli antropologi sono state tra le più reattive, e il gruppo di lavoro dell’AISO ha interloquito con alcune loro esponenti durante il processo di revisione delle Buone pratiche alla luce del GDPR. Ma sono stati soprattutto gli archivisti professionisti ad aver avviato un dibattito pubblico sulle conseguenze del GDPR sul proprio mestiere, e alle loro conclusioni è utile riferirsi per tutto ciò che riguarda le prassi di conservazione, comunicazione e diffusione dei dati personali conservati nei documenti storici (tra i quali, appunto, le interviste registrate).
Tuttavia, come è noto, lo storico orale è anche il primo archivista delle interviste che realizza: almeno fino a quando non le conferisce a un archivio, ha la piena responsabilità della loro conservazione e del modo in cui le utilizza. Le FAQ pubblicate nel sito dell’AISO aiutano anche ad affrontare il nodo della sicurezza dei dati e quindi della conservazione delle fonti orali. Esse consigliano ai ricercatori che lavorano per le università e i centri di ricerca di utilizzare le infrastrutture e i servizi per la conservazione dei dati di cui questi enti dovrebbero essersi dotati, secondo protocolli e standard di sicurezza superiori a quelli normalmente accessibili ai singoli studiosi. Ai ricercatori indipendenti e alle associazioni che conservino archivi orali, il consiglio è di mettere in atto le misure più opportune per minimizzare i rischi di violazione dei dati personali, per esempio avendo cura di non conservare copie delle interviste in supporti che possano essere facilmente smarriti, di non mettere on line il proprio archivio senza filtri e adeguata protezione e di prestare particolare attenzione alle interviste che riguardino soggetti vulnerabili (malati, perseguitati politici, migranti, ecc.).